L’allucinante documento pro-Israele dell’UCEI
di Alessio Mannino
Questo articolo tratta di un documento semplicemente allucinante, ancorché prevedibile, pubblicato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Ma per una volta non è diretto solo al lettore generico, bensì innanzitutto agli appartenenti alla suddetta associazione che non si lascino accecare da una obbligata difesa d’ufficio di Israele. La domanda è: cari concittadini che fate parte dell’UCEI, siete tutti, indistintamente, concordi con quanto potete leggere nel “compendio”, come viene definito nella presentazione, denominato “Parole in conflitto” e consultabile online a questo link, di cui qui di seguito trovate un sunto certo polemico, e tuttavia legittimamente polemico, come legittimamente polemiche sono le prese di posizione dell’associazione presieduta da Noemi Di Segni? Legittime, beninteso, ma riduttive, omissive, fuorvianti e, in definitiva, offensive per l’intelligenza. E per la dignità di un popolo, quello palestinese, martoriato in misura mostruosamente sproporzionata rispetto ai 1500 israeliani morti o rapiti nell’attacco-boomerang di Hamas del 7 ottobre 2023, atto la cui doverosa condanna morale e politica non può in alcun modo giustificare una logica di pura vendetta, che rappresenta lo stadio anteriore alla civiltà del diritto non solo moderna, ma perfino antica, se pensiamo al limite posto alla ritorsione reciproca fin dai tempi della primigenia Europa, fondata su quello spirito greco che fa porre a Sofocle, a sigillo dell’Orestea, l’istituzione della giustizia da parte di Atena nel tribunale dell’Aeropago. Era il V secolo a.C. Siamo tornati indietro di 2500 anni.
Il testo dell’UCEI è uscito ai primi di luglio, e la Di Segni lo introduce come un contributo per contrastare le fake news su Israele, definite come disinformazione che mischia “realtà deformata e omissioni”, alimentando “odio anti-ebraico, anti-israeliano, la demonizzazione di Israele, la negazione della convivenza, l’elusione di quanto avviene nel quadro complesso del Medio Oriente e la legittimazione delle organizzazioni terroristiche”, cioè di Hamas.
Una sorta di dizionario, composto da 15 voci scritte da quattro firme (Massimo Lomonaco, Davide Jona Falco, Claudio Vercelli e Claudia Tedeschi) che dovrebbero far comprendere termini come “pace, accordi, viaggi, ricostruzione” non con “leggerezza”, ma nel loro “pieno significato e rilevanza”, a patto di ricordare “minuto per minuto quanto avvenuto dalle ore 6.29 del 7 ottobre 2023”. Come se tutto quel che è accaduto prima fosse stato risucchiato in quell’istante da cui, evidentemente, dover ri-datare l’intera storia dello Stato israeliano e della Palestina. La stessa tesi, insomma, del governo di Bibi Netanyahu, sul quale l’UCEI ha voluto appiattirsi.
Per ragioni di brevità, sceglieremo di considerare alcuni passi particolarmente significativi. Alla voce “sionismo”, Lomonaco scrive che il movimento nato alla fine dell’Ottocento dopo l’esplosione in Europa della violenza eintolleranza antisemita (più corretto sarebbe chiamarla antigiudaica, o anti-israelita), dai pogrom in Russia al razzismo francese sull’affare Dreyfus, è stato oggetto di “critiche”, anche “radicali”, una delle quali l’ha inserito “nell’alveo del Colonialismo europeo”. Il sionismo, invece, sarebbe “estraneo a questo presupposto” poiché privo di “una ‘madre patria’ statuale da cui partire alla conquista di nuovi territori”. Lomonaco ricorda il fondatore teorico, l’ebreo-ungherese di lingua tedesca Theodore Herzl, autore del “libro-manifesto ‘Der Juden-staat,Lo Stato ebraico’ del 1895”, in cui si sosteneva che “gli ebrei come popolo devono ritornare ‘nell’antica Terra’ da dove sono stati cacciati 1800 anni prima e dove piccoli insediamenti ebraici religiosi sono tuttavia sempre rimasti”. Secondo uno dei più eminenti archeologi israeliani, Israel Finkelstein, “gli ebrei non sono mai stati in Egitto, non hanno errato nel deserto, non hanno conquistato la Terra Promessa”, e i regni di David e Salomone “altro non erano che piccoli regni tribali” (Le tracce di Mosé. La Bibbia tra storia e mito, Carocci, 2018). La “diaspora” cominciò molto prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. a opera dei legionari di Tito. Solo a partire dall’epoca delle crociate medievali inizia la discriminazione cristiana, che vieta di praticare un certo numero di attività a cominciare dal possesso e coltivazione della terra, e gli ebrei si trovano indotti a specializzarsi in quelle, a quei tempi, non raccomandabili per i cristiani come il prestito di denaro (il che li renderà capri espiatori designati).
