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La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo

Immanuel Wallerstein

Sociologo statunitense con cattedra a Yale ma appartenente alla sinistra radicale, Immanuel Wallerstein è stato tra i primi in America a recepire e poi attualizzare la lezione di Braudel (come fondatore e direttore del Ferdinand Braudel Center alla State University di New York): i suoi lavori di sociologia economica e di storia delle idee applicano il concetto di lunga-durata ai processi del capitalismo, ed introducono definitivamente nelle scienze sociali la categoria di sistema-mondo1.

Quello di Wallerstein è dunque un sano storicismo metodologico: non consiste nell’immettere e così sciogliere tutti gli eventi nel flusso del tempo, ma nel fornire una visione sistemica e di lungo periodo dei processi culturali, economici, sociali e politici, in una parola della struttura storica della civiltà occidentale (cfr. p. 108: “tutti i sistemi sono storici e tutta la storia è sistemica”); ciò gli consente di avere uno sguardo critico analogo a quello di un altro grande sociologo di sinistra, Pierre Bourdieu, uno sguardo capace di decostruire riflessivamente i valori della nostra civiltà, di cogliere l’insufficienza o meglio l’obsolescenza delle vecchie categorie della politica europea e americana2 , e di comprendere che ci troviamo in una fase di transizione, di passaggio da un sistema-mondo ad un altro, i cui tratti non sono ancora definiti ma dipenderanno sicuramente dalle nostre scelte culturali, economiche e politiche.

Tale storicizzazione radicale permette inoltre a Wallerstein di affermare che ogni universalismo, ed in particolare quello elaborato dalla moderna civiltà occidentale, nasconde un particolarismo. In Chi ha il diritto a intervenire? Valori universali contro barbarie, prima delle tre conferenze tenute alla British Columbia University nel 2004 e qui raccolte in volume con l’aggiunta di un saggio conclusivo, egli va alla radice del problema per eccellenza, generato dalla costituzione concettualmente e concretamente ‘universalistica’ del sistema-mondo moderno a partire dalle scoperte geografiche del XVI secolo: lo statuto giuridico (quindi etico, politico, ontologico, problematicamente umano) dell’‘altro’3 .

L’analisi del famoso dibattito tra Sepúlveda e Las Casas sui diritti degli indios, sulla loro presunta barbarie e sulla conseguente necessità di evangelizzazione (pp. 5-40), conduce Wallerstein ad attribuire forza profetica al principio della minimizzazione del dannoinvocato da Las Casas di fronte ai sacrifici umani praticati da alcune popolazioni amerinde: se gli europei si sono fin da allora arrogati il diritto-dovere morale di intervenire con la violenza per reprimere più grandi violenze, ovvero in termini moderni per prevenire, piuttosto che punire, dei crimini contro l’umanità (categoria giuridica non a caso inventata a Norimberga nel 1945, di fronte ad atti ‘impunibili’ secondo la classica logica commutativa), essi hanno spesso finito col provocare danni più grandi di quelli che intendevano evitare. La posizione di Las Casas è insomma ottima per criticare non solo l’intervento USA in Iraq nel 2003, ma più in generale l’interventismo umanitario elaborato dall’Occidente (di cui un caso esemplare, ampiamente analizzato da Wallerstein, fu l’intervento in Kosovo), ed ogni forma di diritto all’ingerenza espresso dagli intellettuali europei sedicenti radicali.4

Tuttavia non è questo, a nostro parere, lo specifico della critica di Wallerstein all’universalismo, bensì la decostruzione dei valori in nome dei quali ci si sente in diritto di intervenire. I concetti di democrazia, diritti umani, e soprattutto economia di mercato (percepito dopo l’’89 come una sorta di ‘stato di natura’ a cui dunque non si può sfuggire, secondo il noto acronimo TINA: there is not alternative), non sono affatto ‘naturali’ (del resto non esiste alcun ‘diritto naturale’), ma sono dei trascendentali storici elaborati dall’Europa moderna: “I valori universali globali non ci vengono dati: sono creati da noi” (p. 39), nel senso che sono stati artificialmente prodotti da una minoranza colta e privilegiata, come del resto aveva già compreso Pierre Bourdieu coniando l’espressione “corporativismo dell’universale”5 . Ciò conduce Wallerstein a denunciare foucaultianamente il ruolo della cultura che, con la sua retorica, giustifica il potere attraverso dei ‘particolari’ che si travestono da ‘universali’; il sapere è potere in quanto struttura un ordine del discorso che si pone come l’unico in grado di comprendere e produrre l’universale: “È così possibile partire dalla tesi paradossale secondo cui non vi è nulla di più etnocentrico, di più particolaristico, delle rivendicazioni universalistiche” (p. 52).

