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Note sul Brasile. Dove va il PT? Dove vanno le lotte?
di Toni Negri
Viaggiando per lavoro in Brasile ed incontrando alcuni politici ed intellettuali brasiliani, ho posto loro degli interrogativi e ho avuto risposte diverse e talora contraddittorie attorno alla crisi costituzionale in corso ed alla sconfitta del PT (a livello parlamentare e, da ultimo, nelle elezioni amministrative). Dalle risposte a quelle questioni vorrei trarre qualche provvisoria conclusione. I miei interlocutori erano gente di sinistra, di una sinistra brasiliana oggi assai frammentata.
Prima domanda: perché le lotte modello Occupy del 2013-14 sono state represse dal governo PT al punto di rovesciarne il segno e di permettere su di esse la presa egemonica della destra? La risposta che ho avuto da esponenti del PT è stata univoca e terribilmente deludente. Da tutti – questo è un punto davvero grave, da tutti senza un minimo dubbio, senza resipiscenza alcuna (anche se spesso con l’imbarazzo del bugiardo) – ho avuto una sola risposta: questi movimenti minacciavano fin dal loro inizio la tenuta della nostra governance. Vi risparmio ulteriori battute, come quando taluno ha sostenuto che le lotte del 2013 fossero ispirate dalla CIA e questo non solo in Brasile ma anche – nel medesimo ciclo – a Istanbul o a Il Cairo…
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Jobs Act: la fine del diritto del lavoro in Italia
di Clash City Workers
Cosa sia e a cosa serva il Jobs Act lo abbiamo detto e ridetto: è la misura che più caratterizza e più è stata voluta dal Governo Renzi, attraverso cui vengono ridefiniti i rapporti tra padroni e lavoratori italiani, sancendo la totale subordinazione dei primi ai secondi.
Gli ultimi decreti attuativi della legge delega di Dicembre, di cui tanto si sta parlando in questi giorni, lo dimostrano definitivamente: dopo essere intervenuto nella fase di accensione del rapporto di lavoro attraverso il decreto del 2014, aumentando la “flessibilità in entrata”, cioè la possibilità per i padroni di assumere come meglio credono; dopo aver aumentato quella “in uscita”, intervento nella fase di chiusura del rapporto di lavoro eliminando l'articolo 18 e rendendo possibile il licenziamento senza giusta causa a Marzo di quest'anno; ora questi ultimi decreti attuativi intervengono nel rapporto di lavoro stesso nell'ambito della cosiddetta “flessibilità funzionale”, rendendo possibile il demansionamento e il controllo a distanza del lavoratore. In questo quadro essere flessibili significa quindi essere alla totale mercé del padrone e a poco servono le rassicurazioni del Governo e della stampa allineata sul rispetto della privacy del lavoratore o sul fatto che in vari casi dovrà essere chiesto previamente il consenso al lavoratore stesso: come ha spiegato bene l'avvocato del lavoro Giovanni De Francesco ai microfoni di Corrispondenze Operaie, a fronte di sempre meno tutele e sempre più grandi ricatti queste formalità sono solo chiacchiere.
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Attacco alla Costituzione
La via italiana al risanamento della crisi che non c'è
Quarantotto
Avevamo parlato della sentenza della Corte costituzionale portoghese che aveva dichiarato la illegittimità di 4 su 9 delle misure di austerity imposte, nella legge finanziaria approvata a fine anno, dal memorandum della trojka.
Le misure ritenute incostituzionali tagliavano pensioni e sussidi di disoccupazione (in Italia alle prime ci ha pensato la Fornero, senza colpo ferire, e ai secondi...pure: ora dovranno reperire un miliardo, ma naturalmente da tagli e tasse aggiuntivi, perchè in Costituzione c'è il pareggio di bilancio).
Ora, la situazione, come abbiamo altrettanto visto, è che la Commissione UE non demorde e neppure il FMI: i tagli in qualche modo vanno fatti e poco importa se attiveranno il moltiplicatore fiscale negativo, acuendo la recessione. Il FMI a livello di Blanchard-ufficio studi dice una cosa, ma quando poi si esprime ufficialmente conta la determinazione della Lagarde a tutelare la "stabilità finanziaria" e gli "investitori esteri", formule riassuntive di "banche straniere creditrici, essenzialmente franco-tedesche".
Insomma, "Pedro Passos Coelho, il primo ministro portoghese di centrodestra,doveva comunque tagliare, ai primi d'aprile, la spesa pubblica di 4 miliardi per adeguarsi al programma di "bail out" per 78 miliardi imposto dal memorandum della trojka. Ora, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, deve operare tagli per 5,3 miliardi per tenere fede alle scadenze del memorandum fissate per la fine di maggio.
La decisione della Corte ha innescato a livello negli "investitori" il dubbio che si debba ricorrere a un secondo bail-out" (cioè a una procedura concordata che implica un default guidato)".
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E’ finita la gomma da masticare
Mike Davis
Chi avrebbe potuto immaginare Occupy Wall Street e la sua proliferazione simile a quella di fiori di campo in città grandi e piccole? John Carpenter lo ha fatto. Quasi un quarto di secolo fa (nel 1988), il maestro dell’horror di mezzanotte (“Halloween”, “La Cosa”) ha scritto e diretto “They Live” (essi vivono), che rappresentava l’epoca di Ronald Reagan come una catastrofica invasione di alieni. In una delle brillanti scene iniziali del film, una gigantesca città di baracche da terzo mondo appare all’altro lato della Hollywood Freeway nel riflesso del sinistro cristallo degli edifici delle multinazionali di Bunker Hill.
