De-costituzionalizzazione e confusione
di Antonio Cantaro
La scuola secondo Valditara, un generico e fumoso metodo interdisciplinare. Al Ministro e ai suoi deboli critici andrebbe ricordata la rigorosa lezione degli intellettuali che si sono seriamente misurati con il tema. La Bibbia, lo studio del latino e la geo-storia presi sul serio.
Abbiamo già scritto nelle nostre pagine perché la “scuola di Valditara” è lungi, al di là dell’enfasi patriottica con cui è rappresentata dal Ministro, dal prendere sul serio la questione identitaria, per noi questione serissima (Cantaro, 2024). In questo numero – incentrato sulle “Nuove indicazioni nazionali del primo ciclo d’istruzione” – torniamo lungamente sul tema, sottolineando con ancor più forza come essa si inserisca in un processo di lunga data di de-costituzionalizzazione del sistema dell’istruzione. Il formale omaggio alla Carta costituzionale di Giuseppe Valditara non sposta di una virgola il nostro giudizio. Accresce la confusione e alimenta, altresì, le confuse risposte dei cosiddetti detrattori dei lavori della Commissione Perla.
La Bibbia presa sul serio
Dire semplicemente no all’introduzione nei programmi scolastici dello studio della Bibbia e del latino e opporsi alla cancellazione della geostoria non significa niente o, peggio, apre a una discussione da bar dello sport che non fa bene a nessuno. Non fa bene a insegnanti, a studenti, a famiglie. Non fa bene all’Italia. La bibbia, il latino, la geostoria non possono essere agitati come slogan “l’un contro l’altro armati”. Vanno presi sul serio. Soprattutto va preso sul serio il loro uso in generale e il loro uso in particolare, nelle aule scolastiche. Sulle nefande conseguenze dell’uso catechistico della Bibbia abbiamo già dato. Il libro, ancor più venduto in tutti i Continenti, è oggi considerato dalla grande parte della popolazione il libro più noioso al mondo.
Approfondiamo, se vogliamo essere seri, i termini di questa prima contraddizione. Nessun libro ha mai avuto il successo della Bibbia, che è il “best-seller” incontrastato da secoli, con milioni di copie prodotte in tutte le lingue parlate. Nessun libro come la Bibbia ha ricevuto l’attenzione di studiosi di tutte le discipline. Nonostante ciò, le statistiche affogano impietosamente i facili entusiasmi. Per molti cristiani l’approccio alla fede riguarda solo le “cose da fare”, intese come i doveri della morale e le tradizioni da mantenere (la Bibbia come un qualsiasi libro delle devozioni). Otto cattolici su dieci non hanno mai letto nulla della Bibbia (al di fuori delle letture della Celebrazione Eucaristica). Un numero impressionante di credenti non conosce nemmeno tre titoli di libri dell’Antico Testamento. I più non sanno che i Vangeli sono una parte della Bibbia e c’è chi l’associa al filone cinematografico americano come ambientazione (Ben Hur, La tunica, i Dieci comandamenti). È da qui che dovrebbe iniziare il discorso. Ha il Ministro Valditara una risposta a queste straordinarie contraddizioni? Se non la ha, dubitiamo che sia adeguato alle funzioni che gli sono state attribuite nel momento in cui ha giurato fedeltà alla Repubblica. Quanto meno, dovrebbe avere l’umiltà di mettere a tema il problema. E qui un po’ di storia – di storia patria, direbbe Valditara – non guasterebbe.
Le Facoltà di Teologia statali sono state soppresse in Italia nel 1872 nel quadro dello scontro con l’Illuminismo, il Positivismo, il Modernismo. Ma la consegna alle sole facoltà vaticane dello studio della teologia e delle discipline bibliche ha origini più antiche. La loro cancellazione si è consumata a partire dall’epoca della Controriforma. La Chiesa romana, per arginare la diffusione del Protestantesimo, che rivendicava il principio del libero esame dei testi sacri, approdò al divieto assoluto di stampare, leggere e possedere traduzioni in lingua volgare della Bibbia senza previa autorizzazione del vescovo, dell’inquisitore e, a partire dall’indice clementino, dell’autorità papale. A partire da quel divieto, contenuto nella Regola IV dell’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum) di Paolo IV (1559) fino a quello promulgato da Clemente (1596), la Bibbia ha iniziato quel cammino di occultamento che l’ha portata a scomparire dalla vita culturale e religiosa italiana e, più in generale, dell’Europa cattolica. È solo col Concilio Vaticano II, in particolare con la costituzione Dei Verbum e con la riforma liturgica, che la Bibbia è tornata in primo piano nella vita della Chiesa e vi è tornata in lingua volgare. Ma nonostante i quarant’anni successivi al Concilio Vaticano II abbiano registrato in modo progressivo l’entrata delle Sacre Scritture nella vita della Chiesa, ancora oggi per molti la Bibbia continua a rimanere un libro chiuso e poco conosciuto. Tanto che solo le minoranze religiose, ebrei e protestanti, sia pure con diverse motivazioni e approcci, possiedono una discreta e diffusa familiarità con la Bibbia (G. Anderlini).
