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Nazione e stato nazionale nell'epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale
Sebastiano Isaia
La nazione come area di sfruttamento locale (o regionale) da parte di un Capitale privo, sostanzialmente, di attributi nazionali. Lo Stato nazionale come potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, appunto. Alla base di questa concezione insiste il concetto di Capitale come rapporto sociale, e non come cosa, come tecnologia economica posta al servizio della società. Sono questi i concetti, peraltro già altre volte da me trattati, che intendo sviluppare nelle righe che seguono, sperando di introdurre nell’argomentazione nuovi spunti di riflessione intorno a vecchi temi, di offrire nuove prospettive dalle quali approcciarli. Mi scuso per la sintesi di alcuni passaggi storici e logici cui sono stato costretto nel tentativo di rendere quanto più stringato possibile il discorso posto all’attenzione del lettore.
***
Creare un ambiente favorevole (friendly) agli investimenti del «capitale straniero: di qui,la necessità di «riforme a tutto campo», a «360 gradi», della sempre più decotta Azienda Italia (vedi i pessimi e depressivi dati sull’economia italiana resi noti l’atro ieri dal Ministro Padoan e dal moribondo Cnel).
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Il teatrino di Stato
di Walter G. Pozzi
Malgrado la solennità con cui è stata presentata, la rielezione di Giorgio Napolitano, alla fine dei conti, non può che apparire per quello che è: un giochino ben orchestrato. Una lunga narrazione iniziata con le ripetute dichiarazioni del protagonista di non avere alcuna intenzione di accettare una sua ricandidatura alla presidenza, e conclusa con la cerimonia ufficiale del suo rinnovato giuramento di fedeltà alla nazione.
Se è vero che la realtà è ciò che rimane una volta sfrondato l’intero impianto simbolico, di reale in questa vicenda resta ben poco: il vuoto politico degli ultimi vent’anni, la malafede dei suoi attori, il congelamento del Movimento 5 stelle e l’autodafé politico, definitivo, del Pd, esemplificato dall’insediamento del governo Letta in stretta complicità con Berlusconi. Occorre ammettere, a giochi conclusi, che desta sempre una certa impressione notare l’impatto positivo sui cittadini che riesce a ottenere la solennità di un atto ufficiale di Stato. Il Parlamento gremito, le telecamere, la diretta televisiva, gli stralci dei discorsi trasmessi nei telegiornali; la capacità che ha tutto questo di creare un consenso acritico, totalmente pre-razionale, nei suoi spettatori.
Forse qualcos’altro di reale, una volta strappate le erbacce simboliche, c’è. Ed è la rimozione. La rielezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, e la maniera con cui è stata celebrata – un contesto ad alta tensione drammatica e con un portato emotivo costruito ad arte – appaiono un luminoso esempio della potente capacità delle forze istituzionali di azzerare il passato, anche il più torbido.
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Su «Ma quale rivoluzione»
di Ennio Abate
Sul sito di “Le parole e le cose” (qui), in occasione della morte di Pietro Ingrao, è apparso un articolo di Francesco Pecoraro intitolato «Ma quale rivoluzione». Questa è la mia replica. [E. A]
Quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio.
Sarà un lavoro pieno di sorprese –
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –
Di quel regno la polvere è solenne –
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te –
(Emily Dickinson, Tutte le poesie, 1273, pagg.1277-1279, Mondadori, Milano 1997)
Gentile Francesco Pecoraro,
sono quasi un suo coetaneo (4 anni più di lei, credo) e pure io in quegli anni (non più “formidabili” ma appannatissimi e vituperati) ho parlato assieme a tanti di Rivoluzione (a Milano e dintorni, dal 1968 al 1976, in Avanguardia Operaia). Mi permetterò perciò, sulla falsariga del suo scritto, di dirle con massima sincerità e analiticamente cosa penso del modo in cui ha trattato il tema.
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L’ordine non regna ad Atene
di Raffaele Sciortino
Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. Non ha rotto con questo l’isolamento della resistenza greca, non può farlo da sola, ma -passione contro ricatto, dignità contro paura - ha sbattuto in faccia a tutti le conseguenze di una crisi che i pescecani dell’euromerdocrazia e della finanza in alto, ceti sociali ottusi o rassegnati o ancora illusi in basso non riusciranno a lungo ad attribuire agli “irresponsabili” greci (anche se è questo oggi il messaggio lanciato e in gran parte recepito nel resto d’Europa).
Dunque, l’ordine non regna ad Atene. Al contrario, abbiamo la prima vera scossa politica in Occidente dallo scoppio della crisi globale. Adesso cercheranno di fargliela pagare carissima. La parola d’ordine a Berlino e Bruxelles è subito diventata organizzare il Grexit, non importa se tra mal di pancia, timori e mugugni di politici e stati di secondo rango o addirittura del padrino d’oltreoceano. Non si può lasciar passare l’idea che resistere è possibile! Il regime change, fallito in forma soft, passa ora alla fase due, quella dura che chiuderà del tutto i rubinetti della moneta puntando a produrre ancora più miseria, caos, scontento e, chissà, “richieste di ordine”.