“They Live” è ancora il tour de force sovversivo di Carpenter. Pochi di coloro che l’hanno visto possono dimenticare il ritratto di banchieri multimilionari e di perversi potenti dei media e il loro oscuro impero zombie su una classe operaia americana che vive in tende sul lato di una collina ricoperta di rifiuti, implorando posti di lavoro. A partire da questa negativa eguaglianza di disperazione negativo e mancanza di case, e grazie ai magici occhiali da sole trovati dall’enigmatico Nulla (interpretato da Rowdy Roddy Piper), il proletariato trova l’unità interetnica, vede attraverso gli inganni subliminali del capitalismo e si infuria. Si infuria molto.
Sì, lo so, sto andando troppo avanti. Il movimento Occupa il Mondo sta ancora cercando i suoi occhiali magici (programma, obiettivi, strategia, ecc.) e la sua indignazione bolle al fuoco lento di Gandhi. Ma, come aveva previsto Carpenter, se un numero sufficiente di americani esce della sua casa e/o dalla sua traiettoria (o almeno a decine di milioni si chiedono se farlo), qualcosa di nuovo e colossale si metterà poco a poco in marcia in direzione di Goldman Sachs. Qualcosa che, a differenza del Tea Party (la destra statunitense, ndt), fino ad ora non ha i fili del burattino.
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BoT a zero, in attesa del grande botto
di Claudio Conti
In calce articoli di Plateroti dal Sole24Ore e di Martin Wolf dal Financial Times
La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l'altra faccia della medaglia.
Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell'Economia) ha collocato BoT a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta.
L'Italia non è l'unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell'euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%.
Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
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Dottrina del rigore addio*
di Maurizio Ricci
Uno studio dell’Università del Massachusetts-Amherst smentisce la celebre teoria di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sul rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. La polemica è destinata a durare a lungo nei circoli accademici, ma ha già avuto l'effetto di ridimensionare la credibilità scientifica degli appelli all'austerità.
Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Ma, soprattutto, è un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell'austerità: ovvero meno spese, più tasse, stringere, anche brutalmente, la cinghia, per ridurre deficit e debito, come premessa indispensabile per il rilancio dello sviluppo. Al centro della polemica, due fra i più prestigiosi economisti al mondo, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, di Harvard, e lo studio con cui, nel 2010, indicavano, sulla base di un'ampia comparazione storica, l'esistenza di uno stretto rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. Più esattamente, quando il rapporto fra debito e Pil supera il 90 per cento (in Italia viaggiamo verso il 130 per cento) si apre la recessione: in media, storicamente, una contrazione dell'economia dello 0,1 per cento. Non è l'unico risultato a cui arrivano Reinhart e Rogoff, ma è quella semplice formula che ha fatto il giro del mondo, influenzando il dibattito politico sull'economia, negli Stati Uniti come in Europa. Solo che non è vero.
Un gruppo di economisti dell'Università del Massachusetts-Amherst ha rifatto i conti e, sulla base della stessa serie storica di Reinhart e Rogoff, arriva ad una conclusione opposta: in media, storicamente, i Paesi con un debito superiore al 90 per cento non vanno in recessione.
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Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo
di Alessandro Visalli
In fondo è una storia come tante altre, banale. Una ragazzina di quindici anni che prende una idea semplice, in bianco e nero, e la sposa con l’entusiasmo dei suoi anni. Nasce in una famiglia di professionisti dello spettacolo (una cantante ed un attore) e traduce questa idea in performance. Queste performance, nativamente preordinate nel codice della società dello spettacolo, sono utilizzate da un sistema dei media sempre alla ricerca di eventi-mondo per costruire un prodotto efficace. Questo efficace prodotto viene ripreso e rilanciato, per i più diversi scopi, dalle più diverse forze ed organizzazioni.
Stiamo facendo un esercizio di complottismo? Un’aggressione alla simpatica ragazzina?
No. Tutt’altro, Greta Thunberg ha tutta la mia simpatia, è una ragazzina sveglia ed intelligente, piena di ottimi sentimenti e impegnata per una battaglia degna.
Semplicemente il mondo ha il suo modo di funzionare, ed usa tutto.
Ma il fatto che qualcosa sia usato significa che non sia fondato? No. Io credo fermamente che il sistema ambientale sia alterato dall’uomo, ad una profondità che è difficile da definire con precisione, e che il clima venga modificato anche da questi fattori di pressione antropogenetici.
Il fatto che qualcosa sia fondato significa che altro non lo sia? No. Io credo fermamente che la questione in campo sia il potere.
Il fatto che una cosa sia usata e fondata significa che non ci sia altro da dire? No. Io credo fermamente che buona parte del degrado dell’ambiente sia determinato dalla logica dello sfruttamento della natura per il profitto e dalla sua appropriazione da parte di pochi.
Il fatto è che, anche se Greta Thunberg può pensarlo[1], il mondo non è affatto “bianco o nero”.
Quando ad agosto 2018 il curioso “sciopero”[2] (dalla scuola) della ragazzina di Stoccolma, opportunamente spettacolarizzato, in vista delle elezioni generali di settembre, e subito rilanciato da qualche interessato sito come parte di una strategia di autopromozione commerciale/ambientale[3], sfonda il muro della irrilevanza prende avvio un processo autorafforzante imponente.
