All Quiet On The School Front. L’educazione nella nuova fase di transizione globale
di Marco Maurizi
Introduzione
Costruire oggi un ragionamento lucido e critico sulla scuola risulta particolarmente complesso, immersi come siamo in una fase di profonda e convulsa trasformazione geopolitica. Da tempo, del resto, la scuola ha cessato di essere un motore di rinnovamento sociale: si è ridotta a campo di battaglia simbolico, dove si affrontano istanze ideologiche contrapposte che offuscano l’origine materiale dei propri discorsi. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l’apparente polarizzazione tra conservatori identitari e progressisti inclusivi cela in realtà una profonda convergenza strategica. Nell’epoca neoliberale, la scuola segue traiettorie imposte, che solo un’analisi di classe può rendere visibili: è in questo contesto che si rivela il gioco a somma zero tra la pedagogia liberal e la destra reazionaria, poli complementari di un medesimo orizzonte sistemico.
Tuttavia, l’attuale scenario segna un cambio di fase. La globalizzazione che sembrava irreversibile viene ora rimessa in discussione dell’avventuroso “primato della politica” inscenato dall’amministrazione Trump e nuove configurazioni geopolitiche cominciano a delinearsi. In questo quadro, è plausibile attendersi che anche la scuola si allinei docilmente alle nuove direttive esterne, questa volta provenienti da un’Unione Europea disorientata, priva di strategia, ma intenzionata a ridefinirsi in chiave difensiva e identitaria. Il nostro paese vive infatti in pieno la stagione dell’euro-nazionalismo, cioè della torsione autoritaria del progetto europeo in chiave militarista con i suoi meccanismi di ristrutturazione politica, economica e ideologica. In questo scenario, tuttavia, la scuola viene coinvolta suo malgrado come uno dei luoghi in cui si rifrangono le tensioni tra blocchi geopolitici e tendenze interne del capitale. Al tempo stesso, è proprio questa crisi convulsa che rende oggi più chiara la validità delle analisi critiche sin qui sviluppate dalla sinistra di orientamento marxista. Il problema, semmai, è che ci coglie impreparati a ripensare in modo radicale il ruolo della scuola nella fase che si apre.
La sinistra pedagogica, col suo libertarismo demagogico, urla al “fascismo” della scuola meloniana, una scuola in cui occorre “credere, obbedire, insegnare”. Peccato che essa da tempo non sappia distinguere il docente sfruttato da un gerarca mussoliniano e che ci abbia abituati alla sostanziale continuità tra “fascismo” e “lezione frontale”. Avendo già quindi spese tutte le proprie cartucce a impallinare il “docente tradizionale” non solo essa non ha davvero niente di nuovo da dire su Valditara ma non si rende conto che i propri mentori (gli euro-tecnocrati con cui da sempre è alleata) stanno riesumando lo slogan originale e ci conducono a tappe forzate verso una scuola in cui si crede e obbedisce al fine di combattere.
Serve, oggi più che mai, un’analisi materiale capace di andare oltre le narrazioni imperanti e i discorsi retorici sulla cultura, per comprendere il ruolo effettivo che la scuola svolge all’interno dell’apparente conflitto tra una destra liberale in crisi d’egemonia, insidiata da una nuova destra reazionaria che ne contende il primato simbolico, e una sinistra che, liberale anch’essa, si dimostra strutturalmente subalterna e priva di una visione di classe alternativa. È in questo contesto che si gioca la funzione ideologica della scuola, non più pensata come strumento di emancipazione, ma come spazio di legittimazione di nuovi assetti di potere.
Non siamo mica gli americani
Occorre decostruire i discorsi e le pratiche che arrivano da destra riconducendoli a fattori oggettivi ed economici, perché limitarsi a urlare al “fascismo” ogni qual volta politiche liberal vengono attaccate non solo non ci permette di comprendere le differenze essenziali per inseguire contiguità inessenziali, ma rischia di consegnarci a un indistinto fronte “progressista” che cancella i conflitti rilevanti nel nostro campo.