Ecco perché anche la cultura, con la sua funzione di superiorità sociale, va storicizzata e sottoposta al vaglio della sociologia della conoscenza. L’esempio di storicizzazione che Wallerstein adduce nella seconda conferenza riportata nel volume (cfr. pp. 51-64: Si può essere non orientalisti? Il particolarismo essenzialista) consiste in una serrata critica dell’orientalismo, visto come essenzialismo elitario e ipocrita, teso a coprire o dissimulare il senso di superiorità culturale dell’Occidente – come già denunciato da Edward Said nel suo celebre Orientalismo (1978). Le civiltà avanzate (Cina, Giappone, ecc.), studiate con tanta passione dagli orientalisti, erano implicitamente giudicate dai medesimi incapaci di innalzarsi al progresso, alla modernità e ai suoi valori ‘universali’: civiltà immobili, astoriche, congelate, museificate e dunque bisognose del supporto culturale, politico, economico dell’Occidente (cfr. p. 44) – con il relativo ricatto imposto ai non europei, e subito dallo stesso Said: se volete essere degli intellettuali, dovete occidentalizzarvi.

Se l’orientalismo, apparentemente universalista e ‘democratico’, nasconde l’eurocentrismo – poiché la ‘vera’ immagine dell’Oriente sarebbe quella elaborata dagli orientalisti occidentali –, esso comincia a crollare secondo Wallerstein dopo il 1945, con la decolonizzazione, quando non funziona più l’idea di due diverse ‘essenze’ culturali, delle quali l’una comprende l’altra nella sua differenza in quanto implicitamente superiore, e si dimostra impraticabile anche il tentativo di sostituire all’eurocentrismo degli orientalisti l’anti-eurocentrismo degli occidentalisti (cfr. p. 62), ossia di coloro che proiettano su popoli non europei, anticipandola, la modernità, talvolta marginalizzando in modo compiaciuto l’Europa come satellite o protuberanza dell’Asia. Wallerstein propone perciò di liberarsi della contrapposizione essenzialista Oriente-Occidente (la quale porta dritto dritto a Hungtington e allo scontro di civiltà) e di spostarsi decisamente verso l’analisi dell’espansione planetaria del capitalismo sul lungo periodo (dal ‘500 al ‘900, fino ad oggi), con un’annessa genealogia delle strutture del sapere europeo-occidentale. È questo il tema della terza e più interessante delle sue conferenze, Come conoscere la verità? L’universalismo scientifico (pp. 65-91).

 

Il sociologo statunitense muove dalla crisi sistemica in cui, a suo giudizio, ci troviamo: l’ossatura culturale e intellettuale del sistema-mondo capitalistico (con il suo universalismo che copre razzismo e sessismo, la sua geopolitica liberista e la sua vecchia struttura epistemologica basata sulla divisione tra umanisti e scienziati) sta cedendo, mentre diventa impossibile “continuare a promuovere l’incessante accumulazione di capitale” (p. 70), con una conseguente compressione dei profitti globali (cfr. p. 71). Analizzando in una prospettiva socio-economica le ragioni di questo crollo, con un implicito riferimento alla teoria della decrescita Wallerstein indica tre fattori: il costo del lavoro (con relativa delocalizzazione), il costo degli input, o meglio dell’impatto ambientale della produzione (con relativa esternalizzazione dello smaltimento dei rifiuti), e il costo della tassazione per sostenere il welfare all’interno dell’Occidente (cfr. pp. 71 e sg.), a cui fa da sfondo, su scala planetaria, l’ineguale polarizzazione delle risorse in termini di tecnologie e ricchezza (cfr. pp. 69-70).