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Perché la moneta fiscale è meglio dell’Italexit
(ma quella del prof. Zezza non può funzionare)
di Enrico Grazzini
Il Movimento 5 Stelle sembra indeciso tra l'alternativa di uscire dall'euro e adottare invece la moneta fiscale. La questione è complessa e la scelta non è facile: ma è già estremamente positivo che i 5 Stelle si pongano con decisione il problema di liberare finalmente l'Italia dai vincoli dell'euro. L'opzione peggiore, anzi quella pessima e disastrosa, è infatti proseguire con questa austerità suicida che sta strangolando l'economia e il lavoro di milioni di italiani. Non si può aspettare passivamente che l'euro crolli – come probabilmente prima o poi accadrà –.
Cercherò di dimostrare che la soluzione di gran lunga migliore è quella della moneta fiscale; ma la nuova moneta pubblica deve essere progettata bene, altrimenti anche questa scelta diventerà fallimentare. Tenterò di spiegare che l'Italexit è una soluzione possibile ma che sarebbe estremamente complessa da gestire, molto dolorosa, e spaccherebbe il Paese. Difficilmente una forza politica di governo riuscirebbe a percorrere con successo questa via che è teoricamente praticabile ma è anche molto stretta e impervia, sia sul piano politico che strettamente tecnico.
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Imperialismo e super-sfruttamento
di Michael Roberts
Una recensione di "Imperialismo nel 21° secolo" di John Smith
Il libro di John Smith è un potente e bruciante atto d'accusa dello sfruttamenti di miliardi di persone in quello che veniva chiamato Terzo Mondo e che ora da parte dell'economia principale vengono denominate come economie "emergenti" o "in via di sviluppo" (e che da Smith viene chiamato "il Sud"). Ma il libro è molto, molto più di questo. Dopo anni di ricerche che includono anche una tesi di dottorato, John ha dato un importante ed originale contributo alla nostra comprensione del moderno imperialismo, sia a livello teorico che empirico. In tal senso il suo libro "Imperialismo" è un complemento a "The city" di Tony Norfield, già recensito qui - o potrei anche dire che è il libro di Tony ad essere un complemento di quello di John Smith. Mentre il libro di Tony Norfield mostra lo sviluppo del capitale finanziario nei moderni paesi imperialisti ed il dominio di potere finanziario del "Nord" (Stati Uniti e Gran Bretagna, ecc.), John Smith mostra come sia il "super-sfruttamento" dei lavoratori salariati nel "Sud" ad essere la base del moderno imperialismo nel 21° secolo.
Il libro comincia con alcuni esempi di come i lavoratori salariati nel Sud siano "super-sfruttati" per mezzo di salari al di sotto del valore della forza lavoro (i lavoratori tessili del Bangladesh): "I salari di fame, le fabbriche come trappole mortali, ed i fetidi slum del Bangladesh sono rappresentativi delle condizioni patite da centinaia di milioni di persone che lavorano in tutto il Sud globale, sono la fonte del plusvalore che sostiene i profitti ed alimenta un sovra-consumo insostenibile nei paesi capitalisti" (p.10)... e come il plusvalore creato da questi lavoratori super-sfruttati viene acquisito dalle corporazioni trans-nazionali e trasferito attraverso la "catena del valore" ai profitti dei paesi imperialisti del Nord (Apple, I-phone e Foxconn). "L'unica parte dei profitti della Apple che appare avere origine in Cina, è quella risultante dalla vendita dei suoi prodotti in quel paese. Come nel caso delle T-shirt made in Bangladesh, anche con gli ultimi gadget elettronici, il flusso di ricchezza proveniente dai salariati cinesi e da altri lavoratori a basso salario che sostiene i profitti e la prosperità delle aziende e delle nazioni del Nord, diventa invisibile sia nei dati economici che nei cervelli degli economisti" (p. 22).
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L'Atto del Lavoro
Il magro bilancio di un anno di interventi renziani e i loro veri obiettivi
Scritto da Clash City Workers
Premessa: quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un'ossessione, lo è in misura speculare a quella del governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell'ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.
Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l'ansia da prestazione dell'apparato di governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l'attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
Nota di metodo: ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l'estensione della possibilità di utilizzo dei voucher.
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Il ritorno di Stranamore, e la complicità dei media
di Angelo d'Orsi
Riceviamo dal professor Angelo d'Orsi e volentieri pubblichiamo
No, non voglio prendermela con Donald Trump, e neppure con i suoi dottor Stranamore, pronti a saltare in sella ad ogni bomba lanciata sul nemico di turno; ed egli stesso incarnazione grottesca del personaggio, nella sua versione più volgare. Non voglio cedere al sarcasmo verso quella sinistra che nello scorso novembre espresse giubilo all’elezione del nuovo presidente Usa, qualcuno addirittura spintosi fino a considerarlo una sorta di Lenin americano (abbiamo avuto i “marxisti per Trump”…). Neppure con quegli “esperti” di politica e storia nordamericana che avevano decretato il “ritorno all’isolazionismo”. Gli Stati Uniti, al di là dei cambi di amministrazione, continuano ad essere ciò che da tempo immemorabile ciò che proclamano di essere: essi si sono auto-assegnati il ruolo di giudice-sceriffo, e insieme di bandito che non teme di essere colpito da sanzioni: recitano entrambe le parti, con totale indifferenza e sovrana disinvoltura. Dopo la “caduta del Muro”, venendo meno il contraltare sovietico, hanno accentuato la loro prepotenza e la loro arroganza, mentre l’intero Occidente, ossequiente, esaltava democrazia e libertà, e i governi “alleati”, a partire dalla Gran Bretagna, accompagnavano, plaudenti, ogni loro criminale impresa. Il parziale riequilibrio geopolitico internazionale, verificatosi negli ultimi anni, con il riemergere progressivo della Russia, la crescita, su ogni piano, della Cina, e l’affacciarsi di nuovi attori rilevanti (dall’India all’Iran), non ha per ora messo in crisi l’egemonia statunitense, anche se l’ha notevolmente scalfita e messa in forse.
