Programmazione ed ecologia in Marx
di Francesco Bugli – RdC Rimini
L’obbiettivo del presente intervento è quello di portare a tema la questione della programmazione ecologica in Marx (accennando in apertura anche alla concezione di Engels). All’interno del primo (1867) e del terzo libro del Capitale (1894) Marx va elaborando una risposta al tema della distruzione capitalistica della natura umana ed extra umana, a partire dal governo razionale e pianificato dello Stoffwechsel (metabolismo) tra uomo e natura. In Engels il tema della programmazione economica è affrontato nell’opera Antidüring (1878), dove sulla scia di Marx, egli allude al piano come una forma di produzione sociale in cui i lavori privati divengono immediatamente sociali e in cui viene superato il sistema di produzione basato sulla merce, sulla logica del valore e del lavoro astratto [1] . Il tema in Marx si lega direttamente all’idea di superamento del mercato come nesso sociale che regola la società capitalistica che, come tale, è un rapporto che avviene alle spalle degli attori sociali, in cui domina il feticismo dove i rapporti sociali tra persone vengono mediati da oggetti particolari: le merci [2] .
La critica dell’economia politica marxiana ha come bersaglio la concezione gli economisti classici, ancorati all’analisi del prezzo di mercato. Alcuni di loro, come ad esempio Ricardo, riconoscono il valore-lavoro e lo ancorano a un prezzo naturale. Per Marx essi compiono «una tarda scoperta scientifica: che i prodotti del lavoro, in quanto lavori, non sono che espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione»; tale scoperta è per Marx epocale [3] . Tuttavia, gli economisti classici sono le prime vittime del feticismo del capitale, non comprendendo la differenza sostanziale tra l’immaterialità dei valori come tempo di lavoro socialmente necessario e la loro espressione sotto la forma della merce-denaro. Qui Marx bersaglia l’a storicità di tali posizioni, che non comprendono l’immanenza della legge del valore al solo modo di produzione capitalistico ma la estendono a ogni epoca della produzione umana. L’incomprensione si origina a partire dalla mancata cognizione di come il feticismo impatti sugli attori sociali, a cui sfugge il nesso complessivo della società in cui vivono.
Quel nesso gli sfugge perché, lungi dall’essere sotto il loro controllo cosciente, appartiene a un rapporto di capitale che è cosificato e li cosifica. Il modo di produzione capitalistico poggia su una base storica che lo pone in discontinuità rispetto alle epoche precedenti. Secondo Marx «le categorie dell’economia borghese sono forme di pensiero che sono socialmente valide, quindi anche oggettive, per i rapporti di produzione propri di questo modo di produzione sociale storicamente dato» [4] . Inoltre, nel poscritto all’edizione tedesca del primo libro del Capitale, Marx riferisce del carattere ideologico e transitorio dell’economia politica e scrive: «in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l’ordine capitalistico non come stadio di sviluppo storicamente transitorio, ma al contrario come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, l’economia politica può rimanere scienza solo finché la lotta di classe resta latente, o non si rivela che in fenomeni isolati» [5] .
La discontinuità del presente modo di produzione rispetto a quelli passati è capace di illuminarci sulla stessa storicità di quelli presenti. Nel modo di produzione feudale le relazioni sociali erano di fatto cristalline agli occhi degli attori sociali: il feticismo della merce era assente. Ad esempio, il sistema di produzione legato alle corvée, guidato da relazioni sociali coatte e di dipendenza personale dove i lavoratori non erano formalmente liberi, portava al fatto che ogni servo della gleba sapeva che quella che spendeva al servizio del padrone era «una quantità della propria forza lavoro personale». «I rapporti sociali tra le persone nei loro lavori – scrive Marx – appaiono quindi come i loro propri rapporti personali, e non travestiti da rapporti sociali tra le cose, tra i prodotti del lavoro» [6]
Lo stesso vale per l’unità produttiva contadina patriarcale dove il lavoro del singolo è immediatamente sociale. Lì non si dà un rapporto sociale guidato dal valore che avviene alle sue spalle e aspetta la sua validazione tramite lo scambio di mercato. In merito al lavoro in comune e immediatamente socializzato all’intero dell’unità patriarcale contadina, occorre richiamare direttamente il testo marxiano: i diversi oggetti della produzione – scrive Marx –
si presentano di fronte alla famiglia come prodotti diversi del suo lavoro domestico, ma non si presentano l’uno di fronte all’altro come merci. I lavori di genere differente che creano questi prodotti, aratura, allevamento, filatura, tessitura, sartoria ecc. sono nella loro forma naturale funzioni sociali, perché funzioni di famiglia, che possiede la sua propria e naturale divisione del lavoro […]. Ma qui il dispendio delle forze lavoro individuali, misurato dalla durata temporale, appare per sé come determinazione sociale dei lavori stessi, perché le forze del lavoro individuali operano di per sé soltanto come organi della forza lavoro collettiva [7]
L’elemento da cogliere in questa riflessione è come in ogni società vi sia la necessità di dividere e distribuire i singoli lavori, tenendo conto del tempo di lavoro che ognuno di questi singoli impieghi porta con sé. Solo all’interno del modo di produzione capitalistico, come scrisse a suo tempo Lucio Colletti,
mancando una divisione consapevole e pianificata del lavoro sociale, il tempo di lavoro che le varie unità produttive richiedono si presenta come una qualità intrinseca ai prodotti stessi, cioè come “valore” di “cose”. Questo [è lo] scambio tra legge del tempo di lavoro (da cui nessuna società può prescindere) e la sua realizzazione feticistica nel mondo del capitale e delle merci, ovvero in termini più moderni lo scambio tra principio del piano e legge del valore [8] .
