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Smart Working
Sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro
di Carla Filosa
In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore… cioè i mezzi di produzione… e i mezzi d sussistenza,… benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato. Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito.
Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale dellagiornata lavorativa. Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.
Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale.
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Il Governatore Visco alle imprese: avete i soldi, cacciateli!
di Pasquale Cicalese
Ottimista, meno cupo dello scorso anno, anche se afferma che il 2013 è stato un altro anno duro. Keynesiano, non monetarista, fautore delle riforme strutturali (anche se non cita quelle del lavoro, ma della P.A.), ma non deflazionista. Invita ad una politica europea e nazionale espansiva, basata sugli investimenti nelle infrastrutture, di cui il nostro Paese risente della scarsità e che incide sulla produttività dei fattori produttivi, sulla ricerca e sull’istruzione. Ma in due passaggi sottolinea anche che è l’ora di implementare politiche di sostegno al reddito a lavoratori e famiglie, è la prima volta che da Banca d’Italia escono queste frasi. Sarà la crisi, sarà che vi è una disoccupazione spaventosa, sarà che abbiamo perso il 15% della capacità produttiva. Ma non è pessimista il napoletano: stanno affluendo molti capitali esteri, gli ordinativi nel settore manifatturiero sono buoni, l’export è ritornato ai livelli pre-crisi. Resta il crollo della domanda interna, da qui la sua svolta keynesiana, del resto lo stesso Draghi due mesi fa invitava gli europei a non fare la gara a chi più deflazionava i salari, ma a basare la strategia sugli investimenti.
Evidentemente Palazzo Koch avrà sussurrato qualcosa a Francoforte nell’ultimo anno. Già, ma dove trova il governo i soldini per sostegni al reddito e per investimenti? Da corruzione, criminalità ed evasione fiscale, il sistema trasversale fattosi governo negli ultimi vent’anni. Tradotto: rastrellamento di fondi dal capitale commerciale a favore del capitale industriale… E poi fondi europei, magari centralizzati, visto che il napoletano è per la semplificazione amministrativa che, tradotto, significa una cosa: il federalismo è stato una totale idiozia.
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Intervista a Bashar al Assad
Due quotidiani italiani pubblicano in evidenza ampi stralici dell'intervista concessa dal Presidente siriano alla stampa internazionale. Con la sconfitta del jihadismo internazionale finisce la censura della stampa mainstream verso la Siria di Assad? [Da notare comunque la plateale manipolazione di Feltri nel titolo, mentre nel corpo dell'intervista Hassad non ha mai parlato di diritti umani...] Di seguito gli articoli del Fatto e dell'Avvenire.
* * * *
Bashar Al Assad: “Jihadisti colpa dell’Europa. I diritti umani? Un lusso”
di Stefano Feltri
Il presidente della Siria - “La crisi dei rifugiati effetto degli errori dell’Occidente Dobbiamo cacciare nemici e ribelli, poi si potrà parlare di politica e del resto”
La Siria è così piena di ritratti di Bashar Al Assad – in strada, sui muri, in albergo – che a tutti sembra già di conoscerlo. Eppure l’uomo che ti stringe la mano nel palazzo presidenziale costruito dal padre Hafez, a parte la cravatta rigorosamente di Hermès, ha poco in comune con il leader dallo sguardo indomito dell’iconografia di regime. Si è anche tagliato i baffi, forse per sembrare più occidentale. Dall’alto del suo metro e novanta, fissa con occhi azzurri spalancati i giornalisti che ha voluto incontrare nel tentativo di spiegare all’opinione pubblica internazionale la sua versione sulla catastrofe siriana. Raggiungere Assad non è semplice, è stato possibile solo accompagnando una delegazione di Europarlamentari che, a titolo personale, cerca di riattivare un’azione diplomatica europea sullo scenario siriano, per superare l’attuale isolamento (tra i promotori due italiani, Fabio Massimo Castaldo del Movimento 5 Stelle e Stefano Maullu di Forza Italia).
Mentre parla, Assad intreccia le lunghe dita – solo le mani rivelano i suoi 52 anni – la sua voce è così sottile che bisogna protendersi verso di lui per non perdere le parole, quasi coperte dai clic delle macchine fotografiche del regime, le uniche autorizzate a riprendere il presidente.
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«Il golpe della Troika contro il governo Tsipras»
Intervista a Christian Marazzi
L’economista Christian Marazzi: «La Troika in Grecia come i militari in Cile con Allende. L’aggressione è un avvertimento a Podemos in Spagna. Oggi bisogna andare allo scontro, a piedi scalzi e con le armi della verità. Dobbiamo istituire la democrazia reale in Europa». «La vittoria del No al referendum è importante, ma l’esito della crisi non è scontato. La Grecia è sola»
Per Christian Marazzi, economista e autore de Il diario di una crisi infinita (Ombre Corte), «il referendum indetto da Tsipras domenica in Grecia è una mossa eroica. Non vedo un tentativo di addossare la responsabilità di una scelta sulle spalle del popolo greco di fronte ad una impasse evidente della trattativa. Ci vedo invece un atto di grande onestà e verità».
Molti sostengono invece che quello di Tsipras sia un atto di disperazione.
Niente affatto. La sua è una resa dei conti con le politiche neoliberiste che in Grecia si sono rivelate per quello che sono sempre state: un attacco sistematico alla democrazia, un totale disprezzo delle classi lavoratrici, il perseguimento criminale di politiche di arricchimento dei più ricchi. Oggi bisogna andare allo scontro, non c’è altra soluzione. Questa battaglia va fatta a piedi scalzi, con le armi della verità, contro la strategia della menzogna della Troika e dei mass-media che mistificano i dati economici e sociali e servono gli interessi dei poteri forti.