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Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune
di Antonino Infranca
Come ogni buon libro di filosofia, anche Del Comune parte dalla etimologia della parola. Munus in latino è “dono”; da munus viene mutuum, che indica la “reciprocità” (cfr. p. 22). Aggiungo io che risalendo all’indoeuropeo si scopre che mit, da cui proviene mutuum, indica “mettere un limite (mi)tra due punti (t)”, “formare una coppia”, “alternare”, “unire”, “capire”, “comprendere”. D’altronde il greco μάθησις è apprendimento e μάθος è conoscenza. La congiunzione tedesca mit mantiene molti di questi significati o permette, unita a verbi o sostantivi, di dare il senso dell’unità o della comprensione; ancora in tedesco rimane una presenza del munus nel gemein, “comune”, ad evidenziare che anche le lingue germaniche mantengono la stessa radice indoeuropea del latino. Ritornando a Dardot e Laval, essi concludono rilevando che cum e munus formano la parole communis e, quindi: «Il termine “comune” è particolarmente adatto a designare il principio politico di una co-obbligazione per tutti coloro che sono impegnati in una stessa attività» (p. 22) e proprio in questo senso lo usava Kant. Se c’è una co-obbligazione, questa si fonda su una co-partecipazione, quindi il comune è compartecipazione, se non si partecipa insieme non si è obbligati. Nella Rivoluzione ungherese del 1956, i due autori, riprendendo una suggestione di Castoriadis, vedono la prima rivoluzione, cioè il superamento della divisione tra la politica professionalizzata, il Partito comunista ungherese, e la società civile (cfr. p. 70). In quei giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1956, la società civile ungherese instaurò una “politicizzazione universale della società”, che esercitava una democrazia diretta, fondata sulla vera eguaglianza politica, radicata in collettività concrete ed autogestite, i Consigli, o, per dirla in russo, i Soviet.
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Sierra Charriba
di Sandro Moiso
“Soldato, io sono Sierra Charriba. CHI MANDERETE CONTRO DI ME, ADESSO?!” (Sam Peckinpah, 1964)
Più la crisi istituzionale, economica, sociale e politica italiana tende ad avvitarsi su se stessa, più tornano a risuonare nella memoria le parole dette con ferocia da un capo apache ad un ufficiale dell’esercito americano, appeso a testa in giù su un fuoco acceso, nelle prime scene di un classico del cinema western dei primi anni Sessanta. “Sierra Charriba” appunto.
E’ chiaro che nei panni del capo guerriero non è individuabile una particolare forza politica o sociale, ma è possibile confondere la sua figura con quella della crisi attuale e nei panni del disgraziato ufficiale si può cogliere l’infelice destino degli uomini di governo che si sono succeduti, inizialmente in grande spolvero e con grandi squilli di trombe, sulla poltrona della presidenza del consiglio italiana nell’arco degli ultimi ventisette mesi. Monti, Letta e, ora, Renzi. Tutti finiti o destinati semplicemente a mordere la polvere del fallimento personale e politico.
Gli stessi tre governi succedutisi nel tempo sembrano, infatti, ripercorrere il destino di quel film.
Nato per durare 278 minuti, fu ridotto, prima ancora di andare nelle sale, a 156. Poi, viste le critiche negative a 136 e, infine, si attestò su una durata di 123 minuti. Come dire: il governo dei tecnici salvatori della Patria durò circa quindici mesi.
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Contro la bisca universale
di Francesco Ciafaloni
Le cose, materialmente, economicamente, non vanno bene; né in Italia, né in Europa, né nel mondo. La scarsità di risorse materiali e ambientali sta smettendo di essere una discussa previsione per trasformarsi in una tragica realtà, sotto gli occhi di tutti. Il nostro futuro economico sembra particolarmente precario, pericoloso. Ma prima della crisi economica, che alcuni aspettano da più di un decennio, altri cercano di non vedere, c’è la crisi, il degrado culturale, che precede il degrado materiale, in una qualche misura lo ha causato; che in ogni caso ci impedisce di guardare in faccia il presente e di immaginare un futuro.
È vero che gli italiani non capiscono bene cosa gli stia capitando e che anche quelli che si sforzano di capire perché le cose stiano così faticano molto. Ma non tutto è nebbia. Qualcosa si può dire sia sui mutamenti strutturali sia sulla neolingua che ci ha travolto; su ciò che diamo per scontato, che ripetiamo per abitudine e non è vero.