È da questa contraddittoria e complessa storia che bisogna muovere se si vuole sgombrare il campo da tanti preconcetti. In primo luogo, il preconcetto laicista di chi tratta la Bibbia con stupida ironia, senza capire che siamo di fronte a un grande codice letterario contenente una successione meravigliosa di stili e di racconti e ad un libro che, senza porsi problemi teologici, sollecita interrogativi fondamentali sull’uomo, come il libro dei morti della religione tibetana o il Corano (M. Cacciari, Intervista a Famiglia Cristiana n 18 del 4-5-2008). In secondo luogo, il preconcetto religioso-confessionale di chi nega la possibilità di leggere la Bibbia come un testo letterario, riconoscendone solo la natura di testo rivelato, di parola di Dio, interpretabile esclusivamente all’interno della tradizione della comunità dei credenti. Entrambi i preconcetti vanno vinti, se si vuole veramente che la Bibbia resti patrimonio vivo e vitale e, di conseguenza, accessibile e tramandabile. Ma nelle sue parole, Signor Ministro, non abbiamo letto questa tensione, quanto piuttosto la rappresentazione della Bibbia quale catechismo dell’Occidente, una scelta che invece di tenere aperta la via della domanda e della risposta si rifugia spaventata in improbabili certezze dogmatiche. In particolare, l’idea di introdurre la lettura di estratti della Bibbia non fa che aggiungere confusione a confusione. La Bibbia appartiene ad altri modelli di comunicazione ed esige uno sforzo di decodificazione e traduzione. Usarla senza mediazioni come un testo identitario è un grave errore di grammatica. La Bibbia appartiene alla cultura occidentale alta perché è in essa è scritto tutto e il contrario di tutto. Le attese sproporzionate e magiche che il Ministro ripone nella lettura a pizzichi e bocconi della Bibbia rischiano di rivelarsi uno spot e, quindi, un boomerang. Ne screditano l’autorevolezza e delegittima l’idea, da tanti autorevolmente sostenuta negli ultimi decenni, di farne oggetto studio e di interpretazione nelle aule della Repubblica.
Lo studio del latino preso sul serio
Bisogna riconoscere che nell’arte dell’estrapolazione degli estratti dai classici del pensiero Giuseppe Valditara è un maestro. Per perorare le ragioni della valorizzazione del latino il Ministro non esita a servirsi di una “citazione” tratta dai Quaderni dal carcere: «il latino è la palestra della logica, della ragione, come diceva Antonio Gramsci insegna a imparare. È importante perché è alla base della nostra grammatica e poi studiarlo costa un minimo di fatica, abituiamo anche i ragazzi a non considerare tutto così semplice, così facile». Il maestro Valditara è un cattivo maestro, come i nostri lettori possono personalmente constatare con la lettura integrale della “lectio” gramsciana che pubblichiamo nelle nostre lezioni di autore. L’uso aneddotico e fuori contesto del pensiero dei grandi è roba da chiacchiericcio buono per i social media. Gramsci sostiene cose precise e a quelle bisogna attenersi nella loro inequivocabile concatenazione.