Il movimento dell’accumulazione capitalistica si configura come forma indifferente al contenuto, un processo che Marx stesso definisce «privo di contenuto, perché tautologico» [9] . Com’è noto, cioè, si tratta di un processo dove gli estremi della formula economica si esprimono in denaro mediato dalla forma merce (D-M-D’) [10] . La circolazione propriamente capitalistica, ovvero la circolazione di denaro come capitale, è un processo fine a sé stesso dal momento che «la valorizzazione del valore esiste solo all’interno di questo movimento che non conosce tregua» [11] . «Il movimento del capitale, perciò – continua Marx –, non ha confini» [12] . Il valore d’uso non è il fine ma lo sono invece il valore e il suo «incremento illimitato»: un movimento dove merce e denaro sono «modi diversi di esistere del valore stesso» [13] . Che, come sostanza cangiante del capitale (la cui origine è da rintracciarsi nello sfruttamento del lavoro vivo), «passa costantemente da una forma all’altra senza perdersi in questo movimento, e così si trasforma in un soggetto automatico» [14] .
Il movimento dell’accumulazione capitalistica come soggetto automatico è per sua natura indifferente a ogni concreto e funziona su base tautologica, come recita l’adagio nichilistico attribuito a Luigi XVI: Après moi le dèluge! Adagio che viene ripreso da Marx nel descrivere «il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalistica»: il capitale «non ha riguardi per la salute e la durata in vita dell’operaio – scrive Marx – finché la società non lo costringa ad averne» [15] . Non è il singolo capitalista a governare questo meccanismo, ma sono le leggi coercitive della concorrenza che agiscono «come legge coercitiva esterna, le leggi immanenti della produzione capitalistica» [16] .
In questo movimento, guidato dal soggetto automatico del valore, il modo di produzione capitalistico esaspera l’antagonismo tra città e campagna, creandone una sintesi superiore e distruttiva. Tutto ciò – ecco il punto – porta allo sconvolgimento del metabolismo o ricambio organico tra uomo e natura (Stoffwechsel). Secondo Marx «il modo di produzione capitalistico distrugge insieme la salute fisica dell’operaio urbano e la vita intellettuale del lavoratore agricolo» [17] . Lo sviluppo dell’agricoltura moderna intrecciata con la grande industria porta «a un progresso non solo nell’arte di depredare l’operaio, ma anche nell’arte di depredare il suolo – scrive Marx –; ogni progresso nell’incremento della sua fertilità per un certo periodo, è insieme un progresso nella rovina delle sue sorgenti perenni» [18] .
Nel capitolo dedicato alla giornata lavorativa Marx insisterà sulla distruttività del capitale nei confronti del corpo incarnato dei lavoratori e delle lavoratrici, mettendolo in relazione allo sperpero della fertilità dei campi. E scriverà:
il capitale non si dà pensiero della durata di vita dell’operaio; ciò che lo interessa è il massimo che ne può mettere in moto durante una giornata lavorativa. Ed esso raggiunge lo scopo abbreviando la durata di vita della forza lavoro, così come un rapace agricoltore ottiene dal suolo un maggior rendimento depredandolo della sua fertilità naturale [19] .
La risposta marxiana alla distruzione capitalistica della natura e della forza lavoro è la proprietà comune della terra e la messa in comune del lavoro. La conservazione della terra e delle proprietà del suolo, rispetto allo sperpero capitalistico, è considerata come elemento centrale per un’agricoltura razionale contrapposta a quella di rapina basata sulla proprietà privata [20] . Per Marx, che lo scrive nel terzo libro del Capitale, in una società post-capitalistica e comunista un’agricoltura razionale dovrebbe configurarsi a partire dalla socializzazione della proprietà della terra, ossia attraverso «un trattamento razionale e cosciente» della stessa «come eterna proprietà comune, condizione inalienabile di esistenza e riproduzione delle generazioni umane che si susseguono» [21] . Lo sviluppo del sistema moderno di agricoltura combinato con quello della grande industria porta secondo Marx all’esaurimento delle fonti di ogni ricchezza come valore d’uso: il lavoratore e la terra. La grande industria e l’agricoltura moderna operano insieme: «la prima devasta e rovina maggiormente la forza lavoro e quindi la forza naturale dell’uomo e la seconda più direttamente la forza naturale della terra» [22] .