Ora, secondo Wallerstein – è questo il suo merito in temini sociologici e politici –, poiché la logica del sistema-mondo capitalistico è un prodotto della cultura universalistica europeo-occidentale, per uscire dalla crisi dobbiamo cambiare radicalmente il nostro concetto di cultura, ed è per tale motivo che la sua analisi si sposta sul sistema del sapere, in particolare su quello universitario come produttore di una cultura socialmente dominante.

L’università moderna, organizzata nel XIX secolo dagli stati nazionali, non assomiglia per nulla a quella, libera, del Medioevo – di cui rimangono solo residui simbolici, come le toghe indossate dai docenti durante le cerimonie o le sedute di laurea. Essa ha in effetti avuto, come istituzione burocratica, un decisivo ruolo di riproduzione e supporto dei valori dell’universalismo europeo: con la sua struttura dipartimentale, il suo specialismo disciplinare e l’erogazione dei titoli accademici, l’università ha costituito la rete capillare del potere-sapere occidentale, ed è stata la linfa culturale del domininio del sistema-mondo capitalistico. Se, aggiungerei, consideriamo l’etimologia letterale del termine universitas, vi troviamo inscritto un solo ‘verso’, cammino o processo, un solo modello di formazione culturale, una sola forma di discorso o paradigma capace di imporre una sola visione del mondo.

Se già prima del 1945 l’università si presentava come il principale luogo di produzione del sapere utile allo stato, ciò è divenuto palese e ha raggiunto il suo culmine dopo la seconda guerra mondiale, quando il sistema universitario pubblico, statale, si è diffuso in tutto il pianeta, occidentalizzandolo. L’università si è imposta come servizio sociale fondamentale, e se da un lato cresceva quello che Bourdieu avrebbe definito investimento di campo nel sistema universitario, visto come “una possibilità di mobilità sociale verso l’alto” (p. 78), dall’altro l’università andava incontro alla sua inesorabile licealizzazione (l’espressione ‘licealizzazione dell’università’, oggi così usata, è stata introdotta proprio da Wallerstein, cfr. p. 86).

Ma, dobbiamo allora chiederci, qual è la cultura prodotta dall’università statale? Com’è noto, nella seconda metà dell’Ottocento si afferma, col positivismo, l’idea che la verità possa essere oggettivamente conosciuta, e che a poterlo fare siano esclusivamente le scienze dure: si consolida il monopolio della verità oggettiva da parte delle scienze esatte, percepite come superiori. A ciò corrisponde la nefasta divisione tra le due culture, scientifica e umanistica, ed il relativo Methodenstreit tra scienze dure e scienze dello spirito. Con la vittoria della cultura scientifica su quella umanistica, ricorda Wallerstein, non sono più gli umanisti (in particolare i filosofi) a stabilire ciò che è giusto e bello, ma gli scienziati a imporre ciò è ‘oggettivamente’, quindi universalmente vero: “Agli scienziati venne data priorità nell’affermazione legittima della verità, e agli occhi della società, il controllo esclusivo su di essa” (p. 81), con quella che definirei ‘cenerentolizzazione’ della filosofia – la fine della funzione valoriale forte che essa aveva ricoperto fino all’idealismo, per Lyotard, ricordiamolo, una delle Grandi Narrazioni del moderno. Nel Novecento, gli scienziati colonizzano definitivamente il sistema dell’istruzione secondaria, conseguendo sostegno economico e prestigio sociale (cfr. p. 79), mentre la ghettizzazione del sapere umanistico produce a sua volta il declino degli intellettuali; e mentre la scienza (nei termini di Horkheimer, la ragione strumentale) promette al potere il controllo della tecnica e della tecnologia, il processo di specializzazione disciplinare raggiunge il suo culmine, coincidente con l’espansione dell’università nel secondo dopoguerra.