Certo, il linguaggio e la postura della destra americana e di quella italiana sono per certi versi molto simili. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha fatto dell’attacco alla “woke education” una delle sue bandiere programmatiche. L’eliminazione dei contenuti relativi a identità di genere, storia afroamericana critica (Critical Race Theory), multiculturalismo ed educazione all’inclusione è stata perseguita attraverso ordini esecutivi e la richiesta di abolizione del Department of Education, istituito nel 1979 sotto la presidenza Carter, accusato di essere un apparato ideologico progressista e inefficiente. Non è difficile trovare un analogo in Italia nei vari manifesti di Galli della Loggia e di Ricolfi-Mastrocola sulla scuola “inclusiva” che sfavorisce i migliori. Allo stesso modo, la critica del modello pubblico di scuola laica e l’apertura ai privati rappresenta un refrain ormai storico anche della destra italiana. Ma qui finiscono le analogie rilevanti.
In questo contesto, infatti, la retorica scolastica della destra assume configurazioni materiali radicalmente diverse. Negli Stati Uniti, la scuola pubblica è finanziata in gran parte dai singoli Stati, in un sistema altamente diseguale, dove il Dipartimento federale dell’Educazione funge solo da coordinamento e non da reale centro di spesa. Esso gestisce appena il 10% del finanziamento complessivo all’istruzione pubblica, essendo essenzialmente responsabile della distribuzione di fondi strategici per programmi di inclusione (studenti disabili, DSA, sostegno linguistico, ecc.; in questo senso la sua abolizione, senza una compensazione normativa statale, metterebbe a rischio milioni di studenti in condizioni di fragilità). La spesa complessiva per l’istruzione, pur variando a livello locale, è comunque più alta rispetto all’Italia, ed è destinata anche a infrastrutture e tecnologie. Al contrario, in Italia, circa il 90% della spesa pubblica per l’istruzione è assorbita dal pagamento degli stipendi del personale. Non solo quindi il ruolo dello Stato rispetto alle questioni scolastiche appare diverso e incomparabile ma la diversa struttura dell’investimento statale fa sì che in Italia qualsiasi taglio alla spesa pubblica costituisca un attacco diretto alla quantità e qualità del lavoro docente. In assenza di investimenti strutturali, ogni riduzione di risorse si traduce in una gestione “razionale” del calo demografico, che comporta l’accorpamento di classi, la restrizione dell’organico, la precarizzazione del personale. Situazione che, come vedremo, non è minimamente modificata dagli attuali investimenti del PNRR sull’innovazione didattica.
Anche le battaglie ideologiche si declinano in modo differente. L’attacco all’inclusione negli USA riguarda la penetrazione della Critical Theory e di interpretazioni radicali di tematiche legate al genere e alla razza (ciò che i repubblicani chiamano “marxismo culturale”), mentre da noi l’obiettivo polemico è un mitico “Sessantotto” portatore di lassismo nelle valutazioni del declino della scuola “tradizionale” (“gentiliana”). Inoltre, la centralità dello Stato è un fattore che rende diverso lo scenario delle politiche scolastiche, così lo è la centralità della Chiesa cattolica. In Italia, la difesa della scuola pubblica è storicamente legata alla necessità di affrancarla dal controllo confessionale e da logiche privatistiche. Negli Stati Uniti, viceversa, la cosiddetta “autonomia scolastica” è parte strutturale del sistema, come pure l’idea di concorrenza tra scuole (pubbliche e private) e la valorizzazione del merito, elementi che godono di un consenso diffuso tra democratici e repubblicani. Non a caso, l’homeschooling, che negli USA rappresenta un fenomeno consolidato e culturalmente trasversale, non trova un corrispettivo diretto in Italia, dove anzi è rivendicato talvolta da settori progressisti o libertari come forma di rifiuto della scuola centralistica e “autoritaria”.