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Il terremoto elettorale del 25 maggio
di Alfonso Gianni*
Questa volta, ed è già un elemento di sensibile novità, una valutazione sugli esiti del voto richiederebbe tempi e percorsi più meditati. Non è un caso che tutti i sondaggi abbiano fallito e di molto le previsioni, particolarmente in Italia, ma non solo. Un segnale del fatto che i tradizionali sensori fin qui usati non sono stati in grado di cogliere i sommovimenti in atto. Né si può francamente credere che tutti i cambiamenti siano maturati solo negli ultimi giorni, con il cosiddetto voto last minute.
Le ragioni di questa complessità sono diverse. Anzitutto si tratta di valutare il significato del voto sul terreno europeo. Tanto più che per la prima volta da quando si vota per nominare il parlamento di Strasburgo, cioè dal 1979 in poi, non si è avuto un calo dei partecipanti, attestatisi sul 43%, media che differisce di un solo decimale rispetto a cinque anni fa. L’altra ragione deriva dal risultato eccezionale verificatosi nel caso italiano, dove il calo dei votanti è stato invece marcato, il 7.7% in meno rispetto al 2009, che solo un’analisi puntuale dei flussi elettorali può permettere di esaminare in profondità. Infine in Italia si è votato anche per il rinnovo di importanti consigli regionali e comunali, sulla base di una offerta politica che non corrispondeva in tutto e per tutto a quella presente nelle elezioni europee.
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Grilli parlanti, spettri e burattini animati…
Una vicenda italiana
di EffeEmme
Le recenti elezioni italiane, precarie nei loro risultati, confuse nella loro determinazione, possono essere ricordate come quelle del “grillo parlante” e del “Pinocchio” tricolore. I due simpatici personaggi sono i protagonisti della arci-nota fiaba di Collodi. Il Grillo parlante, che nelle avventure di Collodi rappresenta la “voce della coscienza”, il daimon hillmaniano in grado di indicare le retta via al burattino immaturo, perennemente nei guai. E Pinocchio, il burattino animato; fondamentalmente buono, grossolano e facilone, un po’ bugiardo ma non cattivo; crede che il mondo sia semplice, immediato, reale; è, come tanti ragazzini, affetto da una ben nota patologia che spesso coarta gli spiriti giovani: l’immaturità. Per questo, nella fiaba, Collodi gli pone accanto un 'daimon', il 'demone' che ciascuno di noi riceve come compagno prima della nascita e che, secondo Hillmann, è il battistrada per un’esistenza etica. Pinocchio è, per certi versi, il picaro alla ricerca della verità, dell’Uno, dell’Assoluto, di ciò che solo lo può riconciliare con la pienezza dell’esistenza, per questo quella di Collodi può ben essere identificata come una parabola di formazione, una storia entro cui si dipanano le vicende esistenziali che conducono verso una maturità in cui tutti ci possiamo rispecchiare. Pinocchio, al pari del popolo italiano (connotazione vaga, lo so), corre e si ficca nei guai andando inconsapevolmente dietro ad una fantasia inconscia, quella di una verità ultima che lo riconcili con il suo passato di burattino. Lacan, nel Seminario VII, ha chiarito come la nostra esperienza nel mondo, la rappresentazione che ce ne facciamo (Vorstellung), altro non è che la ri-presentazione sempre mancante della Cosa (Das Ding).
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La speranza contro la paura
Riflessioni su un libro di Pietro Barcellona
di Bruno Amoroso*
Pietro Barcellona è uno dei pochi pensatori del Novecento che non ha superato lo shock prodotto dalla crisi del comunismo e, quindi, del sogno dell`alternativa al capitalismo e ai sistemi esistenti in Occidente, estraniandosi da questi, prendendone le distanze, rinunciando a una autocritica di se e del nostro passato. Al contrario, nella consapevolezza che ogni movimento verso il futuro non può che ripartire da una rilettura del presente e delle cause profonde, storiche e culturali, che quel fallimento hanno causato, si è fatto carico del compito di ricostruire l`intero ciclo evolutivo e involutivo che ha portato un progetto di emancipazione al suo fallimento. Quindi non una fuga in avanti, verso la modernità e il progresso infinito, cercando di confondersi come hanno fatto in tanti tra le folle inneggianti alla ”fine della storia”, alla ”democrazia” e al ”progresso”, e neanche con la lettura consolatoria dell`”avevamo detto”, come se il fallimento fosse dovuto a problemi di scelte politiche o di errori di pianificazione e di modelli di mercato, come sono soliti fare gli economisti.
Un cammino che non lo vede giudice estraneo e al disopra delle parti, ma parte del problema, e che pertanto non sceglie la comoda narrazione in terza persona, di distanza dalle persone e dai fatti, ma si interroga partendo da sè, dai propri interessi e dalle proprie aspirazioni, dalle forme e contenuti del proprio linguaggio, per svelarne i legami profondi con la realtà e le esperienze che si propone di illustrare. La riflessione di Barcellona è una lettura attenta, sofferta, dei fenomeni che hanno reso tutto questo possibile rinunciando sia al determinismo economicistico del mercato, sia all`idea seducente ma falsa dell`”uomo macchina” applicata al funzionamento della mente, alle sue aspirazioni e sofferenze, come oggetto di trattannti semiautomatici a dinamiche sociali o meccanismi di causa effetto. L`orizzonte dentro il quale si muove la sua riflessione non è quello degli equilibri parziali, del soddisfacimento di questo o quel bisogno, del raggiungomento di questo o quell`obiettivo specifico che nella letteratura corrente svolgono il ruolo sia di distrarre dalla gravità e complessità dei problemi e delle domande che ci si pone, sia di sviarne l`impegno e l`attenzione verso presunte soluzioni di nicchia e consolatorie. Si tratta invece di superare la frammentazione esistente tra l`io e il noi, tra i bisogni e le aspirazioni, frutto della segmentazione dei saperi.