Il sionismo nasce come movimento occidentale, laico e nazionalista. Come ricorda Alain Gresh, direttore aggiunto di Le Monde diplomatique nel suo Israele, Palestina. Le verità su un conflitto (Einaudi, 2004), Herzl, un anno prima del suo saggio, così si esprimeva sul giornale di cui era corrispondente da Parigi, la NeueFreie Presse: “Dobbiamo espropriarli con gentilezza. Il processo di espropriazione e di trasferimento dei poveri deve essere compiuto con segretezza e al tempo stesso con prudenza”. Quando il colonialismo non aveva la connotazione negativa di oggi, sempre Herzl scriveva a Cecil Rhodes, uno dei conquistatori dell’Africa meridionale: “Il mio programma è un programma coloniale”. Il tradizionale slogan sionista è “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Ma non era vero che la Palestina era senza popolo: era abitata per la maggior parte da arabi (musulmani e cristiani).
Passiamo al capitolo intitolato “Israele (Stato)”, scritto da Claudio Vercelli (uno storico). Leggiamo: “(…) durante e dopo la proclamazione della nascita d’Israele, il 14 maggio 1948, si verificò l’esodo di una parte della popolazione araba locale”. Nei decenni successivi, secondo Vercelli, si ebbe un “susseguirsi di guerre, determinate perlopiù dall’aggressività dei paesi arabi, ha comportato alcuni mutamenti territoriali, a fronte di una situazione, che, ancora a oggi, per ciò che riguarda la definizione di confini certi e sicuri, rimane in sé aperta”. Aperta al punto tale che, avvenuta “la conquista militare, a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967, della Cisgiordania, della Striscia di Gaza, delle alture del Golan e della penisola del Sinai”, se “una parte di queste terre sono state restituite nel tempo agli Stati di cui erano parte, dopo la firma di accordi di pace, per ciò che riguarda invece i territori risieduti dalla popolazione arabo-palestinese il loro destino è in discussione”. L’esimio storiografo sorvola su troppi fatti. Con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947, le Nazioni Unite raccomandano la spartizione in due Stati per legittimare quello di Israele, che virtualmente esisteva già dalla fine degli anni Trenta (l’Agenzia ebraica, incoraggiata dagli inglesi che dal 1922 avevano ricevuto il mandato sulla Palestina). I palestinesi sono contrari: perché mai il 55% del territorio doveva andare agli ebrei? Perché 400 mila di loro dovevano diventare minoranza all’interno del nuovo Stato ebraico? Il 14 maggio 1948 Ben Gurion, contravvenendo alla risoluzione che proponeva un periodo di transizione di due anni, annuncia ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele, e l’indomani gli eserciti di numerosi Stati arabi invadono la Palestina. La guerra durerà fino al luglio 1949 e vedrà vincitrice Israele, che occuperà il 78% dei territori, tranne la Cisgiordania e Gerusalemme est (annesse dalla Giordania nel 1950) e la piccola Striscia di Gaza, autonoma sia pur sotto tutela egiziana. I palestinesi dentro i confini del nuovo Stato vengono assoggettati a regime militare (fino al 1966). Israele rifiuta qualunque concessione o accordo proposto da Giordania, Siria ed Egitto. Quanto a quello che Vercelli eufemisticamente chiama “esodo di una parte della popolazione araba locale”, si tratta della Nakba, la “catastrofe” di 7-800 mila autoctoni divenuti o profughi a causa dello scontro bellico, o forzatamente espulsi, o vittime di massacri documentati, come quello nel villaggio di Deir Yassin in cui furono trucidati un centinaio di palestinesi (su questo ha fatto un gran lavoro lo storico Benny Morris, israeliano, in vari volumi quasi tutti pubblicati anche in italiano, a cominciare da Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004). L’11 dicembre 1948 l’Onu approva un’altra risoluzione, la 194, in cui si chiedeva la smilitarizzazione di Gerusalemme e il ritorno a casa dei profughi. Non torneranno più. I “mutamenti territoriali” sono invece un altro eufemismo per dire colonizzazione israeliana del 65% della Cisgiordania e del 40% della zona di Gaza, compiuta negli anni successivi alla guerra del 1967. Sempre Greshriporta una dichiarazione, superata solo dal recente incrudelirsi degli eventi, di Eitan Felner già direttore esecutivo di B’tselem, l’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territori occupati: “Israele ha istituito un sistema di segregazione e di discriminazione in cui due popolazioni che vivono nella stessa regione (Cisgiordania e Gaza, ndr) sono governate da due sistemi giuridici differenti. (…) I coloni ebrei godono degli stessi diritti degli ebrei in Israele (…) Per i palestinesi che vivono qualche centinaio di metri dalle colonie la libertà di movimento è seriamente ridotta. Non possono votare per limitare i poteri dell’esercito di occupazione e non godono della sicurezza sociale israeliana. In afrikaans questo sistema si chiama apartheid”.