Demografia, migrazione, redditi e politica
Poco più di un terzo di secolo fa Giulio Maccacaro, come altri, denunciava in un articolo le enormi disuguaglianze di salute tra gli esseri umani e constatava, allarmato – allora si temeva la bomba demografica – che eravamo diventati più di 2 miliardi e 700 milioni al mondo e che ci saremmo moltiplicati ancora.
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Il ricatto occupazionale
Marco Cedolin
La crisi economica continua a manifestarsi foriera di opportunità per l’imprenditoria di rapina, governata da banche e multinazionali, che proprio fra le pieghe del tracollo economico passato e venturo sta portando a compimento tutta una serie di obiettivi che solo una decina di anni fa sarebbero sembrati eccessivamente ambiziosi e difficilmente raggiungibili.
La progressiva limatura al ribasso dei salari (reali) dei lavoratori, la soppressione dei diritti acquisiti nel tempo, ottenuta con la complicità dei sindacati e la sempre maggiore diffusione del dumping sociale, hanno rappresentato gli strumenti attraverso i quali il lavoratore è stato deprivato della propria dignità e trasformato in una figura precaria, priva di coordinate, costretta a manifestarsi prona a qualsiasi capriccio o volere gli venga imposto in funzione di un interesse superiore.
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UE e politiche liberiste. Quale alternativa?
Non c’è solo il razzismo alla radice dell’insofferenza popolare nei confronti della UE e dell’euro
di Marco Elia e Andrea Fioretti
Recentemente un grande regista e attento osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”. L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale importanza. Coglie, infatti, l’assoluta centralità della questione della diffusione tra le masse popolari dello scontento, della frustrazione e della rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita: la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di massa e le devastanti politiche di austerità sono gli ingredienti della montante insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
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L’austerità “flessibile” che non genera crescita e accentua le diseguaglianze
di Guglielmo Forges Davanzati
Con uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”1, dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata.
In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil2. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana.
Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni.
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Quanto è monotono il “tecnico” Monti
di Felice Roberto Pizzuti
Dietro le scelte del governo c'è una politica precisa. Ed è un'applicazione radicale della visione liberista, proprio quando la crisi ne certifica il fallimento
Tra le qualità attribuite al governo Monti c'è la sobrietà; potrebbero dunque lasciare perplessi alcune sue posizioni. Ad esempio, è decisamente stravagante affermare che le misure di liberalizzazione presentate faranno aumentare il PIL addirittura del 10%. Una valutazione siffatta, prima ancora che enfatica, non ha basi affidabili di misurazione, ma esime o distoglie l’attenzione da misure di stimolo alla domanda che in una situazione di grave recessione sono sicuramente più appropriate ed efficaci.
La sobrietà di Monti suscita non minori dubbi quando, riferendosi ai tre obiettivi del suo governo – rigore dei conti pubblici, crescita ed equità –, sostiene che il terzo sarà il risultato delle riforme volte a rendere i mercati realmente concorrenziali. Solo i neoliberisti più sfrenatamente ottimistici hanno immaginato che lo sviluppo generato dai mercati implichi un miglioramento anche per i più poveri (la teoria del trickle down, dello sgocciolamento), ma non sono stati confortati da verifiche empiriche. Tuttavia, se questa è l'idea di equità e del modo di raggiungerla, non sorprende la “tosatura” del sistema previdenziale pubblico, che pure ha un saldo attivo tra contributi e prestazioni previdenziali nette pari all'1,8% del Pil e già da anni sostiene il complessivo bilancio pubblico; né sorprende il progetto di depotenziarlo ulteriormente riducendo le aliquote contributive (e quindi le prestazioni) e immaginando un ruolo sostitutivo e non aggiuntivo per la previdenza privata che, però, assorbe risorse pubbliche (e qui sorge qualche contraddizione; come pure nell’accordare proprio in questo periodo l’aumento dei pedaggi delle autostrade a favore di gestori privati operanti in un contesto molto poco concorrenziale).
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Ecco Bersani: arretratezza, liberismo, Lega Coop e convivenza con la camorra
di Nique la police
La vittoria di Bersani alle primarie del PD non va letta secondo l'interpretazione diffusa da due riflessi condizionati. Il primo è quello che vuole la fine della strategia bipolarista del partito democratico, con un sistema all'inglese che avrebbe dovuto favorire una sorta di New Labour di originaria matrice democristano-piccista, mentre il secondo è quello che interpreta questo voto come una risposta "di sinistra" al conflitto politico interno al PD.
Intendiamoci, entrambi i riflessi condizionati contengono un granello di verità: prima di tutto infatti il PD adesso tenderà verso un genere di alleanze simili ma non identiche al quelle dell'ulivo di Prodi sapendo che per andare al governo è impensabile vampirizzare elettori e ceto politico di altre aree culturali. Poi, e questo è altrettanto vero, la mobilitazione dell'ex elettorato Ds è stata decisiva per spostare l'ago delle preferenze nel PD verso Bersani. Si intravede infatti in questa vittoria un desiderio di una politica di sinistra (e persino, in lontananza, del Pc)i che naturalmente è destinata a rimanere inevasa.