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2012, fuga dall'Italia
di Rodolfo Ricci
I
Nel silenzio complice della maggioranza dei media italiani, sta ripartendo, anzi è già ripartito, un grande flusso di emigrazione dall’Italia. Per la verità esso non si era mai fermato, anche se poteva essere interpretato, fino al 2008, come normale mobilità soprattutto giovanile, che si registrava anche in altri paesi avanzati. Dal 2010 ad oggi, il flusso di espatri è ricominciato con quantità molto significative, di cui è possibile conoscere solo per approssimazione l’entità, visto che la gran parte dei nuovi emigrati, non si iscrive o lo fa con ritardo di diversi anni, all’AIRE, l’Anagrafe dei residenti all’estero.
Ma alcuni dati ed alcune proiezioni lasciano intravvedere che stiamo entrando a grande velocità in una nuova fase della lunga storia dell’ emigrazione italiana nel mondo, incentivata dalle politiche di “riaggiustamento strutturale” estremamente recessive portate avanti dagli ultimi governi e intensificatesi con il Governo Monti.
Era stato lo stesso Monti, d’altra parte, a sottolineare la necessità di una “nuova mobilità internazionale” della forza lavoro italiana, fin dal suo discorso d’insediamento. Un moderno “studiate una lingua e partite” a distanza di 60 anni dal famoso discorso di De Gasperi.
Non che Mario Monti sia un demone, ma nel suo limitato ricettario economico, sa bene che all’interno del quadro della recessione neoliberista che ci imporrà un duraturo declino, l’economia italiana non sarà in grado di utilizzare e di valorizzare le sue risorse, a partire da quelle umane.
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Qualcuno era comunista
di Emanuele Bellintani
Il Pd medita di cambiare nome. Una specie di riedizione della «svolta della Bolognina» che trent'anni fa portò allo scioglimento del Pci. Ma il partito di Zingaretti non c'entra più nulla con quella storia, così come l'Emilia di Bonaccini
«Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista / Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista».
L’ultimo grido disperato di Enrico Berlinguer – simbolo di un tempo ormai passato – sostituì la lotta di classe con un moralismo di sinistra, preannunciando la fine: conosceva la corruzione del sistema politico italiano e ancora di più aveva sotto gli occhi la trasformazione del suo partito in un immenso blocco di potere. Nelle alte sfere del partito già da anni si dibatteva sull’opportunità di «andare oltre» il Pci, sempre più incalzato dall’onda lunga del Psi di Bettino Craxi. In questo quadro, l’eurocomunismo, la «diversità» italiana e l’allontanamento dai Paesi dell’est erano tutte formule retoriche per conservare capre, cavoli e consenso.
Al primo colpo di piccone sul Muro di Berlino, l’Unità diretta da Massimo D’Alema era già pronta a titolare in favore della libertà e del «giorno più bello per l’Europa». Il 12 novembre il segretario del Pci Achille Occhetto, durante la commemorazione per l’eroica battaglia partigiana di Porta Lame, dichiarò di «non voler continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso»; tra le righe si leggevano nitidamente il cambio del nome, di simbolo, di teoria politica, l’avvicinamento al Psi di Craxi. Nove milioni e seicentomila elettori, e un milione e quattrocentomila iscritti al partito vennero traumatizzati dall’annuncio del «Papa rosso» che dichiarava finita la religione in cui avevano creduto per decenni e rivelava la riorganizzazione della «chiesa».
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Tecnologia e imperialismo
Crisi economica, produzione intellettuale, sfruttamento e conflittualità tra capitali
di Francesco Schettino*
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
1. Introduzione
Il dominio della casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di “schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile, realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto). L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e quindi del singolo agente del capitale.
La contraddittorietà tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi.
In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto espropriato dall’attività dell’operaio complessivo necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile.
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Per una prima analisi del voto, e prospettiva del Partito Comunista
di Ufficio Politico Partito Comunista
L’esito delle elezioni europee in Italia ha segnato un generale avanzamento delle forze di destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia). I Cinque Stelle escono fortemente ridimensionati perdendo sia nei confronti del loro alleato di governo, che cannibalizza i consensi della coalizione, sia dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra.
I consensi ottenuti da Lega e Fdi ricalcano comunque l’area di voti per anni tenuta dal centrodestra e dal Pdl ai tempi di Berlusconi. La radicalizzazione a destra di quest’area è frutto della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, frutto delle precise responsabilità del gruppo dirigente renziano e della funzione del Movimento Cinque Stelle che ha traghettato una parte dei suoi voti verso la Lega.
La Lega si è accreditata negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame identitario, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzate dal mercato unico europeo. Ha cavalcato il tema della sicurezza per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi utile a colpire i lavoratori e le classi popolari.
Il Movimento Cinque Stelle paga il tradimento degli elementi più radicali della sua proposta che sono caduti ad uno ad uno di fronte alla contraddizione del governo nel sistema di compatibilità capitalistiche e con l’alleanza con la Lega.
La riarticolazione del peso delle forze di Governo spinge a ritenere probabile la futura caduta di questo esecutivo, prossimo a dover affrontare la finanziaria con clausole e politiche lacrime e sangue che i vertici europei e i settori del grande capitale italiano non ritengono più rimandabili per soddisfare le promesse elettorali.
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De rerum natura (europea)
di Carlo Bertani
E’ un qualsiasi giorno di Primavera di un anno molto lontano – fra il 1978 ed il 1981 – quando attraverso il parcheggio, a Savona, per salire sulla mia auto: il vento è ancora fresco ma già s’avverte, inarrestabile, la bella stagione in arrivo.