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Il regime del salario 2
Naspi, ovvero del triste tramonto del welfare
di Lavoro Insubordinato
C’era una volta il progetto di mettere al lavoro l’intera società italiana senza eccezioni e senza possibilità di sottrazione. Nel 2001 l’allora ministro Maroni in un celebre libro bianco proponeva una «società attiva e una nuova qualità del lavoro». Dopo quasi 15 anni di lotte e di resistenze quel progetto sembra oggi realizzarsi grazie al nuovo regime del salario che il governo Renzi sta progressivamente instaurando. Sarebbe perciò quanto mai sbagliato leggere le politiche del lavoro del nuovo governo come la trovata estemporanea e vagamente populista di un decisionista allo sbaraglio. Non si tratta nemmeno della truffa di un giocoliere più abile di altri. Non basta cioè denunciare l’ingiustizia o la furbizia dell’imbonitore, affinché i truffati si rendano conto dei loro diritti violati. Tutte queste misure sono invece il compimento di un processo e pretendono di registrare lo spostamento dei rapporti di forza che è oramai avvenuto all’interno della società italiana ed europea. Il regime del salario che il governo sta imponendo mira a stabilire le condizioni grazie alle quali la coazione del lavoro investa anche il non lavoro, stabilendo una paziente disponibilità a una nuova occupazione, in altri termini all’occupabilità. Questo regime del salario non punta a una salarizzazione dell’intera società, non fa cioè corrispondere un salario certo a un lavoro sicuro, esso stabilisce piuttosto le basi di un’incertezza generalizzata che investe tanto il salario quanto il reddito, facendo di quella stessa incertezza il solo e unico criterio di giustizia.
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Il Corpo
di Elisabetta Teghil
"E' maschio o femmina? lo deciderà lo Stato!"
(dal film Louise Michel- Francia 2009)
Questa società si definisce mediante il posto ed il valore che assegna ai due sessi e ai loro atteggiamenti socialmente costituiti.
Il che comporta il fatto che esistano tante maniere di realizzare la femminilità quante sono le classi e le frazioni di classe. La verità di una classe o di una frazione di classe si esprime, quindi, nella forma in cui i sessi sono distribuiti al suo interno.
Mentre il femminismo ha cercato di portare a consapevolezza e di utilizzare politicamente tale correlazione, nella risposta socialdemocratica i ruoli sessuali continuano ad essere definiti e le nuove esperienze ibridanti della sessualità, transessuali e transgender, non sono tese alla rimozione dell’organizzazione classista e sessista, ma ne costituiscono una variante, spesso al servizio della soluzione economicamente più redditizia.
Pertanto il “femminismo socialdemocratico” e l’ibridismo sessuale filo-occidentale, diventano puntelli di questo ordine sociale.
In questo modo si avalla il principio che questa società sia positiva e la si eleva ad assoluto, rispetto alla quale il divenire temporale deve essere considerato come una forma già precompresa ed organizzata.
Da qui, la radice, la causa ed il principio della violenza che la società stessa perpetra e che viene giustificata come difesa dell’ordine naturale e razionale. Accettando l’esistenza, l’ordine e la gerarchia delle classi sociali come naturali, le funzioni politiche dello Stato acquistano valenza sociale.
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Solo un Leviatano può salvarci
Gianni Ferrara
Non è vero che i mercati hanno espropriato gli stati. È vero, invece, che gli stati hanno abdicato a favore dei mercati. E' ora che tornino, dopo il fallimento dell'Unione così come disegnata dai Trattati
Riflettendo sulla crisi che attraversa l’Europa, Rossana Rossanda pone “agli amici economisti e ai padri e padrini (di battesimo cattolico) della Ue” una domanda evidentemente retorica. Questa: “Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?”
A rigore, non sarei tenuto a rispondere. Sia perché non sono un economista e, d’altronde, non sulle dottrine economiche dominanti mi sono formato … ma sulla “critica dell’economia politica”. Sia perché nessun rapporto di parentela culturale e politica avrei potuto avere con i “costituenti” dell’Unione europea e con gli sperticati apologeti dell’Ue. Per di più, un certo impegno di studioso lo ho dedicato alle istituzioni europee, da quello di Maastricht in poi, lasciandone su “la rivista del manifesto” alcune tracce, il cui senso,1 per eleganza, ometto di ricordare. Rossana però, riferendosi alla “costituzione” della Ue, quasi mi impone di intervenire.
Inizio con una constatazione che a me pare del tutto evidente. Un fallimento vero e proprio si è avuto, è avanti a noi. È insieme istituzionale, politico, culturale. Può scadere in un catastrofico default finanziario. È il fallimento dell’Unione europea come disegnata dai Trattati. Ne investe il principio politico, quello del neoliberismo cui questi Trattati si ispirano. È quindi il fondamento su cui si erge l’intero e complesso edificio istituzionale denominato Ue che viene travolto dal default.
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Green pass e obbligo vaccinale – Contraddizioni insanabili del capitalismo nella frattura pandemica
di City Strike
Premessa metodologica
Quella che segue non è la nostra posizione sul dibattito in corso su green pass, vaccini ecc., ma una serie di note sulle contraddizioni che da questo dibattito emergono. Per noi non ha senso inseguire la cronaca quando ogni giorno vengono alla luce novità vere o presunte che spesso rendono il quadro generale incomprensibile. Non ci interessa, quindi, contrapporci con qualcuno, collocarci in qualche schieramento, strizzare l’occhio a chissà quale soggetto.
Quel che ci interessa è provare a fornire elementi di riflessione su come si affrontano le discussioni.
La complessità delle questioni che affronteremo nel testo pensiamo sia nota ai nostri lettori, la possibilità di essere fraintesi è quindi elevata.
Il testo è correlato da note che riteniamo essenziali per comprenderlo e non appesantirne la lettura. Devono perciò essere considerate come parte integrante dell’analisi e chiediamo quindi la pazienza di leggerle.
Al contempo, questo è un testo che trascura diverse questioni sulle quali occorrerebbe un approfondimento che a volte non è alla nostra portata perché mancano dati coerenti su cui fondare l’analisi, mentre in altri casi, non abbiamo le competenze per poterci esprimere.