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La finanza malata d'ipertrofia
Salvare il sistema finanziario globale? Troppo tardi. Ormai è «troppo grande per salvarlo»
Saskia Sassen
Il valore globale dei «prodotti finanziari» è parecchie volte il Pil mondiale. È troppo. La sfida reale non è salvare il sistema ma definanzializzare le economie, argomenta Saskia Sassen
Quello che viene impropriamente chiamato «gruppo dei venti» (G20) si è riunito a Londra il 2 aprile 2009 per discutere su come salvare il sistema finanziario globale. È troppo tardi. La prova è che non abbiamo le risorse per salvare questo sistema - neanche se volessimo. È diventato «troppo grande da salvare» (non «troppo grande per fallire», come si dice per giustificare il soccorso ai colossi bancari, ndt): il valore degli assets finanziari globali supera di parecchie il Prodotto interno lordo (Pil) globale. La vera sfida non è salvare questo sistema, ma definanziarizzare le nostre economie, come premessa per superare il modello attuale di capitalismo. Perché mai il valore degli assets finanziari dovrebbe ammontare quasi al quadruplo del Pil complessivo dell'Unione europea, e ancor più per quanto riguarda gli Usa? Che vantaggio hanno i comuni cittadini - o il pianeta - da questo eccesso?
La domanda si risponde da sola. Esplorare più a fondo i meccanismi nascosti del sistema finanziario che ha portato il mondo a questa crisi significa anche intravedere un futuro oltre la finanziarizzazione. Il compito che il G20 dovrebbe affrontare non è salvare questo sistema finanziario, ma cominciare a definanziarizzare le principali economie in misura tale che il mondo possa andare verso la creazione di un'economia «reale» capace di garantire sicurezza, stabilità e sostenibilità.
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Quell'integrazione fallita in un'economia globalizzata
Joseph Halevi
Fin dai referendum sul trattato di Maastricht, approvato per un soffio dall'elettorato francese e bocciato da quello danese, la prova delle urne ha messo sistematicamente in crisi l'Europa istituzionale. Le bocciature dei trattati europei sono viste come un attaccamento anacronistico agli stati nazionali mentre, si dice, la globalizzazione li svuota di significato.
La realtà è ben diversa. Sul piano dell'integrazione economica l'Europa è pienamente inserita nel processo mondiale sia sul piano reale che su quello finanziario. La stessa Irlanda ne costituisce un esempio. Nella fase cumulativa gli aiuti da Bruxelles e la detassazione dei capitali hanno trasformato il paese in una base per multinazionali farmaceutiche ed elettroniche proiettate verso il mercato europeo ed oltre.
Oggi, dopo aver raggiunto i più alti livelli dell'Unione europea, Dublino è in fase decrescente, con perdite di aziende verso i paesi dell'est, tra i quali l'altrettanto piccola Estonia emerge come una base offshore dell'elettronica scandinava in diretta contrapposizione all'Irlanda. Nel frattempo poli di avanzata tecnologia globale come Grenoble in Francia si stanno svuotando per le rilocalizzazioni in Cina. È l'integrazione politica che è da tempo fallita in Europa impedendo quindi di affrontare la globalizzazione.
A differenza dell'integrazione economica che, dal Piano Marshall in poi, ha coinvolto l'intera Europa occidentale dalla Norvegia alla Grecia, il cuore dell'integrazione politica si basa su un nocciolo di paesi continentali. In particolare sulla Germania, sulla Francia e sull'Italia.
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Il Riformismo che non c'è
Intervista a Carlo Donolo
Una sinistra che non affronta le grandi questioni nazionali irrisolte difficilmente può dichiararsi riformista; la tendenza a chiamare riforme i tentativi di adeguarsi alla globalizzazione tramite la flessibilizzazione del lavoro; le grandi questioni del divario fra nord e sud, della centralità del lavoro, della sostenibilità ambientale dello sviluppo; un sistema di potere abbastanza impermeabile che vede l’alleanza fra rendita immobiliarista e pubbliche amministrazioni. Intervista a Carlo Donolo, docente di Sociologia Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato, tra l’altro, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Bruno Mondadori 2007. L’intervista è stata realizzata prima delle elezioni.
La domanda riguarda i destini della sinistra in Italia…
Già, l’eterna interrogazione sulla sinistra che oggi, nel contesto europeo, forse si può declinare in un’interrogazione sul destino del riformismo. E parto col dire che il riformismo oggi fa parte di uno scenario in disuso. A mio avviso il riformismo è tale se va a toccare alcuni nodi cruciali, che una volta chiamavamo le grandi questioni nazionali.
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La Sovranità e lo scontro tra economia e politica
Ivan Giovi intervista Carlo Galli
Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il paicere di intervistare il politologo Carlo Galli, professore di storia delle discipline politiche all’Alma Mater-Università di Bologna e già deputato nella XVII legislatura
OG: Professor Galli nel suo saggio “Sovranità” appare emblematica espressione “Sovranità è democrazia? Oggi si”: quali sono le funzioni economiche, politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno esercizio della sovranità?
CG: La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche, economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un paese e anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’Euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto divorzio fra ministro del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati.
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Il New York Times invia giornalisti in Ucraina e “ritratta” la versione ufficiale
di Robert Parry
Il New York Times ha mandato dei giornalisti tra gli insorti dell’Ucraina dell’est e ha dovuto scoprire che la propaganda mandata viralmente da tutti i media secondo il “pensiero unico” ufficiale di Washington non risulta confermata: niente russi a sostenere o dirigere le operazioni, solo ucraini preoccupati del loro futuro. (Purtroppo l’effetto sull’opinione pubblica non ne risente, perché le notizie dissonanti rispetto ad un frame ripetuto in maniera martellante tendono ad essere automaticamente cancellate. Ma noi insistiamo.). Via Smirkingchimp.com
Il New York Times, che ha affermato per settimane che dietro i disordini nell’Ucraina dell’est c’era il governo russo, alla fine, ha inviato alcuni giornalisti nella regione per trovare le prove, ma tutto quel che hanno trovato sono stati degli ucraini orientali sconvolti dal regime golpista di Kiev che ha destituito il presidente Viktor Yanukovich.