La giornata è così luminosa che obbliga a strizzare gli occhi per non farsi abbagliare – chissà dove sono finiti gli occhiali da sole… – e quasi non li vedo arrivare. Sono oramai di fronte e non me ne sono accorto: concludo che mi sono comportato proprio da pessimo samurai.
Sono un ragazzo ed una ragazza sulla ventina o poco più, con un mazzo di fogli in mano. Senza chiedermi chi sono, nemmeno come mi chiamo né presentarsi mi spiattellano la richiesta: «Vuole mettere una firma per l’Unione Europea?»
Li osservo meglio; sono vestiti in modo sobrio ma con capi eleganti: lui ha i capelli corti e la faccina da bravo ragazzo, mentre lei ha i capelli biondi, sciolti, che il vento un po’ scompiglia. Entrambi hanno un’aria “acqua e sapone” o, se preferite, un po’ naif.
Mi chiedo da dove siano saltati fuori, perché vadano in giro a chiedere firme per una cosa di là da venire – all’epoca, esisteva solo la CEE, la Comunità Economica Europea – insomma, tutto ha un che di strano…
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I mass media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto
di Paolo Ercolani
Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica. (H. Marcuse1)
Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perderela capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica 2. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi 3.Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia» 4. All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimentofilosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita» 5.
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Prove di guerra: buona la prima?
Aggiornato alle 22.30 del 24.11
Federico Dezzani
Aggiornamento ore 22.30
“Turkey, like every country, has the right to defend its territory and its airspace” dice il sempre evanescente Barack Obama, sottolineando che non ha dettagli aggiuntivi da fornire circa l’abbattimento del SU-24 russo. Anche il segretario della NATO, il norvegese Jens Stoltenberg, ammette candidamente che tutte le informazioni di cui dispone l’Alleanza nord atlantica sono di provenienza turca ed il portavoce americano dell’operazione Inherent Resolve, colonnello Steve Warren, sposa senza esitazioni la tesi turca “dell’incursione russa”: l’intera apparato militare occidentale, incredibilmente, sembra dipendere da Ankara.
Sorge quindi il dubbio: la Turchia ha agito sicura della protezione della NATO e magari su istigazione della medesima?
Secondo i russi, il bombardiere Su-24 al momento dell’abbattimento per mano di un F-16 turco volava in territorio siriano, ad un chilometro dal confine e la dinamica è più che plausibile considerato che già nel marzo del 2014 Ankara si era arrogata il diritto di abbattere un MiG di Damasco senza che questo sconfinasse. Il caccia turco non avrebbe inoltre proceduto con la consueta prassi di instaurare un contatto visivo e/o radio con il velivolo “intruso”, scortandolo fuori dallo spazio aereo di competenza anziché abbatterlo.
Cosa ha indotto il presidente Recep Erdogan ad avventurarsi su un terreno così insidioso? Tre sono probabilmente le ragioni:
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Sharing Economy: come il capitale assorbe la sua critica
di Alessandro Zabban
“Scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo […], scegliete la vita”.
Tutti questi pressanti imperativi sociali, efficacemente descritti nella scena iniziale di Trainspotting e a cui il protagonista Mark Renton cerca disperatamente di fuggire, sulle note di Lust for Life di Iggy Pop, in nome di una vita più autentica e più libera, sono già il passato. Il sistema non ti chiede più di rispettare un orizzonte normativo ristretto e monotono; al contrario: la società e le forme economiche che la sorreggono gridano in coro la tua libertà rispetto alle istituzioni tradizionali, la tua autonomia e autenticità rispetto all’automatismo fordista, la tua originalità rispetto al livellamento massimalista prodotto dal welfare state, la tua flessibilità rispetto alla ripetitività del posto fisso.
La nuova economia parla il linguaggio anglofono della flexibility, della competitiveness, e più recente della sharing economy. La nuova narrazione liberista inventa un sistema ideologico complesso e raffinato che relega le vecchie forme del lavoro, stabili e protette, nel reame della noia e alle quali contrappone le eccitanti innovazioni “smart” del capitalismo globalizzato. Peccato che proprio dietro queste presunte nuove frontiere delle liberazione si nascondano condizioni lavorative decisamente deteriorate e la revoca dei più basilari dei diritti in un contesto di proliferazione dello sfruttamento e di crescita delle disuguaglianze.
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La democrazia occidentale è un segreto militare
di Comidad
Come era prevedibile, e come era stato in effetti previsto da alcuni ambientalisti, una volta passate le elezioni è cominciata nel Partito Democratico la “revisione” della posizione contraria al ritorno del nucleare in Italia. L’occasione per “rivedere” è consistita in una lettera che la stampa ha presentato come “firmata da un gruppo di “scienziati e tecnici”, anche se il gruppo è infoltito soprattutto da imprenditori e manager. Il primo dei firmatari è l’oncologo Umberto Veronesi, la cui nota sensibilità umanitaria si esprime soprattutto nell’ambito di quel fenomeno, tipicamente ed esclusivamente umano, che sono gli affari. Veronesi dovrebbe essere infatti il capo dell’agenzia per la sicurezza nucleare, quindi la sua posizione filo-nucleare non è apparsa del tutto immune da interesse personale. Fra i firmatari non poteva mancare il professor Pietro Ichino, addetto ufficiale alla criminalizzazione del lavoro nell’ambito della campagna per la privatizzazione del Pubblico Impiego; una presenza che basterebbe da sola a garantire che questa sortita filo-nucleare è dettata da un autentico umanesimo degli affari.
Fra gli ambientalisti ha suscitato irritazione il fatto che la lettera filo-nucleare che pretendeva di aprire un dibattito, si sia poi limitata alle solite accuse ed ai soliti luoghi comuni, e non abbia minimamente preso in considerazione i due argomenti principali della posizione contraria al ritorno al nucleare, e cioè l’insostenibilità degli altissimi costi delle centrali ed il problema irrisolto dello smaltimento delle scorie radioattive.