Tuttavia, quello che leggerete di seguito pensiamo sia riassumibile in poche righe: crediamo nelle risposte collettive alle sfide che ci si presentano. Crediamo che il sistema in cui abbiamo vissuto e in cui viviamo non sia strutturalmente in grado di rispondere ad esse, se non amplificando le fratture sociali interne e verso l’esterno. In queste fratture i rivoluzionari devono intervenire non per inseguire rivolte più o meno estese, ma per sviluppare coscienza di massa dei problemi reali.
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Recovery Fund: manuale di autodifesa contro la propaganda di regime
di Thomas Fazi
Quando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.
Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.
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Macedonia, prove di golpe
di Michele Paris
La crisi politica che sta attraversando la Macedonia dall’inizio dell’anno ha fatto segnare una drammatica accelerazione in questi ultimi giorni con un violento scontro armato in una delle più importanti città del paese balcanico. Parallelamente, il panorama politico domestico continua a essere turbato dagli attacchi dell’opposizione al governo conservatore del primo ministro, Nikola Gruevsky, scosso martedì dalle dimissioni di due importanti ministri.
A partire dal mese di febbraio, il leader dell’Unione Socialdemocratica (SDSM), Zoran Zaev, ha inziato a rendere pubbliche una serie di intercettazioni di conversazioni di esponenti del governo che dimostrerebbero varie illegalità commesse dagli uomini al potere, da brogli elettorali alla manipolazione del sistema giudiziario.
Zaev continua inoltre ad accusare il premier di avere attuato una svolta autoritaria, con piani, tra l’altro, per mettere sotto controllo la stampa e sorvegliare le comunicazioni di decine di migliaia di persone.
In particolare, una delle intercettazioni diffuse dal leader socialdemocratico aveva scatenato settimana scorsa una manifestazione di protesta nella capitale, Skopje. I dimostranti si erano mobilitati per contestare il governo dopo che erano emerse le manovre delle autorità per insabbiare le indagini sulla morte nel 2011 di un 22enne dopo le percosse subite da un agente di polizia.
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Il vertice di Bruxelles
di Rodolfo Ricci
Secondo la ricostruzione de l’Unità, gli esiti del compromesso raggiunto ieri al vertice decisivo di Bruxelles sarebbero riassumibili come segue: ” L’accordo prevede che i paesi ‘virtuosi’ sotto la pressione di spread ‘eccessivì possano usufruire dell’acquisto di una parte dei loro titoli di Stato da parte dei fondi di salvataggio dell’Eurozona (l’Efsf e il suo successore permanente, l’Esm), senza per questo doversi sottoporre a condizioni aggiuntive rispetto agli impegni già presi con la Commissione e l’Eurogruppo nell’ambito delle cosiddette raccomandazioni ‘country specific’, che applicano il ‘Semestre europeo’, il Patto di stabilità e la ‘procedura sugli squilibri macroeconomici. In sostanza, il paese interessato dovrà comunque fare una richiesta formale di attivazione dell’intervento del Fondo di salvataggio, e sottoscrivere un ‘Memorandum of understanding’ (‘Protocollo d’intesa’) con la Commissione europea. Su questo punto Monti non ha ottenuto quello che voleva (l’attivazione automatica dell’intervento quando gli spread superassero una determinata soglia).
I vari mezzi di comunicazione mainstream stanno accoppiando il risultato raggiunto (attribuito in gran parte a Mario Monti e sostenuto da Spagna e Francia), ad una sorta di semi ritirata dell’area tedesca dal fronte del rigore e dell’austerità e soprattutto di rifiuto di solidarietà nella condivisione dei debiti dei Piigs.
Questo serve a convincere l’opinione pubblica nazionale della validità dell’impostazione montiana e di conseguenza tende a rafforzare l’attuale quadro politico, nelle ultime settimane piuttosto vacillante.
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Le illusioni del liberista Monti
di Felice Roberto Pizzuti
Per Monti, lo Stato sociale è un lusso che non possiamo più permetterci. La storia insegna invece che è il presupposto per la crescita e la sua qualità
Non tutti i commentatori sembrano averlo capito, ma Monti nella sua conferenza stampa di fine anno ha detto che non ci sarà una fase 2 qualitativamente diversa dalla prima. Al di là dei diversi nomi a esse assegnati, “salva Italia” alla prima e “cresci Italia” alla seconda (molto poco appropriati, come si vedrà), Monti ha puntigliosamente precisato che la triade composta in primo luogo dal rigore nei bilanci e poi da crescita ed equità continuerà a caratterizzare anche la prossima fase dell’azione governativa (potranno cambiare i pesi nella triade). Perché non ci siano dubbi sull’ordine di priorità e sulla concezione economica e politica del suo governo, Monti ha specificato che, ritenendo preminente perseverare nel rigore di bilancio, saranno minime le risorse pubbliche per la crescita, la quale dovrà essere stimolata dalle misure volte a ottenere una maggiore ”equità”, intendendo con quest’ultima essenzialmente ciò che deriverà da una maggiore concorrenzialità dei mercati da ottenersi con le liberalizzazioni. Il ché chiarisce ulteriormente quali siano, per Monti, i rapporti di valore e causali tra rigore, crescita ed equità (intendendo quest’ultima nel senso sociale e distributivo proprio del termine): il primo è indispensabile per ottenere la seconda la quale, se ce n’è a sufficienza, potrà consentire la terza. Rispondendo a una domanda, Monti è stato esplicito: l’Europa e ancor più l’Italia non possono più permettersi le prestazioni sociali concesse nei periodi di maggiore crescita del passato (e per i futuri pensionati i tagli non sono finiti visto che la manovra già varata prevede una commissione che dovrà studiare il taglio dei contributi a favore delle imprese che ridurrà ulteriormente le pensioni).