The Times, che è stato un promotore impenitente della rivolta “pro-democrazia” che ha spodestato il presidente democraticamente eletto attraverso violenti mezzi extra-costituzionali, aveva recentemente promosso l’ “argomento” che gli ucraini sarebbero soddisfatti del loro nuovo governo non eletto se solo i russi non “continuassero a destabilizzare l’Ucraina orientale.”
Due settimane fa i redattori del Times pensavano di avere trovato uno scoop da prima pagina, delle fotografie che sembrava dimostrassero la presenza di truppe delle forze speciali russe. Secondo il Times, le foto mostravano “chiaramente” le forze speciali russe in Russia, e poi gli stessi soldati nell’Ucraina orientale.
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Dalla parte della Resistenza palestinese, senza se e senza ma
Militant
Non è certo semplice, men che meno immediato, riuscire a spiegare le ragioni per cui oggi qualsiasi opera di distinguo, di presa di distanza all’interno della Resistenza palestinese, sia giocoforza complice della carneficina israeliana. Eppure, oggi come in altre circostanze, è necessario portare avanti qualche posizione scomoda, non precostituita, fuori dal normali canoni del dibattito politico a sinistra.
Non c’è dubbio che Hamas non sia il nostro punto di riferimento politico nel mondo arabo. Le sue posizioni, che possono per (troppa) comodità essere sintetizzate nell’esasperato radicalismo religioso, la rendono una formazione politica distante dalla nostra ideale visione delle cose del mondo. Se il tentativo di capire la situazione mediorientale, per molti versi paradigmatica dell’evoluzione politica che potrebbe avvenire anche in altri contesti, terminasse qui, avremmo già la nostra sentenza: con una forza intimamente teocratica e anticomunista si può condividere molto poco, quasi niente, neanche singoli passaggi tattici contro eventuali nemici comuni. Questa però sarebbe una visione a dir poco superficiale e sclerotizzata dei rapporti politici esistenti nel contesto palestinese, e che soprattutto risentirebbe del punto di vista eurocentrico del modo di guardare le cose altrui.
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Togliere ai padri senza dare ai figli
Cosa c’è per i precari dentro la riforma del lavoro
Claudia Pratelli
Abbiamo seguito il plasmarsi della riforma del lavoro con un’attenzione che a tratti si è fatta ansia. L’abbiamo rincorsa dietro alle dichiarazioni (tutte altisonanti) dei Ministri del Governo e interpretata da documenti che erano prima “linee guida”, poi un “documento di policy” approvato dal Consiglio dei Ministri, ma mai testi definitivi. Le dichiarazioni promettevano meraviglie e svolte epocali. I testi circolati le smentivano.
L’attesa di un testo di legge, dunque, non era pignoleria: serviva per capire cosa questa riforma prevedesse davvero soprattutto per coloro in nome dei quali è stata sbandierata. Per i giovani e per i precari.
Proprio in nome della nostra generazione, infatti, è stato attaccato l’articolo 18, sono state abbassate le pensioni, è stato messo a dieta il sistema degli ammortizzatori sociali. “E’ la crisi, baby” ci hanno spiegato i teorici dello scambio “Bisogna togliere ai padri per dare ai figli”. Mentivano per almeno due ragioni. La prima è sempre stata chiara: i diritti non sono una quantità data, un kg di pane da ripartire tra gli affamati. Quanti ne vogliamo e come li vogliamo? Non c’è scienza economica che ce lo possa prescrivere. Sono scelte, scelte politiche. Checchè ne dicano i tecnici, la troika e tutto il cucuzzaro. Difficile non vedere, poi, che la logica dello scambio è una trappola, soprattutto quando riguarda la platea dei più fragili e costruisce artificiose contrapposizioni tra ultimi e penultimi, padri e figli, giovani e anziani, senza intaccare le rendite di posizioni, i grandi capitali, chi ha accresciuto i propri profitti. La seconda ragione è divenuta evidente con il testo definitivo del DdL: lo scambio (anche qualora avesse un senso) è truccato. Hanno tolto ai padri, ma non hanno dato ai figli.
Adesso il testo c’è ed è definitivo. Ma non ci siamo.
Letteralmente. Noi - giovani e precari- non ci siamo: non ci sono risposte né ai nostri bisogni, né ai nostri desideri, verso i quali questo Paese ha contratto il debito più pesante. Sull’impianto generale della riforma, su cosa fa e non fa per i precari, su cosa è inefficace e cosa dannoso valgono le considerazioni svolte qui, con qualche significativo peggioramento. Ricapitoliamo.
1. Non sono state ridotte le tipologie contrattuali precarie.
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Dal sindacalismo collaborazionista ad un sindacalismo di classe
Alcune riflessioni
di Eros Barone
Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo…L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, di piccola e media borghesia...Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai…a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico.
Antonio Gramsci, «L’Ordine Nuovo», 8 novembre 1919.
