La questione giovanile e un “nuovo umanesimo”
di Eros Barone
La manifestazione dei “papa-boys” a Roma, in occasione del Giubileo dei giovani, se da un lato mostra la capacità di mobilitazione di massa della Chiesa, dall’altro conferma, oltre al carattere illusorio degli obiettivi di tale manifestazione, il ruolo, che esprime l’essenza storica della Chiesa e ne spiega la ‘lunga durata’, di apologia indiretta del potere esistente (da quello costantiniano a quello feudale, da quest’ultimo al potere borghese-capitalistico). Sappiamo, dunque, fin d’ora a che cosa serviranno le ‘divisioni’ giovanili del Vaticano passate in rassegna da Leone XIV a Roma: a impedire, in nome della pratica della ‘carità’ interpersonale, l’attuazione della giustizia sociale; a mettere sullo stesso piano il genocidio israeliano di Gaza e l’“operazione militare speciale” condotta dalla Russia in Ucraina.
Sennonché questo raduno ci ricorda anche un altro fatto, e cioè che la questione giovanile è diventata, come altre questioni sociali del nostro tempo e del nostro Paese, un oggetto misterioso. Eppure, un’indagine e un approfondimento della condizione giovanile sono tanto più necessari quanto più bassa, e non da ieri, appare oggi la soggettività giovanile e quanto più una siffatta ricerca procede in controtendenza rispetto a una situazione che vede i giovani prevalentemente come oggetto, e non come soggetto, del discorso, dell’analisi e delle proposte che li riguardano.
Articolerò questa riflessione, che concerne un tema cruciale per il futuro del movimento di classe in tre parti: un’interrogazione, una provocazione e una conclusione. Comincio dall’interrogazione, formulando appunto una domanda: che posto trova nell’immaginario dei giovani e nella loro memoria storica una qualche idea, sia pur vaga, di quei loro coetanei di poco più di cento anni fa, a cui sono intitolate piazze, larghi e vie delle nostre città?
Quei giovani, che fra il 1917 e il 1918 avevano meno di vent’anni, formarono l’ultima leva che fu inviata al fronte per andare a combattere, a morire o – e questa fu la sorte dei più fortunati – a restare per sempre segnati nella carne e nell’animo da quella terribile esperienza di atroce violenza che fu la ‘grande guerra’, una guerra di grandi masse, basata su una mobilitazione totale che saldò fronte interno e fronte militare, come mai era accaduto in precedenza e come accadrà poi sino alle ultime guerre di questi anni contro la Jugoslavia, nel Kossovo, contro l’Iraq e in Afghanistan, contro la Libia e la Siria. A quella generazione furono riservate, nondimeno, altre esperienze di grande importanza storica: dal ‘biennio rosso’ al fascismo, dalla seconda guerra mondiale alla Resistenza.
Il contrasto con le ultime generazioni è palese: se si esclude l’impegno nel volontariato, quali esperienze di importanza storica paragonabile a quella che contraddistinse le esperienze che ho testé richiamate può iscrivere nel suo ‘album di famiglia’ una generazione il cui nome sembra scritto sulla sabbia? Forse è meglio che sia così, se dobbiamo prestare fede a quel poeta che giustamente compiange i popoli che hanno bisogno di eroi; forse è meglio che i giovani facciano le loro esperienze nel campo della realtà virtuale, navigando in Internet, amalgamandosi con lo ‘smartphone’, corpo e anima, 24 ore su 24, oppure scambiando il divertimento con lo stordimento nelle discoteche oppure… oppure… (lascio al lettore la facoltà di aggiungere altre esemplificazioni della condizione giovanile in quella che un politologo statunitense ha definito a suo tempo, riferendosi all’Occidente, “l’età post-eroica”). Esiste, dunque, nella percezione dei giovani di oggi, un qualche rapporto psicologico e morale con i giovani di allora? Ebbene, se la risposta dovesse essere negativa, se, cioè, non esistesse alcun rapporto, se la percezione di quegli eventi sfumasse nell’indistinto, ciò significherebbe che è intervenuta una cesura storica profonda che non può non preoccupare la società e la cultura di questo Paese, perché investe i temi nodali dell’identità, della formazione e del lavoro.