Ma dove questa pessima pagina di presunta “controinformazione” tocca il fondo è, sempre grazie alla penna del Vercelli, nella parte dedicata a Gaza. L’operazione sterministica a cui l’Idf, l’esercito israeliano, ha dato nome “Spade di ferro” viene liquidata come “una risposta militare da parte dello Stato d’Israele che è, a tutt’oggi, ancora in corso, con numerose vittime tra i gazawi”, preceduta nei decenni addietro, di fronte ai “ripetuti atti di terrorismo” e “alla violazione dello spazio sovrano israeliano (soprattutto con incursioni di miliziani e il lancio di razzi sulle città dello Stato ebraico)”, dal “ricorso all’embargo sulle merci in entrata e uscita” piuttosto che da “più operazioni militari, di particolare intensità”. Tutto qui. Ora, va bene fare gli avvocati del diavolo, ma dovrebbe esserci un limite all’indecenza. Non possiamo ripercorrere qui l’intero snodarsi di azioni e reazioni fra Israele e le organizzazioni palestinesi, dall’Olp di Yasser Arafat al partito armato islamista Hamas, ma dobbiamo dire che se certamente queste ultime si sono macchiate di terrorismo, e che se quest’ultimo non è mai giustificabile da nessun punto di vista, tuttavia è storicamente spiegabile con il regime imposto da Israele alla Striscia ea gran parte della Cisgiordania, che nessuno potrà negare avere i caratteri del controllo nel primo caso, e dell’occupazione nel secondo. Ariel Sharon, dopo aver risposto con devastazioni, esecuzioni e torture alla Seconda Intifada (la prima era stata nel 1987) suscitata da lui stesso con la famosa e provocatoria passeggiata nella Spianata delle Moschee del 2000, costruì il famoso muro di 700 km trasformando la Cisgiordania, divisa kafkianamente in tre aree, in un campo di prigionia a cielo aperto. Ecco l’occupazione. Nel 2002 l’Onu, con i voti anche degli Usa, vota la risoluzione 1397 che ribadisce l’idea di “due Stati” auspicando che vivano “fianco a fianco”. Gli Stati Uniti, in realtà, in nome della “guerra al terrore” (c’era stato, l’anno prima, l’11 Settembre), appoggeranno Sharon. Nel 2005 quest’ultimo decide di dismettere le colonie israeliane nella Striscia di Gaza, lasciando il territorio ai palestinesi. Il territorio: non il suo controllo. In base all’articolo 42 della IV Convenzione dell’Aja su leggi e usi della guerra terreste, un territorio è da considerarsi occupato “quando si trova posto di fatto sotto l’autorità dell’esercito nemico”. A Gaza, Israele è padrone dei confini di terra, dell’accesso al mare e dei cieli. Nessuno, tanto meno i giornalisti stranieri, può entrarvi senza il permesso israeliano.