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Decreto interpretativo, che tipo di pistola è puntato alla tempia dell'opposizione?
nique la police
Link: Breve analisi tecnica del decreto
A giudicare dalle reazioni del complesso del PD non possiamo non registrare che le proteste, sulla questione del decreto elettorale, da parte degli esponenti del partito democratico si sono fatte più dure del solito e meno improntate a criteri di timorosa diplomazia. Non è da sottovalutare infatti, visto anche il peso raggiunto nei partiti moderni dalle rappresentanze parlamentari, la dichiarazione congiunta dei capigruppo delle due camere che recita "è nostra opinione che il decreto legge ieri approvato dal governo in materia elettorale rappresenti un gravissimo precedente nella storia repubblicana". L'impegno dei rappresentanti dei parlamentari PD è quantomai chiaro: "è' evidente che questo atto avrà immediate conseguenze sul nostro atteggiamento parlamentare". E chi conosce l'importanza dell'atteggiamento dell'opposizione per lo svolgersi delle procedure parlamentari (che non solo è un mondo politico a parte, quello della reale concretezza del potere, che è persino regolato da una scienza autonoma della politica) sa che quest'impegno è destinato a non rimanere senza conseguenze per la capacità di legiferare del centrodestra ad esempio in materia di leggi discrezionali favorevoli al premier.
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Contro il governo Draghi!
di Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
Nello spirito di collaborazione che si è instaurato con "Cumpanis”, “L’AntiDiplomatico” pubblica come anticipazione il nuovo editoriale della rivista
Venerdì 12 febbraio. Mario Draghi sale al Quirinale, scioglie la riserva e presenta la lista dei ministri. Nasce il suo governo. Solitamente, “il suo governo”, è una locuzione tendente - nella dialettica fra presidente del consiglio e ministri - a chiarire chi è il capo di un esecutivo. In questo caso, invece, “il suo governo” è un’espressione totalmente affermativa, nel senso che l’intero governo è sotto il potere di Draghi ed egli non ne è il presidente ma il “dictator”. Quali forze hanno determinato quest’esito nefasto per la democrazia italiana e, per essere meno elusivi, per il movimento operaio complessivo italiano, per “la classe”? Attraverso quali passaggi si è giunti a sottomettere il governo, il parlamento, l’intera politica, l’intero Paese al comando di Draghi? Le forze che hanno spento la luce della democrazia italiana non sono rintracciabili nel vacuo vaudeville della nostra politica: esse sono oltreconfine e oltreoceano e si svelano lungo l’asse euroatlantico Usa-Ue, Biden e Merkel-Macron. E’ decisivo collocare immediatamente e prioritariamente sia la caduta del governo Conte che la costituzione del governo Draghi nel contesto internazionale, poiché questa lettura dei fatti è - non casualmente - quella più rimossa e negata, sia dall’intero arco delle forze politiche parlamentari che dall’intero sistema mediatico. Come, infatti, tutti i cicisbei, i cavalier serventi degli USA, della NATO e dell’Ue che sostengono il governo Draghi, possono arrivare a disvelare la semplice verità, e cioè che sono state proprio queste potenze mondiali ad intervenire sul quadro politico italiano al fine di far cadere i due governi Conte, che, pur mantenendo una natura essenzialmente filo-imperialista, spostavano troppo, e “insopportabilmente” per gli USA, il loro asse commerciale verso la Russia e la Cina? E, conseguentemente, portare l’uomo di cui più hanno fiducia, Draghi, a guidare l’Italia e il nuovo Parlamento di spauriti vassalli che lo ha incoronato?
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Glosse in margine all’epidemia come politica
di Flavio Luzi
Penosamente amare quel che non si ama,
da quando il fumo uccide,
ecco, ubbidire.
Patrizia Cavalli
1. Nemo propheta acceptus est in patria sua
“A me sembra che il vero compito politico, in una società come la nostra, sia quello di criticare il funzionamento delle istituzioni, soprattutto di quelle che appaiono come neutrali e indipendenti, e di attaccarle in maniera tale che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse sia finalmente smascherata, così da poter essere combattuta”. Con queste parole, in un dibattito televisivo tenutosi a Eindhoven nel 1971, un ridente Michel Foucault ribatteva alle posizioni espresse in quell’occasione dal suo avversario, Noam Chomsky. Il filosofo francese si riferiva a tutte quelle istituzioni – come l’Università, l’Istruzione, la Psichiatria e la Giustizia – che diversamente dall’Esercito, dalla Polizia e dal Carcere, si presentano in maniera apparentemente neutrale, affrancata dall’evidente circolazione (sottomissione ed esercizio) del potere politico. Dietro le funzioni di distribuzione del sapere, della promozione della libera ricerca, della cura dei disturbi mentali, dell’amministrazione del diritto, queste istituzioni – o, se si preferisce, questi dispositivi epistemico-sociali – occultano la violenza politica che continuamente esercitano sui corpi degli individui, disciplinandoli e soggettivizzandoli come studenti, come anormali, come colpevoli. In tal senso, dal punto di vista foucaultiano, non vi è ragione alcuna di ritenere che l’istituzione sanitaria e, più in generale, il sapere medico siano esenti da questo tipo di mistificazione, dimostrandosi sinceramente neutrali, estranei a qualsivoglia ideologia, potere o violenza politica.
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Immigrati, mercato del lavoro e ricomposizione di classe
di Domenico Moro
Negli ultimi anni l’immigrazione è stata utilizzata dai partiti di destra che hanno fatto della xenofobia il cavallo di battaglia della loro propaganda elettorale. Ciò non è avvenuto solo in Italia, sebbene Salvini e la Lega abbiano conquistato una notevole visibilità a livello nazionale ed europeo. I risultati elettorali dell’uso della xenofobia da parte della destra sono sotto i nostri occhi in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, Paese dove si sono recentemente verificati anche fatti di violenza contro politici favorevoli all’immigrazione, come nel caso dell’assassinio di Walter Lübcke.