Il contesto materiale e strategico
Per comprendere il diverso ruolo che la scuola e le politiche educative svolgono negli Stati Uniti e in Italia, è necessario allora spostarsi sul quadro più generale delle strategie adottate dalle rispettive destre nei confronti della ristrutturazione del capitale. Il trumpismo rappresenta infatti una nuova sintesi del capitale monopolistico: intende fondere la logica protezionistica del capitalismo territoriale con la potenza espansiva del capitalismo digitale. Non si tratta di un ritorno al passato (seppure un elemento nostalgico è presente a livello retorico: Make America Great Again), ma di una riorganizzazione autoritaria, selettiva, tecnonazionale del dominio capitalistico. Non si tratta di una semplice variante politica o ideologica del conservatorismo americano, ma di un progetto organico (per quanto contraddittorio) che riflette una ridefinizione dei rapporti tra le differenti frazioni della borghesia statunitense nel contesto della crisi del dominio globale americano. Trump rappresenta una frazione specifica del capitale: quella radicata nell’America profonda, nei settori manifatturieri, estrattivi, agricoli e industriali tradizionali. Questa borghesia – offuscata durante il lungo ciclo neoliberale dominato dalla borghesia costiera liberal e globalista – trova in Trump la possibilità di costruire un nuovo blocco egemonico. La borghesia che ha sostenuto il processo di globalizzazione neoliberale è radicata nelle grandi città universitarie, nella finanza, nei media, nella cultura, nella Silicon Valley. Il suo orizzonte è transnazionale, multilateralista, basato su un’ideologia dei diritti umani e dell’apertura dei mercati. Trump ha costruito la sua forza come opposizione esplicita a questa élite.
Uno degli elementi che però ha maggiormente allarmato il mondo liberal e progressista negli ultimi mesi è stato il progressivo riallineamento di una parte significativa del capitale high-tech statunitense con il progetto trumpiano. Questa convergenza, per quanto non ideologica, segnala una riorganizzazione profonda del blocco egemonico americano e mostra quanto sia difficile interpretare il momento presente, segnato da contraddizioni e transizioni irrisolte. Potrebbe essere una convergenza di convenienza contingente (si veda il recente sfilarsi di Musk dalla guerra commerciale a colpi di dazi) ma con qualche elemento di oggettività: il capitale high-tech, pur deterritorializzato nella sua logica, ha bisogno di uno Stato forte che lo sostenga “proteggendolo” dalla concorrenza cinese, dalla pressione giuridica e fiscale europea, dai vincoli ecologici. L’intervento di JD Vance al summit di Parigi sull’AI ha fatto scalpore presso la borghesia liberal europea, accusata indirettamente di “censurare la libertà di opinione”, ma era assolutamente cosciente dei propri intenti strategici.
Su questo ci basterà confrontare il discorso con cui il Ministro della Cultura Alessandro Giuli ha presentato il proprio programma il 9 ottobre scorso e l’intervento del Vicepresidente americano all’American Dynamism Summit il 18 marzo 2025: entrambi centrati sul problema dell’innovazione e del progresso, tema spinoso per tutti i “conservatori”. Il problema della tecnica, afferma vacuamente Giuli, è sottrarsi all’alternativa tra “l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa”. Il discorso di Vance anche quando alla lettera dice le stesse cose, cioè la necessità di accogliere l’innovazione senza farsene travolgere, in realtà formula la questione in termini più concreti, sociali: Vance parla della necessità di ricomporre la frattura all’interno del campo conservatore tra “populisti” e “tecno-ottimisti”, nel tentativo di stabilire un’alleanza tra settori finora avversi del capitalismo monopolistico e la classe operaia. È molto difficile, ovviamente, che l’operazione di Trump possa effettivamente riuscire: i conflitti interni al capitale non si lasciano addomesticare dalla sola volontà politica, e neppure gli USA sono in grado di governarne integralmente gli esiti. Ma il rapporto con la working class è parte strutturante di questo discorso e appare in forma molto più esplicita e sistematica che negli analoghi della destra italiana.
Ed è in questo rapporto specifico che le politiche scolastiche statunitensi si mostrano parte di un progetto più ampio di riorganizzazione ideologica e territoriale. L’attacco trumpiano all’inclusione ha colpito specifici istituti legislativi (come le politiche DEI: Diversity, equity e inclusion) introdotti dalle amministrazioni democratiche e che hanno avuto una pervasiva e problematica attuazione negli USA e, di riflesso, nel resto del mondo. Ora, non bisogna aderire al trumpismo per riconoscere che il Partito Democratico e le élite liberal considerino la scuola anche come apparato di legittimazione. La battaglia culturale dei democratici dalla scuola, all’accademia, ai media e ai luoghi di lavoro si incentra su una solidarietà simbolica e moralistica, che lascia intatta la natura competitiva, selettiva e diseguale della realtà economica. Il suo illuminismo e le sue battaglie civili a colpi di regolamenti e ortopedismo linguistico costituiscono delle forme di universalismo astratto, cioè la proclamazione di valori universali slegata dalle condizioni materiali della loro realizzazione. Esso censura a priori ogni formulazione di classe delle questioni legate al “potere” (e dunque sposta l’empowerment in una dimensione sostanzialmente immaginaria). L’accesso delle minoranze e delle fragilità a una piena “cittadinanza” attraverso la difesa giuridica e culturalista non intacca cioè gli antagonismi strutturali di sistema. Come abbiamo già visto, non a caso, le riforme scolastiche democratiche non hanno mai cercato di superare il particolarismo e le disparità economiche dell’istruzione nei singoli Stati, gli interventi di “inclusione” e “promozione” sociale sono sempre stati pensati su base individuale, con la stessa idea di merito e competitività condivisa dai repubblicani e dalle élites liberal europee. Il diffuso sostegno di settori anche non bianchi e maschili della classe lavoratrice a Trump mostra quanto la sua retorica populista abbia fatto breccia in una insoddisfazione per le politiche sociali “ipocrite” del Partito Democratico e il settore di capitale che esso rappresenta.