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La crisi e i suoi derivati
di Vladimiro Giacchè
Chi adopera youtube è probabile che conosca già il geografo e sociologo inglese David Harvey, per via di un’animazione sulla crisi del capitalismo che ha avuto grande successo (oltre un milione e duecentomila visualizzazioni) e che da qualche tempo è stata anche tradotta in lingua italiana. Rispetto a quel video, il libro più recente di Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, tradotto quest’anno da Feltrinelli (il titolo originale era un po’ meno immaginifico: The enigma of capital and the crises of capitalism), con le sue oltre 300 pagine, ha il difetto di non poter essere passato in rassegna in dieci minuti. Ma il linguaggio di Harvey non è meno chiaro sulla carta stampata di quanto sia su video. E il suo testo riesce ad introdurci con grande semplicità alle modalità di funzionamento della società capitalistica e alle sue crisi. Con un occhio particolare, ovviamente, a quella in corso. Che per Harvey, come tutte le crisi, sta svolgendo la sua funzione di riconfigurare il capitalismo permettendogli di continuare a sussistere. Ossia di far ripartire l’accumulazione del capitale, momentaneamente ingolfata (a causa di un eccesso di capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente).
“Le crisi” – dice Harvey – “servono a razionalizzare le irrazionalità del capitalismo; di solito conducono a riconfigurazioni, a nuovi modelli di sviluppo, nuove sfere di investimento e nuove forme di potere di classe… Durante una crisi come quella che stiamo vivendo attualmente, è sempre importante tenere a mente questo fatto. Dobbiamo sempre domandarci che cos’è che viene razionalizzato e qual è la direzione in cui procede la razionalizzazione, poiché questo definisce non soltanto la maniera in cui usciremo dalla crisi, ma anche le future caratteristiche del capitalismo”.
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Dopo la guerra
di Enrico Tomaselli
Quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra ibrida multilivello. Ibrida, in quanto non è combattuta soltanto sul piano militare, ma anche – e fortemente – su quello economico e diplomatico. Multilivello perché, anche se voluta e lungamente preparata dagli USA, che ne sostengono l’onere economico maggiore sul breve termine, vede coinvolti obtorto collo anche gli alleati della NATO, ed in particolare i paesi europei che ne pagheranno i costi più di chiunque altro, ed è infine combattuta sul campo dagli ucraini. Ma, anche se al momento tutti gli attori sembrano lanciati verso il proseguimento del conflitto, questo avrà comunque fine. Cosa accadrà, quindi dopo la guerra, nel campo occidentale?
* * * *
I deficit strutturali della NATO
La questione fondamentale per l’impero americano, e che di fatto già si pone, è come affrontare le sfide cui la guerra ha fatto da acceleratore, e che l’attendono nel dopo. Il dominio USA, almeno sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, si è basato sostanzialmente su tre asset: il potere del dollaro, il potere delle armi, il potere della comunicazione.
Ora il potere della comunicazione si basava fondamentalmente sull’idea degli Stati Uniti come patria del benessere, delle opportunità e della libertà. Un’idea che ha funzionato molto bene, sinché l’alternativa sembrava essere l’austerità sovietica, ma che – finita la guerra fredda – ha perso buona parte del suo appeal, anche a fronte di una rinnovata aggressività americana.
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Michal Kalecki e il marxismo economico del ‘900
di Joseph Halevi e Peter Kriesler (1)
I quindici anni che vanno dalla fine del XIX secolo allo scoppio della prima guerra mondiale, formarono forse il periodo più ricco nella storia dell’economia marxiana. Questa ricchezza – magistralmente presentata e resuscitata da Paul Sweezy nel suo insuperabile classico (1942) The Theory of Capitalist Development (1951 edizione italiana) – era stata molto stimolata dalla natura non unicamente accademica del dibattito. I partecipanti, provenienti dall’Europa di lingua tedesca e dall’impero zarista, che in quegli anni includeva anche la Polonia, si sforzavano di capire le dinamiche di accumulazione del capitale in un contesto che sicuramente non era quello di Marx. Il principale sviluppo tra il periodo in cui scriveva Marx e quello dei dibattiti russo-tedeschi fu il cambiamento della natura del sistema capitalista. Il riferimento è alla forza della concorrenza come intesa da Marx quando scriveva:
Inoltre, lo sviluppo della produzione capitalistica rende costantemente necessario aumentare la quantità del capitale investito in una data impresa industriale, e la concorrenza fa sì che le leggi immanenti della produzione capitalistica siano sentite da ogni singolo capitalista, come leggi coercitive esterne. Essa lo costringe ad estendere costantemente il suo capitale per conservarlo, ma egli non può estenderlo se non per mezzo dell’accumulazione progressiva (tradotto da: Karl Marx, Il Capitale, Vol. 1, cap. 24, https://marxists.architexturez.net/archive/marx/works/1867-c1/ch24.htm, visitato il 3/12/20021).
Questa legge coercitiva della concorrenza si manifesta attraverso la “Legge generale dell’accumulazione capitalistica” che Marx sviluppa nel capitolo 25 del primo volume del Capitale(edizione di Mosca) dandogli il medesimo titolo. La legge consiste nel fatto che: (a) il tasso di profitto e il tasso del salario si muovono, l’uno rispetto all’altro, rigorosamente in direzione inversa, (b) tutto il plusvalore viene automaticamente investito indipendentemente dal fatto che il suo ammontare sia alto o basso.
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L’Unione Europea uccide più del covid-19
di Massimiliano Bonavoglia
L’indice S&P, che era precipitato da 3390 a 2190, sembra segnare una parziale ripresa del tonfo dovuto al COVID-19. Questa risalita viene tuttavia definita una Bull trap, ossia una falsa ripartenza da un interessante articolo di Chris Vermeulen che, comparando l’attuale pattern grafico (schema di andamento) con quelli degli ultimi 150 anni, conclude che l’attuale ripresa sia solo apparente, una bull trap, ossia una trappola che ingabbierà il toro (che in finanza rappresenta il valore in salita). Come mostra il grafico, prima del ritorno alla sensatezza di un mercato impazzito, sarà molto probabile un nuovo minimo su S&P500.