Fra il 2008 e il 2014 si sono succedute tre “operazioni”(Piombo fuso, Colonna di nuvola, Margine di protezione) che miravano a distruggere i tunnel sotto Gaza e a eliminare Hamas, nel frattempo cresciuta in consenso a spese dei laici dell’Autorità Nazionale Palestinese accusati di arrendevolezza sugli accordi di Oslo e la loro applicazione. Hanno invece ottenuto l’effetto di rafforzare gli islamisti (dei quali nel 2004, a ogni buon conto, hanno ucciso i leader, Al-Rantisi e Yassin, così come nel luglio 2024 hanno ammazzato il capo politico Ismail Haniyeh in visita a Teheran). Nel 2022 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato “L’apartheid di Israele contro la popolazione palestinese: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità”. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, il 24 ottobre 2023 ha dichiarato che il popolo palestinese è “soffocato da cinquantasei anni di soffocante occupazione”. La rappresaglia in corso ha cancellato in modo indiscriminato ospedali, biblioteche, moschee, scuole. Nel 2024 due milioni di abitanti di Gaza, assecondando l’intimazione dell’Idf, si sono spostati a sud: una seconda Nakba. Avi Dichter, il ministro dell’agricoltura israeliano, lo aveva espressamente annunciato il 12 novembre 2023: “Stiamo lanciando la Nakba del 2023”. Come testimonia il premio Pulitzer Chris Hedges nel suo Un genocidio annunciato (Fazi, 2025), in Cisgiordaniadove è presente l’Autorità Nazionale Palestinese ma non Hamas, Israele ha come obbiettivo l’annessione, forte di 371 insediamenti strategici irti di check point e avamposti militari, popolati da coloni estremisti armati fino ai denti. A governarla, non casualmente, è un altro esponente fra i più fondamentalisti del governo Netanyahu, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich. Lo stesso che nel novembre 2023 ha bollato come “nazisti” i due milioni che la abitano. Lo stesso che, assieme al ministro delle finanze Itamar Ben-Gvir, secondo il quotidiano israeliano Haaretz ora non muoverebbe obiezioni alla ripresa del flusso di camion umanitari a Gaza, in cambio dell’annessione graduale non solo dei Territori cisgiordani ma anche della Striscia. A ogni modo, già il 18 gennaio 2024 Netanyahu aveva dichiarato: “La guerra durerà a lungo e alla fine non ci sarà alcuno Stato palestinese”.
Stendiamo un pietoso velo sul resto. Alla voce “crimini di guerra”, nessuna menzione di Israele. Alla voce “crimini contro l’umanità”, nessuna menzione di Israele. Alla voce “genocidio”, Davide Jona Falco insiste sulla “distinzione tra l’elemento oggettivo, ossia quello che descrive il genocidio e le azioni che lo compongono, e l’elemento soggettivo”: non basterebbe, infatti, che “vengano commessi gli atti sopra citati, ma che ci sia l’intento volontario e premeditato, cioè l’intenzione di annichilire o distruggere l’intero gruppo in quanto tale”.Lasciamo pur stare il fatto che disquisire sulla pelle di un’intera popolazione bombardata a tappeto, scacciata dalla propria terra, presa per sete e per fame e privata dei più elementari diritti dovrebbe risultare una sofisticazione repellente per chiunque, e veniamo al nocciolo. La tanto vituperata (e vergognosamente sanzionata ad personam) Francesca Albanese, relatrice Onu sui diritti umani nei Territori occupati, nel rapporto del 1° ottobre 2024 aveva chiarito che, in base alla giurisprudenza, di “intento genocida” si può parlare in presenza di un “allontanamento forzato”, aggravato da altri fattori come “il trasferimento in posto pericolosi”, e in ogni caso quando “si colpisca l’esistenza di un gruppo” in modo che “non possa ricostituirsi”. Ovvero quanto Israele sta operando, com’è innegabile che stia operando, in un “deliberato deterioramento della salute pubblica” (distruggendo fisicamente sistemi e strutture civili, senza contare la carneficina umana e i danni psicologici a intere generazioni di gazawi), il che rende plausibile il “genocidio per logoramento”.
Nei capitoli su “Corte Internazionale di Giustizia” (quella all’Aja) e su “Corte Penale Internazionale”, Claudia Tedeschi cerca di minimizzare. Contro la prima, lamenta che di fronte all’accusa di rischio di genocidio mossa dal Sudafrica (non a caso, la patria dell’apartheid originale) i giudici non hanno preso in considerazione le repliche di Israele. Però non ricorda che il 26 gennaio 2024 la Corte dell’Aja ha emesso una prima sentenza: Israele va processata. La CPI, invece, viene criticata per aver condannato per crimini umanitari sia i capi di Hamas da un lato, sia Netanyahu e l’ex comandante dell’esercito israeliano, Aluf Gallant, dall’altro, “sovrapponendo i piani e considerando i vertici di uno Stato democratico – con un esercito che lo stesso procuratore ha definito più volte come professionale e addestrato, dotato di un sistema che è destinato a garantire la conformità al diritto umanitario internazionale – al pari di quelli di una organizzazione terroristica”. La Tedeschi, povera di argomenti com’è, ricicla il teorema secondo cui lo status di democrazia concederebbe a priori una superiorità etico e giuridica. Resta da capire cosa ci sia di democratico nel negare il diritto all’autodeterminazione a un popolo che oppone resistenza per questo esatto motivo. Stessa solfa, del resto, la riciccia Lomonaco nell’ultimo punto, in cui discorre del successo di Hamas nell’essere riuscita a porsi “sullo stesso piano informativo” di quel “Paese democratico” che è Israele. E come ci sarebbe riuscita? Monopolizzando “notizie e dati”, così da non rendere “verificabile in maniera indipendente” il “numero di morti” di Gaza. Bella forza: Israele non fa entrare i internazionali nella Striscia, e ne ha fatto divieto anche agli investigatori della CPI (la Albanese, nel rapporto citato, puntualizza infatti che “non ha nessuna autorità per vietare attività conoscitive sul terreno che occupa illegalmente”).