In Italia, le battaglie sulla scuola si muovono su un terreno completamente simbolico (il che non significa che non producano effetti disastrosi e reali): la retorica del merito, dell’identità, della disciplina serve a coprire l’incapacità di proporre qualsiasi visione realmente alternativa alle politiche neoliberiste finora dominanti. Le linee guida di Valditara che fondono aziendalismo e celebrazione del Made in Italy, le chiacchiere sull’identità storica e il patriottismo, le scomposte campagne contro lo schwa o il Sessantotto sono espressioni di un nazionalismo tronfio e retorico, privo però di una base materiale e quindi di un vero orizzonte strategico. In questo contesto, parlare di riforme “fasciste” concede all’avversario più di quanto meriti. Come ha osservato acutamente Daniele Lo Vetere, dentro le linee guida c’è un po’ di tutto (personalismo, storicismo eurocentrico ecc.) e sicuramente l’idea di reintrodurre il latino alle medie ha qualcosa di nostalgico e consolatorio: ma l’impressione che se ne ricava è quella di un atteggiarsi e di un agitarsi senza scopo. E non potrebbe essere altrimenti. Il governo Meloni, proprio in conseguenza della propria pesante eredità neofascista, opera all’interno di vincoli molto rigidi, imposti dalla subordinazione politica ed economica all’Unione Europea e alle sue politiche liberiste.
Ma siamo purtroppo europei in riarmo
Il problema è che queste politiche stanno a loro volta cambiando radicalmente. Dopo la breve fase espansiva del “keynesismo sanitario” che ha caratterizzato la gestione pandemica in Europa, la nuova traiettoria intrapresa dalle istituzioni europee si configura come un passaggio verso una sorta di “keynesismo militare”. Un segnale inquietante di questa traiettoria viene dalla Polonia, dove sono state introdotte ore di addestramento militare per gli studenti sottraendole all’educazione sanitaria: un anticipo di ciò che potrebbe diventare modello europeo, soprattutto sotto l’influenza crescente dei paesi baltici e centro-orientali.
C’è un evidente cambio di paradigma: dagli investimenti pubblici legati alla salute e alla coesione sociale, si passa a un investimento crescente nella difesa, nella sicurezza e nella costruzione di un’identità europea intesa come bastione contro le “minacce” globali. Nel discorso dominante, questa fase espansiva di spese belliche si accompagna alla promessa di una ripresa economica e di una riaffermazione geopolitica e culturale europea.
Questo progetto rappresenta il tentativo delle élite europee di rilanciare un’industria militare continentale capace di competere con le potenze globali, riducendo la dipendenza strategica dagli Stati Uniti. La rottura è avvenuta perché queste élite rappresentano la stessa frazione di capitale monopolistico e la stessa borghesia d’Oltreoceano attualmente sotto attacco dall’Amministrazione Trump. Tale progetto si scontra tuttavia con i limiti strutturali dell’Unione Europea: l’assenza di una base produttiva integrata (cioè la necessità di “costruire catene del valore paneuropee”), la frammentazione politica, il ritardo tecnologico. La retorica della crescita, degli investimenti e della sovranità maschera la realtà di un continente in crisi, incapace di ridefinire il proprio ruolo nella nuova geografia del capitale globale. In preparazione di questo sforzo l’Europa è costretta a rifugiarsi in un orizzonte di valori e di cultura puramente immaginario.