Se questa funesta previsione fosse vera, saremmo legittimati a pensare che il peggio per i mercati internazionali deve ancora arrivare. Gli ultimi interventi delle banche centrali (FED BCE e non solo) hanno adottato il Quantitative Easing, ossia l’allentamento quantitativo volto ad agevolare innanzitutto gli Stati nazionali entrati già nel 2019 in recessione, riduzione dei tassi di interesse, acquisto di titoli di Stato, di titoli finanziari, di corporate bonds (ossia titoli di grandi aziende mediante gli ETF) eccetera. Tutto questo prima del blocco forzato che oggi si estende a circa quattro miliardi di persone nel mondo, che ha fermato le produzioni globali e rallentato di due terzi i consumi. Per un sistema economico fondato essenzialmente su consumi, produzione di beni e obsolescenza programmata, questa situazione è indubbiamente preoccupante per la sopravvivenza del sistema stesso, oltre che degli esseri umani. Basta guardare gli indici del petrolio, che hanno segnato un nuovo minimo nonostante gli sforzi dell’OPEC di limitare le produzioni, per compensare il calo vertiginoso della domanda.
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Il sistema conteso
L'eredità hegeliana tra Gramsci e Gentile
di Emiliano Alessandroni
Nelle pagine dei Quaderni del carcere Gramsci afferma in più di un'occasione come la filosofia di Croce e Gentile – indipendentemente da quanto essi stessi ne dicano – lungi dal costituire l'erede della filosofia hegeliana, esprime un ripiegamento sull'unilateralità idealistica che espunge la dimensione più viva e concreta del filosofo tedesco, per dare luogo ad una sorta di «hegelismo addomesticato»1, ovvero ad una revisione conservatrice di Hegel:
È da vedere se il movimento da Hegel a Croce-Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma «reazionaria». Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica?...Tra Croce-Gentile ed Hegel si è formato un anello tradizione Vico-Spaventa-(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel2?
Scongiurando un tale arretramento, una tale controriforma reazionaria, Gramsci indica nel marxismo, ovvero nella filosofia della praxis, l'autentica eredità dell'hegelismo, scagliandosi con veemenza contro tutte le generalizzazioni indebite suscettibili di soffocare in categorie astratte e formali le specificità e le scissioni concrete – come avviene di norma nel neoidealismo, e segnatamente in Gentile:
Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro.
In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione3.
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I fatti di Parigi e il complottismo
Una chiave di lettura consolatoria e fuorviante
Marco Santopadre
“Sono stati gli israeliani”, “Gli Usa hanno colpito la Francia perché è contro le sanzioni alla Russia”, “Perché il corpo del poliziotto non sanguina? E’ tutta una messinscena, a Parigi non è mai morto nessuno”, “Dicono che è stato l’Isis? Ma se l’Isis è un’invenzione della Cia!”…
In queste ore sul web, insieme ai tanti messaggi di frettolosa identificazione nei confronti di un giornale della quale la maggior parte degli italiani neanche conosceva l’esistenza e dal quale rimarrebbe probabilmente inorridito conoscendolo meglio, proliferano innumerevoli ricostruzioni e commenti sui fatti di Parigi.
Fatti che, occorre dirlo, non sono del tutto chiari e rivelano non pochi buchi nelle ricostruzioni ufficiali, suscitando quindi parecchie perplessità in chi ha sviluppato nel tempo un sano e sacrosanto scetticismo nei confronti delle versioni di alcuni importanti eventi diffuse dalle autorità e dalla stampa.
E’ possibile che tre “non professionisti del terrore” abbiano messo in scacco uno dei paesi più potenti e organizzati in fatto di sicurezza, intelligence e apparati militari? E’ possibile che la sede di un giornale così gravemente aggredito e minacciato fosse così scarsamente protetta? O che i due fratelli Kouachi abbiano potuto così facilmente organizzare la strage nonostante fossero più che noti alle forze di sicurezza di Parigi? Non è che ‘qualcuno’ li ha lasciati fare?
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“Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica”
Letture.org intervista Gaspare Nevola
Prof. Gaspare Nevola, Lei è autore del libro Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica edito da Carocci. L’antifascismo rappresenta un “canone” politico-identitario della nostra Repubblica: come ha resistito tale canone di fronte ai cambiamenti e alle fratture sociali, politiche e culturali che ne hanno segnato la storia?
Il libro è una sorta di viaggio attraverso le diverse stagioni politiche e culturali della Repubblica, ruota attorno al tema dell’identità politica della Repubblica e al canone della memoria pubblica che vi si intreccia: l’identità politica e il canone della memoria sono quelli di una democrazia antifascista. Le feste civili della Repubblica (25 aprile, 2 giugno, 4 novembre), la loro nascita, il loro persistere e il loro mutare di accenti nei decenni esprimono le luci e le ombre della nostra democrazia antifascista. Questi rituali civici, pur con i loro conflitti, polemiche o appannamenti dei sentimenti collettivi, sono riusciti a riproporre il canone politico-identitario dell’antifascismo. Tuttavia, come evidenzio nel libro, tale canone è pervaso da “fratture”: come un vaso di porcellana che si presenta intero e però si mostra corroso dalle crepe. Le fratture hanno indebolito il canone dell’antifascismo, tuttavia non hanno mai portato alla sua distruzione o archiviazione. L’epos e l’ethos della Resistenza e della Liberazione hanno fin dall’inizio offerto un’incarnazione plastica dei valori di libertà e di giustizia che ispirano il canone politico-identitario della nostra democrazia antifascista. Il canone antifascista è sigillato nella stessa Costituzione, trova costante espressione nei discorsi celebrativi delle alte cariche dello Stato, di uomini politici e intellettuali; si riverbera nella società anche attraverso la scuola, i nomi delle strade e delle piazze, i musei e i monumenti e, last but not least, attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
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‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’
A. Aresu e L. Caracciolo intervistano Pietro Craveri
LIMES La Prima Repubblica nasce e muore con la guerra fredda. In quella fase, l’Italia è un semiprotettorato americano. Condivide questo giudizio?