Primo. Il valore formativo del greco e del latino non è semplicemente un’idea umanistica. Il latino non si studia per imparare il latino, ma lo si insegna per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Ma Gramsci non pensa affatto che lo studio del latino e del greco abbia delle qualità taumaturgiche intrinseche, ma che si impara queste lingue per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita costituisce la base della cultura mondiale (non solo occidentale). Si può, perciò, senz’altro sostituire utilmente il greco e il latino con altri equivalenti funzionali che implichino disciplina, rigore logico e collegamento con la grande tradizione, in modo da ottenere analoghi risultati di educazione generale dell’uomo e di contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica. Se non si vuol fare di Gramsci un uso iconico bisogna altresì muovere, con Gramsci e oltre Gramsci, dal fatto che l’intellettuale moderno non è più un erudito, un cultore di una tradizione scritta relativamente scarsa, dispersa, tramandata in modo incerto e non uniforme, che doveva aiutarsi in qualche modo con la sua intuizione di fronte a testi lacunosi e appoggiarsi all’interpretazione orale dei suoi maestri diretti. L’intellettuale moderno, in un regime di media abbondanti è autonomo dai maestri e dalla tradizione. Un mondo di cartine, illustrazioni, grafici, tutto un apparato che promette il passaggio dal mondo del perlopiù al mondo della precisione. Se l’intellettuale premoderno aveva appreso a studiare attraverso la disciplina psicofisica di cui parla Gramsci, quello moderno e postmoderno ha sviluppato un’indisciplina spirituale, un’autonomia nei confronti della mediazione dell’autorità e della tradizione. Grandi trasformazioni che hanno inciso ma ancor più sulle aspettative dei cittadini comuni, sempre più permeati da una cultura dell’immagine che induce alla semplificazione concretistica, all’infantilizzazione, alla gratificazione immediata in termini di informazioni veicolate dalla televisione e dai social media.
Secondo. Gramsci intravede nella scuola dei suoi tempi un processo di progressiva degenerazione. Il sopravvento della scuola professionale, preoccupata di un immediato interesse pratico, sulla scuola “formativa”, disinteressata. E denuncia il paradosso della rappresentazione di questo tipo di scuola come una scuola “democratica”, mentre invece essa è destinata a perpetuare le differenze sociali. Per Gramsci è, perciò, necessario creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo come uomo capace di pensare, di studiare, di controllare chi dirige, di diventare “governante”. Una scuola che non sia un avviamento alla professione, ma una scuola di cittadinanza. Un programma ambizioso che mezzo secolo dopo sarà preso in carico, non senza resistenze e contraddizioni, dalla Scuola della Costituzione e che negli ultimi decenni il paradigma neoliberale del capitale umano si è incaricato di rovesciare (M. Baldacci, La scuola e la Costituzione. Valori di riferimento per la vita tra i banchi, Carocci, in corso di pubblicazione). E che esige, con Gramsci e oltre Gramsci, di fare i conti con il “fatto” che non solo i ragazzi delle famiglie culturalmente sfavorite sono stati formati negli ultimi decenni dalla cultura dell’immagine, ma lo sono anche quelli delle famiglie di livello socioculturale medio (anche a causa di una crisi di lungo periodo dell’autorità degli adulti).
Terzo. Lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, un abito acquisito con lo sforzo. il dolore. la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Il ragazzo di una famiglia di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. Ma occorre resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vuole creare un nuovo corpo di intellettuali, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare – dice Gramsci – difficoltà inaudite. Difficoltà ancor più inaudite nell’epoca di internet che permette di associare la cultura della scrittura a quella dell’immagine, in un mondo in cui la disciplina psico-fisica continua a declinare ma in cui gli stimoli (intellettuali e libidinali) provenienti dal medium sono cresciuti enormemente mostrando potenzialità di coeducazione e collaborazione. Questo non significa credere nelle utopie della cultura libertaria del virtuale, ma fare seriamente i conti con la seduttiva promessa dei social network di favorire tanto i rapporti di prossimità affettiva (di mantenerli di mantenerli ad onta della distanza fisica) quanto di prossimità culturale e ideologica. Ma che tutto questo ha un inquietante prezzo in termini di perdita di universalità e pluralismo nella misura in cui incentiva la creazione di isole in cui il simile conferma le sue idee col simile.
Buoni maestri versus cattivi maestri
È questa l’altezza dei problemi sin qui (ma temiamo non solo sin qui) elusa da Valditara. La ciliegina sulla torta, si fa per dire, è la confusissima indicazione di eliminare lo studio della geo-storia dai programmi scolastici. Una geo-storia immaginaria dato che la disciplina nella realtà dei nostri sistemi scolastici non esiste, se non nella forma inadeguata di un generico e fumoso metodo interdisciplinare. Al Ministro e ai suoi deboli critici andrebbe ricordata la rigorosa lezione di tanti autorevoli intellettuali che si sono seriamente misurati con il tema. Tra tutti il limpido monito di Roland Barthes quando sottolineava che al pensiero interdisciplinare non basta prendere un «soggetto, un tema, e intorno a esso chiamare a raccolta uno o più saperi, ma occorre che tali saperi generino un oggetto nuovo, che non appartiene a nessuno di essi» (R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988). Buoni maestri versus cattivi maestri.
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I ragionamenti arbitrari e ideologizzati di Cantaro hanno poca o nessuna sostanza, ma non avendo essi alcuna attinenza coll'attuale melma scolastica, criticarli sarebbe esercizio superfluo.