Questo spiega la paradossale convergenza tra il linguaggio della destra sovranista e quello della sinistra liberal sui temi centrali dell’identità europea. Nella parte storica delle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e per il Primo ciclo (evidentemente stese da Ernesto Galli Della Loggia) appare, come noto, l’affermazione apodittica secondo cui “solo l’Occidente conosce la storia”. Ciò viene inteso non in senso dialettico e concreto (si veda l’affermazione di Marx “La storia universale non è sempre esistita; la storia come storia del mondo è un risultato”) ma metafisico e astratto: la scuola meloniana intende essere strumento per il recupero del “senso della nazione”, un “noi” che si radica in una tradizione storica e storicistica e si contrappone agli “altri” privi della stessa problematica coscienza di sé. Ciò che sorprende è che, pochi giorni dopo la pubblicazione del documento, Roberto Vecchioni – cantautore e docente simbolo della sinistra – sia intervenuto nella manifestazione a favore del riarmo europeo con un discorso in cui, nel tentativo di contrapporre l’identità europea, “noi”, alle barbarie degli “altri” (chi? russi e americani?) ha evocato una genealogia culturale fatta di grandi nomi (Socrate, Cartesio, Leopardi…) in un rigurgito di euro-nazionalismo dal volto umanistico. Le classi dirigenti europee, lo sappiamo, non hanno la stessa passione per i classici: si rifugiano in una visione tecnocratica, in ideali astratti ed efficientisti, accarezzano il concetto di una “cittadinanza democratica” in cui gli europei divengono subalterni consumatori di una cultura sempre più diafana e posticcia. Ma la sinistra liberal, stretta tra il mostro autocratico trumpiano e quello putiniano, vi si consegna integralmente.
Diritti e moschetto: europeista perfetto!
L’Unione Europea promuove infatti da decenni con insistenza un modello educativo fondato sull’idea di “cittadinanza attiva”. Questo paradigma, ha mirato a sostituire le finalità nazionali dell’istruzione con un’identità sovranazionale, costruita su valori condivisi: diritti umani, pluralismo, democrazia, sostenibilità. Se assomiglia all’agenda della borghesia liberale americana globalista e del settore di capitale monopolistico da essa rappresentata è perché sono la stessa cosa.
Questa ideologia della cittadinanza ha avuto due obiettivi principali: da un lato, consolidare un ethos europeo post-nazionale in grado di legittimare la costruzione dell’UE come entità politica; dall’altro, fornire una risposta culturale alle sfide della globalizzazione neoliberale, nella forma di una “coesione sociale” compensativa. Tuttavia, nella nuova fase apertasi con la pandemia e la guerra in Ucraina, questa ideologia mostra la sua vera natura: da strumento pedagogico per l’integrazione si trasforma in dispositivo di difesa e di chiusura. La “cittadinanza europea”, lungi dall’essere il fondamento di una nuova democrazia transnazionale, si traduce in apparato simbolico per differenziare l’Europa dai suoi “nemici”: la Russia putiniana, l’America trumpiana, la Cina autoritaria. Le recenti risoluzioni approvate dal Parlamento europeo indicano esplicitamente che il sistema educativo deve servire alla “resilienza” democratica e alla prevenzione della “disinformazione” ostile. In un’Europa che si arma e si chiude, l’ideologia della cittadinanza si trasforma ipso facto in nazionalismo continentale, un euronazionalismo fondato sulla selezione di valori e culture accettabili.
Inevitabilmente, la scuola sarà sempre più incaricata di formare cittadini europei non in senso “critico” (qualsiasi cosa questo volesse dire prima), ma in senso adattivo e normativo: critici sì, ma dell’altro dall’Europa intesa come unico orizzonte valoriale, istituzionale ed economico. In questo quadro, la sinistra liberal si trova in una posizione di completa subordinazione. Essa ha fatto propria la retorica europea della cittadinanza, vedendola come alternativa al sovranismo nazionalista, ma non ne ha mai interrogato le basi economiche e geopolitiche. I suoi discorsi sui diritti e sulla cultura si prestano perfettamente a una funzione ideologica conservatrice: difendere l’Europa “dei valori” senza mettere in discussione l’Europa dell’austerità, del controllo, delle disuguaglianze strutturali.