CRAVERI Francesco Cossiga è stato il primo a formulare il giudizio di un’Italia «semiservente». Un giudizio radicale giunto alla fine della guerra fredda come contraccolpo alla situazione interna, politicamente sempre più debole. È difficile non condividerlo. Nel corso della Prima Repubblica, dal 1946 al 1992 l’Italia è parte integrante della sfera d’influenza americana, cercando tuttavia di ritagliarsi i suoi spazi, di difendere i suoi interessi. Talvolta con successo.
LIMES L’Italia esce dalla seconda guerra mondiale sconfitta e umiliata. La sua costituzione geopolitica è il trattato di pace del 1947, che sancisce la catastrofe, malgrado la retorica pubblica che ci vorrebbe riscattati agli occhi dei vincitori dalla Resistenza.
CRAVERI Infatti il problema di Alcide De Gasperi e del suo ministro degli Esteri Carlo Sforza è mitigare le conseguenze del trattato di pace, che segna la condizione geopolitica di partenza della Prima Repubblica. Al Congresso di Parigi del 1946, De Gasperi riesce a chiudere solo la questione altoatesina, perché aiutato dal ministro degli Esteri sovietico Molotov. I sovietici avevano problemi in Austria, dove si trovavano di fronte un governo filo-occidentale. Su tutti gli altri fronti, nel dopoguerra immediato l’Italia è isolata: dagli inglesi filo-jugoslavi sull’Istria, ai francesi che non ci aiutano affatto, anzi cercano di sottrarci dei territori.
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Sinistra svegliati, la casa europea brucia
di Enrico Grazzini
Il legame strettissimo tra la politica recessiva dell’Unione Europea e quella liberista, iniqua e inconcludente del governo Renzi sembra stranamente sfuggire alla sinistra italiana. Che sulla natura della UE si dimostra ancora illusa sul piano teorico e impotente sul piano politico
Grazie alle istituzioni europee la destra neoliberista, amica intima della grande finanza, provoca continue e drammatiche crisi e, con la complicità (attiva o passiva) delle forze di centrosinistra, genera disoccupazione e povertà. L'Unione Europea svuota la democrazia e abbatte lo stato sociale. Il crollo dell'euro è tutt'altro che escluso. Ma sulla natura della UE gran parte della sinistra si dimostra illusa sul piano teorico e impotente sul piano politico.
Intendiamoci: la sinistra in Europa e in Italia esiste ancora, nonostante sia ormai estremamente minoritaria e confusa, e nonostante che molti credano che il concetto stesso di sinistra (associato a quello di giustizia ed eguaglianza sociale) sia superato e inutile. Purtroppo però la sinistra è imbelle di fronte a questa UE, anche se la UE persegue apertamente lo smantellamento di una qualsiasi cultura progressista e della stessa civiltà europea, storicamente fondata sul conflitto sociale, sui diritti democratici e sul welfare. Sembra insomma che la sinistra faccia di tutto per restare minoritaria e ininfluente.
La sinistra è incline a fare un'opposizione morbida e riverente a sua maestà la UE, considerata sempre e comunque come sacra in quanto supposta “patria dei popoli europei”. Ma questa UE non è la “casa dei popoli”, anzi, opprime i popoli d'Europa. La protesta verso l'Unione Europea – e verso la moneta unica che strangola le economie in tutta Europa e che è diventata il brand ufficiale della UE – cresce, anche se non è ancora diventata maggioritaria.
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Le riforme, il debito, la crisi, l’Europa
ForexInfo intervista Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Roma, 1955) è Professore ordinario di Politica fiscale e monetaria dell’Unione Monetaria Europea e di Economia della crescita e dello sviluppo presso il Dipartimento di Economia Politica e Statistica (DEPS) dell’Università degli Studi di Siena.
Dopo gli studi nelle università di Roma La Sapienza e di Manchester si è occupato nella sua attività di ricerca di teoria della crescita e analisi dei sistemi pensionistici in una prospettiva non ortodossa.
Ha pubblicato numerosi contributi scientifici su riviste italiane e internazionali, fra queste Research Policy, Cambridge Journal of Economics e Review of Political Economy, oltre che contributi a volumi in lingua inglese e un libro di economia dei sistemi pensionistici con l’editore Edward Elgar. Ha scritto numerosi articoli su Il Manifesto, Economia e Politica e Micromega.
È anche curatore dei blog http://politicaeconomiablog.blogspot.com/ e http://documentoeconomisti.blogspot.com/ e, insieme a Massimo Pivetti, dell’e-book "Oltre l’austerità" scaricabile gratuitamente online.
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Perché la riforma Fornero va contro produttività e crescita
Domenico Moro
1. Produttività e crescita economica
In Italia e in Europa si ripete come un mantra la necessità di accompagnare la crescita al risanamento dei conti pubblici. La crescita economica è riconducibile a molte e complesse fonti. Secondo molti economisti, una delle più importanti è l’aumento della produttività globale, sebbene i meccanismi che legano questa alla crescita siano diversi a seconda della prospettiva di analisi adottata.[1] Proprio con lo scopo dichiarato di innalzare la produttività italiana e, in questo modo, di spingere la crescita, da tempo entrambe stagnanti, è stata presentata dal ministro Fornero una proposta di riforma del mercato del lavoro. La logica sottostante a tale riforma, in accordo con il senso comune del mainstream economico e politico, è che il declino della produttività in Italia dipende da un mercato del lavoro troppo poco deregolamentato. A nostro avviso si tratta di una logica non solo errata ma anche controproducente.