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Il documento della maggioranza: il gergo di un ceto privilegiato e autoreferenziale
In questo periodo la CGIL sta tenendo le assemblee di base in vista dello svolgimento del XVIII congresso nazionale, che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019. I documenti presentati sono due: quello della maggioranza, intitolato “Il lavoro È”, e quello della minoranza, intitolato “Riconquistiamo tutto!”.
Orbene, fin dalle prime pagine il documento della maggioranza si configura come un tipico prodotto di quel linguaggio ‘sindacalese’ ‘politicamente corretto’ che, come osserva Stalin in un suo acuto scritto dedicato alla linguistica, impedisce la corretta comunicazione: «Basta soltanto che la lingua si allontani da questa posizione nei confronti dell'intera nazione, basta soltanto che la lingua si metta su una posizione di predilezione e di sostegno di un qualsiasi gruppo sociale a detrimento degli altri gruppi sociali della società, perché essa perda la propria qualità, cessi di essere mezzo di comunicazione tra gli uomini in seno alla società, si trasformi in gergo di un qualsiasi gruppo sociale, degradandosì e condannando se stessa al dileguamento».
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La violenza (di classe) come essenza dello stato
Sull’anticapitalismo “anarco-capitalista” di Michael Huemer
di Sebastiano Isaia
L’umanità al suo livello più alto non ha
bisogno di uno Stato (Arthur Schopenhauer)
Se l’essenza dello Stato è la violenza: è questo l’ammiccante – ovviamente agli occhi di chi scrive – titolo che Nicola Porro, o chi per lui, ha voluto dare a un suo articolo inteso a dar conto del pensiero politico-filosofico di Michael Huemer, autore di un libro, pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti, che è diventato subito un punto di riferimento dottrinario ineludibile per i sostenitori di una società capitalistica in grado di fare a meno dello Stato, giustamente concepito come una presenza non solo ingombrante e oppressiva sotto ogni rispetto (a partire, ovviamente, da quello fiscale) (1), ma necessariamente violenta. Il titolo del libro di Huemer recita: Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, 2015); il sottotitolo è, come si dice, tutto un programma: Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire. Diritto di obbligare, dovere di obbedire: capito il concetto? Scrive Porro:
«Il testo ci spiega su cosa si fonda questa benedetta autorità politica e il suo strumento ultimo, che è la coercizione. In un esempio illuminante, in fondo, Huemer ci dice che si finisce sempre con la violenza fisica. La catena degli ordini di uno Stato su questo si basa. Se non rispetto il semaforo rosso mi fanno una multa. Se non pago la sanzione, la ingigantiscono, magari togliendomi la patente. Se continuo a girare senza patente, mi fermano. E poi magari mi arrestano. Infine, se non accetto di essere tradotto in cella, qualcuno dovrà pur strattonarmi per un braccio, come minimo, e ficcarmi nell’auto che mi porterà in galera. Certo tutto è fatto da un’organizzazione terza, e tutto è concepito con una procedura, che possiamo definire democratica» (2).
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Supportare la resistenza, preparare l’offensiva
Dove sono i nostri
di Collettivo Clash City Workers
Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015
Il progetto Clash City Workers nasce a Napoli nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei nodi del collettivo Clash. Di base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere sempre stati legati a livello ideologico a una visione della società che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento politico, una visione che però non aveva gli strumenti adeguati per leggere la realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare con i lavoratori, ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la constatazione che quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre vite, di fatto lo vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi inserirsi nel mercato del lavoro.
Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.
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Quante balle sono state raccontate sull’Iran
Fabrizio Marchi
E’ ora di cominciare a smascherare un’altra delle tante menzogne che ci sono state propinate da decenni a questa parte dai media occidentali, nessuno escluso, come sempre, da “sinistra” a “destra”.
Quella in base alla quale l’Iran, una delle culle della civiltà mondiale, così come tanti altri paesi del mondo, sarebbe una sorta di inferno oscurantista e medioevale governato da fondamentalisti sanguinari e popolato da masse di esaltati, integralisti e invasati ma anche da una minoranza (ma potenziale maggioranza) di persone che, se potessero (se cioè non gli fosse impedito con la forza bruta dai “cattivi” e barbuti imam e dai loro seguaci), opterebbero senz’altro per il “way of life” occidentale; ergo, a diventare dei bravi cittadini democratici, “partecipativi”, civili e tolleranti (consumatori passivi, mercificati e precari privi di ogni coscienza e identità?…) chiamati periodicamente a ratificare i propri governanti-amministratori.
Peccato che questo “esercizio” di democrazia, pur con tutti i suoi limiti (vale anche per l’Iran ciò che vale per le democrazie occidentali) in Iran sia già ampiamente praticato, a differenza di tanti altri paesi dell’area mediorientale e non solo.
L’Iran, infatti (audite, audite!), è un paese nella sostanza più democratico rispetto a tanti paesi occidentali dove ormai la dialettica politica maggioranza/opposizione è ridotta ad una finzione, a cominciare dagli USA dove i repubblicani/conservatori e i democratici/progressisti si dividono sullo spinello libero e sul matrimonio gay ma non certo sulla natura e sulla vocazione capitalista e imperialista della loro nazione, chiamata ad assolvere ad una sorta di compito messianico, di missione escatologica che la Storia le avrebbe assegnato (“gli USA, l’unica nazione indispensabile al mondo” come ha coerentemente dichiarato lo stesso Obama).
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