Il PNRR e la vera gestione autoritaria della scuola
Questa convergenza avviene a livello di strutture produttive e redistributive. Non è un caso che i pedagogisti anti-autoritari (cioè essenzialmente anti-autonomia dei docenti lavoratori) non sappiano proferire verbo quando a essere calata dall’alto è la parola d’ordine della “nuova” educazione europeista e sedicente “democratica”. Si veda la sostanziale continuità tra destra sovranista e sinistra liberal per quanto concerne il PNRR. La logica che guida la distribuzione e l’utilizzo di questi fondi risponde a criteri tecnocratici e centralizzati, imposti dalla Commissione Europea e accettati integralmente prima dal governo Draghi e poi, senza soluzione di continuità, dal governo Meloni. Nonostante la retorica della “disciplina” e della lotta contro la scuola “buonista”, quest’ultimo ha proseguito nell’attuazione del piano secondo le medesime logiche di efficientamento e subordinazione del lavoro docente.
La gestione del PNRR nella scuola rappresenta uno dei nodi più visibili della governance educativa europea: le scuole non sono libere di decidere come impiegare i fondi, ma devono attenersi a bandi e progetti con obiettivi vincolanti, calibrati su standard europei e su indicatori quantitativi (digitalizzazione, STEM, innovazione metodologica, contrasto alla dispersione scolastica). In molti casi, i collegi dei docenti sono stati esautorati, e le scelte progettuali sono state imposte dalle dirigenze scolastiche sotto la pressione degli uffici scolastici territoriali o del Ministero. Questa gestione autoritaria dei fondi pubblici ha infatti introdotto la possibilità di commissariamento delle scuole che non si adeguino ai cronoprogrammi previsti per l’attuazione dei progetti PNRR. Il Ministero può intervenire direttamente, sospendendo l’autonomia delle scuole e affidando la realizzazione dei progetti a dirigenti esterni. Di fatto, l’autonomia scolastica, volano delle politiche scolastiche liberiste, viene esautorata laddove rischia di vedere il corpo docente opporsi alle direttive europee. Quando si tratta di affermare le politiche di digitalizzazione e l’educazione laboratoriale le scuole diventano terminali amministrativi di strategie decise altrove, prive di potere decisionale reale.
Dal confitto in classe al conflitto di classe
Di fronte alla incipiente trasformazione autoritaria del sistema scolastico europeo e alla normalizzazione ideologica delle narrazioni identitarie, la pedagogia progressista appare oggi strutturalmente impotente. La sua lotta contro l’autoritarismo “in classe” è fuori fuoco, cieca e oggettivamente reazionaria. Lungi dal costituire un fronte critico o alternativo, essa tende a ricalcare le logiche e gli obiettivi della nuova governance educativa.
Le parole d’ordine del discorso progressista sono state sistematicamente cooptate all’interno dell’apparato ideologico dell’UE. La promozione delle “competenze sociali e civiche”, delle “life skills”, dell’“educazione al rispetto” e della “valorizzazione delle differenze” attraverso dispositivi valutativi, percorsi di aggiornamento docenti, attività extracurricolari e progetti finanziati con fondi europei che seguono modelli standardizzati e che sterilizzano ogni possibilità di conflitto e trasformazione assumono oggi un significato politicamente sempre più autoritario. In realtà perché lo hanno sempre avuto: nel momento in cui la sinistra liberal cede alle lusinghe del bellicismo intransigente cade anche la foglia di fico di un linguaggio che di “inclusivo” e “democratico” aveva solo la vuota parvenza.
Per questa ragione, non è sufficiente denunciare le derive autoritarie o i simboli reazionari. Occorre rimettere al centro l’analisi materiale del sistema educativo come parte della ristrutturazione capitalistica globale. Solo una teoria critica che sappia leggere le trasformazioni dell’istruzione nel quadro dei rapporti di produzione e delle lotte tra blocchi imperiali può offrire strumenti per un progetto alternativo. Per capire cosa succede realmente in classe bisogna uscirne, guardare ciò che avviene nella società a livello di classe. Solo una ridefinizione radicale della funzione educativa come pratica collettiva di trasformazione può riaprire lo spazio per una scuola pubblica democratica. Questa ridefinizione implica un passaggio dalla difesa dell’inclusione all’organizzazione del conflitto, dalla resistenza morale alla costruzione di soggettività antagoniste, dalla cultura come patrimonio e consumo alla cultura come luogo di emancipazione collettiva. Implica una nuova pedagogia. E una nuova sinistra.
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