Prima di affrontare il discorso sulle cause del declino della produttività italiana, va precisato che definire e misurare la produttività e la sua evoluzione nel tempo è piuttosto complesso. Le misure utilizzabili sono molteplici. L’indicatore più comune è la produttività generica del lavoro, nella forma del rapporto tra la quantità di valore aggiunto prodotto (QV) e il numero delle ore di lavoro (H) impiegate per produrlo (P = QV/H). Tale indicatore presenta, però, il limite di non far emergere esplicitamente il ruolo degli investimenti e dell’innovazione tecnologica.
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Ecco perchè l’Europa deve cominciare a temere gli Usa
Mauro Bottarelli
La fuga di massa è iniziata. Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America, a sua volta “cavaliere bianco” di Merrill Lynch e la decisione del fondo sovrano di Abu Dhabi di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute (costringendo Barclays a vendere a Blackrock il suo gioiello del fund management Bgi per 13 miliardi di dollari), ecco un’altra notizia che ci segnala come la terza ondata di crisi sia ben oltre la soglia di casa.
Due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori hanno chiuso, dalla sera alla mattina: accadde così anche nel giugno di due anni fa, quando due fondi speculativi legati a Bear Stearns andarono a gambe all’aria dando il via alla crisi globale. Niente paura, era tutto previsto.
Non è un caso, infatti, che mentre i segnali che arrivano dal mercato segnano tempesta, qualcuno ricominci con le previsioni al rialzo e l’ottimismo a prezzo di saldo: Goldman Sachs, infatti, ha fissato a 85 dollari il prezzo che raggiungerà a breve il barile di petrolio. Lo scorso anno parlavano di quota 200 dollari e fallirono, ma in parecchi fecero molti, molti soldi grazie alle montagne russe del greggio che schizzò a luglio a 147 dollari il barile dando vita a una danza dei futures mai vista. Questo nonostante non ci sia alcuna ripresa reale in corso per quanto riguarda economie e soprattutto industrie: il fabbisogno energetico della Cina è calato del 10% e sul mercato, anzi nei magazzini, ci sono 100 milioni di barili di greggio pronti alla consegna ma che non verranno consegnati. Se non riparte la crescita, nessuno ha bisogno di petrolio in più.
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Come domare gli ‘spiriti animali’ del capitalismo?
di Carlo Formenti
Vi sono momenti storici in cui, come diceva Gramsci, il vecchio muore ma il nuovo non riesce a nascere. In simili momenti è un intero apparato concettuale (teorie, visioni, ideologie, parole) a entrare in crisi: politici, intellettuali, persone comuni si rendono conto che tutto quello che hanno imparato attraverso la loro educazione e le loro esperienze professionali e di vita non serve più (o almeno serve sempre meno). Il mondo cambia troppo in fretta perché si riesca a descriverlo, né tanto meno a comprenderlo. Al disorientamento generato da questa incapacità dei linguaggi di aderire alla realtà, si tende a reagire aggrappandosi alle rassicuranti categorie del passato, cercando di adattarle il più possibile all’attualità, non ci si rassegna a rinunciarvi, nemmeno di fronte alla loro palese inutilità di fronte alle sfide economiche, sociali e politiche che incombono. In questi frangenti il coraggio dei pochi che tentano di esplorare nuovi percorsi teorici, di cambiare il punto di vista sul mondo, è un dono prezioso che merita riconoscimento. Un esempio di tale coraggio viene dall’ultimo libro di Onofrio Romano, “La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale” (Meltemi), in cui l’autore propone una spiazzante ricostruzione delle dinamiche e delle cause delle grandi crisi che la società capitalista ha attraversato nell’ultimo secolo.
L’originalità del lavoro di Onofrio Romano consiste nello sforzo di assumere una postura “laterale” nei confronti dei modelli teorici – economici, politici, sociali - consolidati con cui è stato sviscerato il periodo storico in questione, che è quello fra le due transizioni di secolo XIX-XX e XX-XXI. Pur non rinunciando a confrontarsi con tali modelli e con i loro massimi interpreti, Romano li integra con – o per meglio dire li ingloba in - una visione prevalentemente culturale/antropologica dei fenomeni analizzati. Ne emerge un quadro in cui le classiche categorie oppositive della moderna teoria sociale (progresso/conservazione; democrazia/totalitarismo; capitalismo/socialismo; destra/sinistra, ecc.) passano in secondo piano rispetto all’inedita endiadi orizzontalismo/verticalismo.
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La “rottura” della cittadinanza
di Sandro Mezzadra
Étienne Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia “da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”, producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. E’ necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa.
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Il governo Monti e il consenso bipartitico nella postdemocrazia italiana
di Michele Nobile
1. Dall’appello allo stato d'emergenza contro Berlusconi alle chiacchere sul colpo di Stato del professor Monti.
Quando il Presidente della repubblica Napolitano conferì l’incarico di formare il governo a Mario Monti si gridò al colpo di Stato, alla democrazia sospesa e all’avvento del «governo delle banche»; curiosamente, pasdaran berlusconiani, leghisti e sinistra hanno usato e usano toni e idee simili. Ma questi sono gridi che dal lato sinistro stridono con altri già sentiti per anni. Le banche e la Confindustria non erano forse già al governo? Marchionne non praticava già una sorta di fascismo aziendale spalleggiato dal governo? E il «blocco reazionario di massa» che fine ha fatto? È con Monti o con Berlusconi? E che ne è di quel presunto specifico «regime» berlusconiano che per essere tale doveva pur mostrare di disporre di qualche muscolo? E che nuovo genere di colpo di Stato o imposizione da parte dell’oligarchia straniera è mai questa che ha il sostegno parlamentare dei due maggiori partiti nazionali che nella logica maggioritaria dovrebbero alternarsi al governo? Cos’è, un golpe ultraparlamentare invece che antiparlamentare?