Quello dell’immigrazione, essendo un tema “caldo” dal punto di vista politico, è stato spesso approcciato in termini poco oggettivi. Si è fatto poco ricorso ai numeri e all’analisi economica per analizzare il fenomeno o lo si è fatto in modo strumentale per sostenere questa o quell’altra posizione. La sinistra liberale ha affrontato l’immigrazione in modo contraddittorio e alterno. Il Pd, ad esempio, si è mosso o in contrapposizione alla destra in termini “umanitari”, limitando, però, tale umanitarismo alla garanzia dell’ingresso in Italia senza estenderlo coerentemente alle dure condizioni di accoglienza e di impiego della forza lavoro straniera, oppure si è di fatto impegnato su di un programma di respingimenti, come ha fatto con Minniti.
Quanto si muove a sinistra del Pd sembra in alcuni casi limitarsi a un approccio no borders, senza curarsi di come affrontare le ricadute dei flussi migratori a livello popolare. L’arrivo di flussi di decine di migliaia di persone dall’estero bisognose di alloggio, di assistenza sanitaria e soprattutto di lavoro pone dei problemi importanti, specie in un periodo di crisi, di calo del tasso di occupazione e di contrazione degli investimenti pubblici e del welfare imposta dalla Ue. In un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi della facilità con cui è stata alimentata, in modo certamente interessato, la guerra fra poveri.
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Il razzismo, malattia permanente del capitalismo
di Ascanio Bernardeschi
Il capitalismo usa il razzismo per perpetuarsi e per colpire la classe lavoratrice. Per combatterlo non basta l’atteggiamento umanitario ma serve la coscienza di classe che individui il vero nemico
Il razzismo, per quanto abominevole, non è, almeno nella nostra era, una malattia sociale, ma è un carattere fisiologico delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, in quanto costituisce una potente leva per fare profitti e per dividere le classi lavoratrici. Per questo, quando se ne presenta l’opportunità, viene scientemente iniettato in dosi massicce nel corpo della società.
Il compianto Domenico Losurdo [1], ha già ampiamente documentato come, fin dagli albori del capitalismo, l’ideologia liberale abbia elaborato una sorta di la de-umanizzazione delle razze indigene come pretesto e giustificazione delle colonizzazioni delle loro terre e dell’intensivo sfruttamento del loro lavoro. Tra i tantissimi intellettuali da lui citati, c’è l’economista apologetico borghese John Stuart Mill, il quale, mentre elogiava la libertà occidentale, sosteneva che “il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari»¡”. Lo stesso Tocqueville, considerato un campione della democrazia, predicava la supremazia occidentale e il rischio di una “misce generation”, cioè la mescolanza di diversi gruppi razziali, per cui si rendeva necessario tenere ben distinta la razza superiore bianca da quelle inferiori, considerate alla stregua di animali parlanti. Lo stesso nazismo e il manifesto della razza fascista trovano i loro precedenti in questa tradizione liberale: un razzismo che non si limitava a de-umanizzare i neri e gli ebrei, ma anche i popoli slavi, così come oggi avviene nei confronti di altri popoli che ci interessa colpire.
Anche la deportazione e la messa in schiavitù dei neri africani per farli lavorare fino allo stremo e senza alcun diritto nelle piantagioni americane necessitava del razzismo quale sovrastruttura ideologica ideale.
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La democrazia in crisi: una retorica pericolosa
di Luca Nivarra
1. Si parla molto di “democrazia” (per lo più in relazione alla sua “crisi”), senza che, però, gli innumerevoli partecipanti a questo dibattito globale riescano a proporre un uso univoco e costante della parola. Certo, “democrazia” è un termine “grasso”, grasso come la prosa degli scrittori che non piacevano a Tomasi di Lampedusa, e questo di per sé agevola, o perfino, rende inevitabile, una certa ambiguità. Oggi, però, il fenomeno si presenta aggravato dalla circostanza che, in linea di massima, dovremmo avere un’idea di ciò che nominiamo quando parliamo di “democrazia”, dal momento che, qui, nel mitico “Occidente”, veniamo da una storia che, sia pure con vicende alterne, si protrae da più di un secolo all’insegna, appunto, della democrazia.
L’obiettivo del mio articolo non è certo quello di avanzare una nuova definizione di “democrazia”, e neppure quello di selezionare tutti i modi in cui oggi la parola viene usata (imprese entrambe impossibili o, comunque, al di fuori delle mie capacità): molto più semplicemente, vorrei andare a vedere cosa si nasconde dietro una (presunta) crisi che, ancora prima della cosa, è del nome, di cui si fa un uso che, semplificando al massimo, rimanda ad uno spazio concettuale vuoto (o, almeno, molto povero) una volta per eccesso di regole e difetto di contenuti, una volta per difetto di regole ed eccesso di contenuti.
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Anamorfosi dello Stato. La gestione dell’ordine in Europa
Salvatore Palidda
Le pratiche adottate dalla polizia francese negli ultimi mesi, e in particolare fra la fine d’aprile e il 18 maggio, hanno scioccato la maggioranza dei manifestanti pacifici e provocato danni e ferite a molti di loro. Il 17 maggio la polizia ha inscenato manifestazioni di protesta contro le violenze anti-flics e il 18 i servizi d’ordine dei sindacati hanno picchiato duramente alcuni cosiddetti casseurs. Le testimonianze e i dibattiti su questi fatti sono numerosi (si vedano i reportage di Médiapart, qualche tv e anche di «Le Monde» e «Libération»)1 . Manca però una riflessione più approfondita e anche una prospettiva comparativa con fatti simili riscontrati, su un periodo più lungo, in altri paesi sedicenti democratici2 .