La seconda parte di questa riflessione ha un carattere un po’ provocatorio: lo scrivente appartiene, infatti, alla generazione dei ragazzi del Sessantotto, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tantomeno contrapporre a quella dei ragazzi di questi ultimi anni, anche perché, contrario, come egli è, a fare di tutt’erba un fascio, ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento a ogni costo. Lo scrivente desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del Sessantotto conserva una consapevolezza che è fondamentale per chiunque abbia a cuore, per l’appunto, l’identità, la formazione r il lavoro delle nuove generazioni: “Chi non fa politica la subisce”. Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata e perciò, da questo punto di vista, è del tutto giusto affermare, come ha fatto Raoul Vaneigem in un aureo libretto dal titolo La scuola è vostra, dedicato per l’appunto al problema della formazione delle nuove generazioni, che «il lassismo non è il soffio della libertà: è la tirannia che prende fiato».
Purtroppo, la generazione dei ragazzi del Sessantotto, ossia degli attuali ultrasettantenni, non è stata in grado, se non in misura assai modesta, di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli “anni formidabili” ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono e a volte esprimono in modo palese il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del Sessantotto li avevano e anche per questo poterono, a seconda dei casi, o adottarli o contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru, agli psicagoghi o ai mistagoghi, né tantomeno ai demagoghi, ma ai ‘maestri’ autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.
La storia dell’Italia repubblicana dimostra che tutte le svolte del cinquantennio sono state segnate da un acuto protagonismo giovanile: così fu per la “generazione delle magliette a strisce” che, quando nel giugno del 1960 il neofascismo rialzò la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita a una “Nuova Resistenza” e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì Firenze, città-simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (oggi città-simbolo della decadenza italiana indotta, oltre che dal malgoverno politico-amministrativo, dalla costante esondazione del turismo di massa); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-’69 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dell’individualismo e del carrierismo. Ma questa è la cronaca degli anni ’80 e ’90 e dell’inizio del ventunesimo secolo, quando, dopo l’ultimo sussulto contestativo e la sanguinosa repressione statale con cui fu soffocato a Genova nel 2001, la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi, per un verso, nella problematica del disagio e della devianza e, per un altro verso, in quella della sottoccupazione e della precarietà.
Ed ecco, allora, la conclusione di questa riflessione. Essa si chiama “nuovo umanesimo”: un “nuovo umanesimo” adeguato all’epoca della rivoluzione informatica e microelettronica, che, senza nulla sacrificare di ciò che offre l’enorme sviluppo delle forze produttive, di ciò che contiene in sé la possibilità di favorire un’estrinsecazione dei sensi e delle facoltà umane quale mai la storia sperimentale della specie umana ha conosciuto, saldi l’antico al nuovo, il particolare all’universale, il locale al globale, la democrazia al lavoro; un “nuovo umanesimo” che riconosca nel lavoro e nella lotta per affermare i diritti sociali connessi al lavoro gli àmbiti fondamentali e fondativi della formazione e della liberazione della personalità umana; un “nuovo umanesimo” che faccia della giustizia e della libertà, nonché della pace, la quale senza le prime due è solo una maschera dello sfruttamento e dell’asservimento, le passioni più potenti di un mondo nuovo; un “nuovo umanesimo” che si nutra di sincerità, di coraggio e di coerenza, virtù tipicamente giovanili, ma che, se praticate, mantengono giovani anche gli adulti e gli anziani; un “nuovo umanesimo” che riscatti i giovani dalla passività sociale, dalla depressione culturale e dall’irresponsabilità politica e lotti, quindi, per affermare i valori della solidarietà con i popoli e con le classi oppresse, per garantire il rispetto e la difesa dell’ambiente, per realizzare una scuola formativa, salvaguardando le specificità senza ghettizzarle e, insieme, promuovendo non solo la ricerca, l’analisi e la discussione, ma anche l’iniziativa, la lotta e l’organizzazione su un tema, la questione giovanile, che, è bene ripeterlo, è un tema cruciale per quel mondo nuovo a cui bisogna aprire la via, per quel mondo nuovo che occorre costruire.