Oppure, l’ascesa di Monti è forse la realizzazione del sogno putschista di Alberto Asor Rosa? Si ricorderà che un anno fa, oltre a paventare come tanti «la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire», Asor Rosa riteneva «incongrua una prova di forza dal basso»; auspicava, invece, l’intervento del Colle, lo «stato d'emergenza», il ricorso a Carabinieri e Polizia di Stato, il congelamento delle Camere (1). Il tutto a difesa della democrazia...
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Il governo di unità militare
di Andrea Turco
La nomina a commissario per l'emergenza del generale Figliuolo rinnova il mito per cui l'unica organizzazione efficace è quella militare, cioè autoritaria. E per le forze armate il Covid si conferma un affare che aumenta finanziamenti e visibilità
In una scena famosa del film Vogliamo i colonnelli – feroce satira di Mario Monicelli che immagina un colpo di Stato in Italia sull’esempio del regime greco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – un gruppo sgangherato di nostalgici fascisti e vecchi arnesi dell’esercito si ritrova ad arringare giovani uomini bianchi che nelle intenzioni dovrebbero costituire la manovalanza del golpe. Il più esagitato è l’onorevole Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi. Le sue parole, a distanza di quarant’anni, risultano paradigmatiche:
Ordine, Obbedienza, Disciplina! Basta con l’anti-storica uguaglianza. Ma che vuol dire? Ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore… madonna di un dio! Soltanto i coglioni sono uguali l’uno all’altro.
Di quel film, zeppo di riferimenti nemmeno troppo velati al principe Junio Valerio Borghese e alla destra del Movimento Sociale Italiano, quella appena riportata è una delle battute invecchiate meglio. Alla pari dell’invocazione del titolo. Nel dibattito pubblico, almeno in quello mainstream, di fronte alla millantata indisciplina del popolo italiano si finisce prima o poi fatalmente per invocare l’esercito. Ancor di più nell’era Covid che stiamo vivendo. Il governo Draghi ha accelerato questo processo. Il fatto più emblematico in questo senso è il recente affidamento della gestione dell’emergenza Coronavirus al generale di corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, dal 2018 comandante logistico dell’Esercito italiano.
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Il declino di una sinistra che chiude gli occhi
di Antonio Lettieri
I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa
1. A metà del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di promuovere un accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico della storia dei conflitti franco-tedeschi che avevano dominato la prima parte del secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’uso congiunto del carbone della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.
Nacque così, per iniziativa francese, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo accordo transnazionale nell’Europa contemporanea. La seconda tappa fu qualche anno dopo, nel 1957, l’istituzione del Mercato comune che, al pari della CECA, comprendeva, oltre a Francia e Germania, l’Italia e i paesi del Benelux. Gli effetti furono pari alle aspettative. Il “miracolo economico” tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta si estese dalla Germania all’Italia. L’Europa dei sei paesi fondatori della CEE, la Comunità economica europea,cresceva a vista d’occhio in un clima di tendenziale piena occupazione.
Con l’avvento di Charles de Gaulle, la Francia, dopo oltre un decennio, uscì finalmente dal vicolo cieco dei conflitti coloniali in Vietnam e in Algeria, e poté rilanciare l’impegno per la costruzione europea, ribadendo e rafforzando la partnership franco-tedesca.
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Handelsblatt: l’irreale “real estate” tedesco
di Simon Book, Jens Munchrath e Reiner Rachel
L’ambiente di tassi d’interesse negativi e la mancanza di investimenti profittevoli sta spingendo investitori e banche dei paesi core, e della Germania in particolare, in una gigantesca bolla immobiliare. I prezzi delle case raddoppiano di anno in anno, gli acquirenti comprano immobili alla cieca senza nemmeno metterci piede e le banche fanno prestiti a tasso quasi nullo senza verificare la solvibilità dei mutuatari, in quella che sembra la riedizione mitteleuropea della bolla dei subprime. L’unico modo per fermare la corsa dei prezzi è alzare i tassi di interesse, ma la BCE nel tentativo di “salvare il soldato euro” sta caparbiamente andando in direzione opposta. Che la nemesi dell’euro stia arrivando sotto forma di bolla immobiliare? Da Handelsblatt
Jaguar, Maserati e Mercedes pulitissime costeggiano l’acciottolato, riflettendo il sole. Uomini e donne benestanti attraversano il marciapiede in cappotti e cappelli pregiati, con cani di razza al seguito.
Dietro di loro, ci sono irresistibili ville storiche – stucchi classici con grandi ingressi, nicchie e pavimenti di parquet brillanti, torrette maestose e giardini panoramici.
Benvenuti nell’idilliaca Potsdam, l’opulenta ex residenza dei re di Prussia. Al confine sud-occidentale di Berlino, Potsdam è la capitale dello stato orientale del Brandeburgo ed una città molto calda nel surriscaldato boom immobiliare della Germania.
Da un maestoso maniero in riva al lago sulla pittoresca Heiliger See, Anja Farke gestisce l’agenzia di Potsdam del mediatore immobiliare Engel & Völkers. Proprio lungo la strada, la signora Farke sta facendo vedere un’altra spaziosa villa, in una bella tonalità di rosa. La venderà per non meno di 3 milioni di euro, o 3,3 milioni di dollari, assicura.
La signora Farke è abituata a lavorare con successo con i milionari. E’ elegante e cortese, informalmente chic, consapevole di sé ma riservata.
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