I fatti
Indurimento, deriva e deregolamentazione incontrollati, involuzione violenta: definizioni come queste, adottate da diversi commentatori delle recenti pratiche poliziesche, indicano che si sarebbe di fronte a un cambiamento inatteso. Tali fatti sono avvenuti nella congiuntura della scelta del governo d’imporre la legge El Khomri di riforma delle norme che regolano i rapporti di lavoro (una sorta di job act), manifestamente ispirata alla logica liberista. I capi dello Stato e del Governo, François Hollande e Manuel Valls, hanno affermato con fermezza di voler escludere qualsiasi negoziazione con i parlamentari «dissidenti» e con sindacati e scioperanti.
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La crescita secondo i padroni dell'Europa
di Riccardo Achilli
Introduzione
Sarebbe ingenuo non dire che, dalla vittoria elettorale di Hollande, e dalla dura sconfitta della Merkel in un land strategico per l’economia tedesca come il Nord Reno-Vestfalia, l’asse strategico degli euro-funzionari del Capitale finanziario posti alla guida dei diversi Stati europei non sia cambiato, sia pur di una misura appena percettibile.
Nel suo recente outlook (16 maggio) su una delle più disastrate economie dell’area euro, ovvero l’Italia, il FMI cambia un pochino il registro, rispetto alla consueta litania basata sui principi del Washington Consensus (lotta all’inflazione, rigore di bilancio, privatizzazioni, riforme del mercato del lavoro e dei servizi, taglio della spesa per ridurre la pressione fiscale, ecc.). Intendiamoci: il registro cambia di pochissimo, intanto perché il FMI esalta il macello sociale compiuto dal Governo Monti, sparando una previsione di incremento di 6 punti del PIL legata ai presunti effetti della riforma Fornero e del pacchetto liberalizzazioni. Ovviamente è troppo chiedere la metodologia con cui il FMI ha ideato questa fantastica crescita previsionale, ma basta ricordare agli analisti del FMI che:
a) non esiste alcuna correlazione fra grado di flessibilità del mercato del lavoro e crescita. L’indice di correlazione del Perason fra l’indice di rigidità della protezione dei lavoratori con riferimento al costo ed alla facilità di effettuare licenziamenti collettivi (fonte Ocse) ed il tasso di disoccupazione, per i Paesi Ocse nel periodo 2008/2009, è pari a zero, mostrando come la flessibilità in uscita non generi alcun effetto di miglioramento sul tasso di disoccupazione, essendo le due variabili incorrelate (http://ilmarxismolibertario.wordpress.com/2012/02/25/la-flessibilita-del-lavoro-miti-e-realta-di-riccardo-achilli/).
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Disordine capitalistico e popolo minore. Note sull’amnesia mediatica
di Andrea Inglese
“Il 15 settembre 2008, data del tracollo di Lehman Brothers, sta al fondamentalismo di mercato (ovvero il concetto che i mercati, da soli e liberi da ogni vincolo, possano garantire la crescita e la prosperità economica) come l’abbattimento del muro di Berlino sta alla caduta del comunismo.” Lo scrive un premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo lavoro, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera (Einaudi, 2010). Se in quest’affermazione c’è qualcosa di vero, e se noi, come si è spesso detto, siamo una società aperta, allora è divenuto necessario affrontare una discussione collettiva e spregiudicata sulla natura del capitalismo e sulla sua compatibilità con i principi di una società realmente democratica. D’altra parte, abbiamo visto in questi mesi un numero sempre maggiore di persone, pur sprovviste di Nobel per l’economia, testimoniare contro l’introduzione in Europa delle solite ricette neoliberiste (taglio della spesa pubblica, blocco dei salari, flessibilità del lavoro, privatizzazioni). Hanno rotto invisibilità e silenzio i lavoratori clandestini arrampicati sulle gru, gli operai che difendono i loro elementari diritti, gli studenti privati di futuro. Sennonché la risposta delle classi dirigenti a queste voci di dissenso pare bizzarramente riprodurre gli stessi principi di quella dottrina che ha subito nel settembre 2008 una plateale confutazione. La pretesa dei cittadini comuni di partecipare alle decisioni d’interesse generale è ingenua e controproducente, in quanto le questioni ultime, che sono tutte di natura economica, sono per ciò stesso destinate a una gestione oligarchica, di minoranze specializzate.
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Il ‘vincolo esterno’ e l’adesione dell’Italia all’Unione Economica e Monetaria
di Sandro Arcais
In questi giorni di offensiva per ottenere la richiesta del MES da parte dell’Italia e di trattative in cui le nazioni della disUnione europea si confrontano su come affrontare la crisi economica conseguente al covid-19 potenziato da più di 10 anni di austerità, è bene tenere a mente la posizione strutturalmente debole dell’Italia. Tale debolezza nasce dalla scelta di parte della classe politica e praticamente della totalità del capitalismo italiano di non prendersi la responsabilità diretta di governare questo paese, ma di governarlo attraverso il ‘vincolo esterno’. Più loro diventano minoritari nel paese, più forte deve essere tale vincolo. Per loro è una questione di sopravvivenza. Ecco perché sono così pericolosi per il Paese.
L’articolo che segue presenta, commenta e integra uno studio sulla teorizzazione del ‘vincolo esterno’ e sul suo uso da parte di una ristretta tecnocrazia italiana per legare l’Italia all’Unione economica e monetaria europea, disfarsi del ceto politico della Prima Repubblica e sottomettere il ceto politico della seconda alle regole dell’Ue e dei mercati (il ‘pilota automatico’).
Se non indicato altrimenti, tutte le citazioni sono tratte dallo studio stesso.