Ma allora Amnesty International, Save The Children, l’Euro-Mediterrean Human Rights Monitor, anche loro si inventano cifre per criminalizzare le immacolate truppe israeliane che, secondo video un po’ troppo realistici per sembrare frutto dell’IA, sparano sui denutriti palestinesi in fila per il cibo? E i governi di Francia, Gran Bretagna eccetera che, seppur tardivamente e non innocentemente, sono ora disposti a riconoscere il futuro Stato di Palestina, sono anche loro vittime della manipolazione di Hamas? Antisemita e quinta colonna sarebbe pure B’tselem, l’israeliana B’tselem che assieme a Physicians for Human Rights è di recente uscita con un rapporto in cui accusa il proprio Paese di genocidio (“Non è una questione di quante persone siano state uccise – 60mila, e una sottostima – ma riguarda la cancellazione di tutte le strutture sociali che rendono possibile la vita a Gaza. Israele sta distruggendo anche la vita futura perché ha cancellato l’intero sistema educativo, università, scuole”, ShaiParnes, direttore comunicazione B’tselem, 30 luglio 2025, La Repubblica)? E che dire del nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si è destato osando affermare che è “disumano ridurre alla fame un’intera popolazione, dai bambini agli anziani” e che “è grave l’occupazione abusiva, violenta, di territori attribuiti all’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania” (cerimonia del Ventaglio, 30 luglio)? Caduto nella trappola del pregiudizio antisemita anche lui?
In sintesi, queste “parole in conflitto” sono sì in conflitto: con la realtà. Dall’UCEI ci saremmo aspettati uno sforzo maggiore, anziché questo ammasso di luoghi comuni tendenziosi, concentrati in uno scritto falsificante e mediocre. Caro amico ebreo che non ti bevi questa sbobba, solleva il capo, fa’ sentire la tua voce, ribellati all’omologazione a un’Israele attualmente guidato dal peggior governo della sua storia: solo così potrai denunciare a testa alta il purulento antiebraismo che equipara te in quanto ebreo con quegli israeliani che appoggiano gli orrori di Netanyahu e, per dirla con la studiosa Anna Foa, il “suicidio di Israele”. Non confonderti con i sionisti che pensano che le vittime siano solo le proprie e credono di eliminare il terrorismo concimandolo col sangue. Altrimenti sarai complice, anche solo per indifferenza, dell’ingiustizia immane di cui si sta rendendo colpevole Israele, aureolata da tutta la cinica fanbase filo-israeliana nel mondo.
Comments
Anche i nostri partigiani venivano definiti terroristi dai nazifascisti.
"Il tradizionale slogan sionista è “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Ma non era vero che la Palestina era senza popolo: era abitata per la maggior parte da arabi (musulmani e cristiani)."
Gli arabi che abitavano la Palestina erano non solo musulmani e cristiani, ma anche ebrei, come tanti ebrei si trovano tra gli arabi che hanno abitato e abitano in Iraq, Siria, Libano, Egitto, Marocco, Algeria, Tunisia, etc... Occorre evitare di scivolare su queste questioni tanto care a chi ama sostenere il genocidio: gli arabi sono quelli che hanno l'arabo come lingua madre. Gli ebrei sono quelli di religione ebraica. I concetti appartengono a due piani diversissimi e distinti.
INFATTI il genocidio che in Palestina va avanti da circa un secolo colpisce e ha colpito gli arabi, compresi gli ebrei arabi.
Segnalo il libro di Ella Shohat, "Le vittime ebree del sionismo", uscito per le Edizioni Q qualche anno fa: https://www.edizioniq.eu/shop/index.php?id_product=54&controller=product&search_query=vittime+ebree&results=3