L’esaurimento delle proprietà del suolo è messo da Marx in relazione al tema della terra come mezzo di produzione che tramite investimenti produttivi, e «se trattata nel modo giusto, migliora continuamente» [23] . Solo così – continua il Moro– «i successivi investimenti possono risultare fruttuosi senza che i precedenti vadano perduti» [24] . Miglioramento e conservazione della terra sono, cioè, valutati da Marx in una prospettiva post-capitalistica, sulla base della dialettica tra i produttori associati e la natura. Questa dialettica però funziona solo a patto che i produttori «regolino razionalmente questo loro ricambio organico (Stoffwechsel) con la natura [e] lo sottopongano al loro controllo collettivo», oltre l’anarchia del mercato e attraverso un piano per la messa in comune del lavoro [25] . Sempre nel terzo libro del Capitale Marx afferma quindi che la stessa idea della proprietà privata della terra apparirà, in futuro, all’umanità tutta, come un’assurdità:
dal punto di vista di una superiore formazione socioeconomica – scrive –, la proprietà privata di singoli individui sul globo terrestre apparirà non meno assurda della proprietà privata di un uomo sull’altro. Neppure un’intera società, una nazione, anzi tutte le società di una stessa epoca prese assieme, neppure esse sono proprietarie della terra. Ne hanno soltanto il possesso, l’usufrutto, e hanno il dovere, da boni patres familias, di trasmetterla migliorata alle generazioni successive [26] .
Comments
Non giriamo intorno al pozzo come il mulo che tira la barra per estrarre l'acqua da pozzo con l'ingegno.
Il soggetto della storia non è stato mai seriamente definito perché esso è il movimento dell'uomo con i mezzi di produzione che volta per volta determina classi sociali. Lo SCAMBIO è quello stranissimo movimento che muove l'insieme del moto-modo di produzione capitalistico.
La borghesia - tanto per fornire una identificazione - è l'espressione storica cui giunge l'uomo superando il feudalesimo sviluppando la Rivoluzione industriale. Dunque la borghesia non pre-esiste alla rivoluzione industriale ma ne è un prodotto di essa come pure il proletariato e tutte le altre classi che si tengono poi insieme attraverso la giostra del modo di produzione capitalistico.
Noi comunisti abbiamo assunto dal Manifesto di Marx Engels una tesi del tutto erronea e non abbiamo la forza di metterla in discussione.
Prima lo facciamo e meglio è.
Può il "capitalismo" essere combattuto e/o abbattuto col permanere delle sue leggi e la sua forza? NO, NO, è ancora mille volte NO, perché o implode per le sue stesse leggi oppure continua finché esse lo sorreggono nella sua forza data dal M-D-M' e D-M-D'.
Il che vuol dire: estrazione di materie prime, produzione di merci, vendita di merci, riproduzione maggiorato di capitale, reinvestmenti, produzione, estrazione perciò di plusvalore e vendita di merci all'infinito.
Finché questa giostra è possibile non c' è nessuna possibilità di parlare di Comunismo o qualsivoglia alternativa al capitalismo anche se variamente definito.
Dobbiamo dunque rassegnarci al capitalismo come modello e movimento storico privo di fine? No è poi NO, perché tutto ciò che è movimento ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
Il modo di produzione capitalistico ha imboccato l'ultima fase, quella che lo porterà al l'implosione.
Chi vivrà vedrà.
Michele Castaldo
Ora la domanda non è se sia possibile produrre senza produrre merci, ma in che modo potrebbe essere possibile abolire lo scambio quale fattore di produzione di valore che a sua volta è la produzione della maledetta "merce".
È questo il masso di granito duro da masticare. Perché l'uomo con l'esaurirsi del moto-modo di produzione per implosione - ormai avviato - sarà chiamato a decidere in che modo organizzare il suo rapporto con i mezzi di produzione evitando di riprodurre lo SCAMBIO.
Per quanto strano possa apparire questa è la questione che abbiamo di fronte. E.... scusate se è poco.
Michele Castaldo
Purtroppo nel secolo scorso parecchio "marxismo" e a cascata sindacalismo, hanno assunto il feticcio industriale separato dal tutto come super-feticcio ... ma era necessario passare per i disastri ecologici e l'inquinamento puntuale del territorio e intimo del vivente.
Le due nefaste conseguenze culturali sono:
l'acritica adesione/sottomissione dei lavoratori a qualunque paradigma industriale pur di "avere un posto di lavoro"
l'ecologismo piccolo borghese moralistico, infantilizzante che ci appioppa la "colpa" dei consumi evitando accuratamente qualsiasi critica radicale.
La questione "climatica" e l'adesione emotiva ad essa andrebbe ri-criticata come super-feticcio ad uso e consumo dei capitalisti.