Buona lettura
* * * *
Kenneth Dyson e Kevin Featherstone sono due studiosi inglesi. Il primo lavora presso l’Università di Cardiff. I suoi interessi si situano «nel punto di intersezione tra integrazione europea, economia politica comparata e storica e studi tedeschi». Il secondo opera attualmente presso la London School of Economics and Social Science. Il suo campo di ricerca ruota attorno «la politica comparata, la politica pubblica e l’economia politica.
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Dialogo sopra un libro, un virus ed altri “smottamenti”
Il Lato Cattivo intervista Raffaele Sciortino
I nostri quattro lettori sanno che non siamo usi a piaggerie. Ma quando – in ambito teorico o pratico – qualcosa di proficuo, valido o stimolante da altri viene fatto, e fortuna vuole che ce ne giunga notizia, non esitiamo certo a darne atto.
È già da qualche tempo che avevamo intenzione di parlare del libro di Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios, Trieste 2019). Si tratta di un contributo importante per la teoria comunista, uno dei rari provenienti dall’arido contesto italiano. Contributo importante – dicevamo – perché riesce a tenere assieme, in una visione articolata e di ampio respiro, il corso economico del modo di produzione capitalistico nel decennio inaugurato dalla crisi mondiale del 2008, con quello delle relazioni internazionali e della lotta di classe nelle sue forme di manifestazione peculiari, in un fertile tentativo di comprendere come questi diversi piani agiscano gli uni sugli altri. In ciò risiede la differenza rispetto alla gran parte della pubblicistica consacrata a questi temi ognuno per sé, non da ultimo per la capacità dell’Autore di intuire il punto di caduta verso cui si dirige il movimento reale – nel bene e nel male, ovvero nei suoi esiti possibili tanto potenzialmente sovversivi quanto eventualmente disastrosi.
La rilevanza accordata al piano delle relazioni internazionali non mancherà di far storcere il naso a qualcuno, e vale la pena spendere qualche parola al riguardo per difenderne la legittimità. In termini generali, la rinnovata intensità della contesa nell’arena geopolitica è in tutta evidenza un tratto saliente del periodo aperto dalla crisi del 2008. Tutte le questioni che la mondializzazione, nella sua fase ascendente, sembrava aver spazzato via per sempre tornano all’ordine del giorno in forme anche inedite. È in questo quadro complessivo che si inscrive il cosiddetto “ritorno della geopolitica”: guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti, tensioni crescenti all’interno dell’Unione Europea fra paesi del Sud e paesi del Nord, riconfigurazione in divenire di tutta l’area denominata MENA (Middle East North Africa)… la lista non è esaustiva, ma basta a rendere l’idea.
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La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo
di Alessandro Visalli
Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.
Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.
Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi.
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Stiglitz tra "riforme" e "le riform€": un problemino di democrazia, no?
Quarantotto
1. Fingiamo per un attimo che Stiglitz non sia parte di un establishment USA, storicamente connotato dal nuovo modo di essere "democrat" (e cioè liberal, ben radicato nella upper middle class); e fingiamo pure, per un attimo che Stiglitz non sia il terminale spendibile, - in un'€uropa sempre più squassata dal dramma della disoccupazione e della dottrina ordoliberista al potere-, di un blocco di potere che, pur annoverando tra le sue fila, per l'appunto, persone di oggettivo valore, non riesce a produrre altro che Hillary Clinton come sua punta di diamante politica e la prospettiva, sempre più concreta, di una guerra globale nucleare.
Forti (...) di questa "ipotesi" di laboratorio, andiamo dunque a esaminare senza pregiudizi (determinati dal contesto che abbiamo scartato), le interessantissime risposte date da Stiglitz a questa intervista (disponibile fortunatamente in italiano): Referendum, Stiglitz: "Se Renzi perde parte fuga dall'euro".
2. Esaminiamo la prima risposta del Nobel per l'economia, che segue ad una domanda circa la pericolosità (addirittura!) del suo ultimo libro, per aver "fornito munizioni a tutti i populismi", ripiombando l'€uropa nella sue "paure" (cioè la domanda tendeva ad affermare che senza l'euro gli europei non sarebbero capaci di mantenere rapporti civili e cooperativi nei reciproci confronti!!!):
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Modernizzare stanca
di Marino Badiale
Credo sia opportuno iniziare a discutere un atteggiamento mentale che mi sembra abbastanza diffuso nel piccolo mondo anticapitalistico del nostro paese. È un complesso di idee del quale sarebbe molto interessante ricostruire la storia, che risale probabilmente a fine Ottocento ed è legata, io penso, al modo in cui nel nostro paese è nata e si è sviluppata la moderna impresa capitalistica. Per farla breve, si tratta dell'idea che il nostro sia un paese arretrato, che il nostro capitalismo sia un capitalismo di second'ordine, inadeguato, straccione, e che, di conseguenza, il compito principale delle forze antagonistiche sia quello di modernizzare il paese e di correggere il suo capitalismo favorendone la trasformazione secondo il modello del capitalismo dei paesi “civili” e “avanzati”.
Sono convinto che la necessità di “modernizzare l'Italia” sia stata una delle principali idee-forza della sinistra nel nostro paese, e in particolare abbia rappresentato il fondamento reale del radicamento e del successo del Partito Comunista Italiano in una parte significativa dei ceti dominanti e degli intellettuali.
Sono anche convinto che questa idea-forza sia oggi una palla al piede di ogni tentativo di politica antisistemica. Gli argomenti per questa tesi li ho esposti in un saggio scritto assieme a Bontempelli (adesso contenuto in “La sfida politica della decrescita”).
In sostanza, la tesi in esso sviluppata è che oggi sviluppo, modernizzazione e progresso, almeno come sono declinati dalla totalità del mainstream informativo, sono valori interni a un capitalismo profondamente distruttivo e nella sostanza regressivo.
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