In tale efficace ricostruzione genealogica, Wallerstein sottolinea la scomoda posizione assunta dalle scienze sociali in quanto ibrido6 . La loro frammentazione, così come il divaricamento tra storia e psicologia da un lato (all’ombra del vecchio Dilthey), statistica ed economia dall’altro (con un tradimento o riduzione del grande Weber), riflette e subisce quella dello specialismo, che, con la sua inevitabile e settoriale miopia, sembra costituire la malattia della cultura europea-occidentale – ed è paradossalmente cresciuto all’ombra del suo universalismo. Anche le biblioteche, per non dire delle case editrici, insomma tutto il mondo del libro è stato investito, secondo Wallerstein, dall’iper-tassonomia della nostra cultura, ma l’esempio peggiore è offerto dal sistema di assegnazione dei titoli accademici e dalla proliferazione dei corsi di laurea e degli insegnamenti, a cui va aggiunta la mediocrizzazione della classe docente (cfr. p. 85), e, con il sistema dell’insegnamento su due livelli, la tendenza del segmento privilegiato degli ordinari a scaricare il peso didattico sulla fascia sottopagata e più debole.

Da tale punto di vista, dopo quello del ’45, la contestazione costituisce il secondo spartiacque genealogico proposto dal sociologo statunitense. Secondo Wallerstein, la “rivoluzione mondiale” del ’68 è stata capace di mettere in discussione la divisione, anche gerarchica, tra le due culture (cfr. p. 86); la stessa cosa hanno fatto i cultural studies e la teoria della complessità come “movimenti di protesta contro la posizione storicamente dominante all’interno del loro settore” (p. 87).

Contro l’orientalismo e l’occidentalismo, ma preparando il trionfo della comparatistica, gli studi culturali (si pensi ai lavori di Harold Bloom) modificano infatti il concetto di canone, con cui denunciano la miopia etnica degli studi umanistici e i giudizi di valore in essa nascosti. Analogamente, il paradigma della complessità (elaborato da Edgar Morin) relativizza in ambito scientifico il modello classico, deterministico, della scienza come ordine lineare, e cancella l’idea della conoscenza come scomposizione dal complesso al semplice, mostrando invece (ad esempio attraverso il concetto di attrattore strano o la geometria dei frattali) che la creatività sistemica è inscindibile dalla complessità.

Grazie a queste nuove prospettive, abbiamo cominciato a comprendere che “la distinzione epistemologica tra le due culture è intellettuamente priva di senso e/o dannosa per il conseguimento di un sapere utile” (p. 88). Se infatti la logica sistemica dischiusa dalla complessità permette di analizzare sistemi sociali iper-complessi, trasferendo la scienza stessa nel concetto di cultura e così fornendo nuovi strumenti alla sociologia, i cultural studies aprono quest’ultima alla psicologia sociale, allo studio comparato dei processi culturali ed alla consapevolezza, già foucaultiana, che “la produzione culturale è parte delle strutture del potere in cui è situata e ne è profondamente influenzata” (p. 89).

Wallerstein non si nasconde lo stato di confusione in cui si trovano oggi le scienze sociali proprio a causa di tali apporti concettuali e metodologici, ma confida nel riflesso benefico che essi potrebbero avere sulla stessa organizzazione e struttura delle università. Egli ipotizza che l’istituzione accademica, in un prossimo futuro, cessi di “esistere come sede principale della produzione, o persino della riproduzione, del sapere”, e ritiene che proprio le scienze sociali spingano verso una epistemologia riunificata (al di là della divisione tra cultura scientifica e cultura umanistica), ovvero, nei suoi stessi termini, in direzione di una “social scientization” di tutto il sapere (p. 90).

Secondo Wallerstein, dunque, il sapere uscirà fuori dell’università (dalla sua versione burocratica moderna, di stampo ottocentesco), o morirà: se lo stato di crisi del sistema-mondo in cui ci troviamo impone la transizione ad un altro sistema, si configura una sfida pedagogica di ristrutturazione della cultura, e il territorio di questa “battaglia per il futuro” sarà necessariamente posto al di fuori dell’università. Ma in nome di quali valori dovrebbe prodursi questa epocale metamorfosi del sapere?

 

Nell’ultimo e riepilogativo scritto del volume che presentiamo, Il potere delle idee, le idee del potere: dare e ricevere? (pp. 93-111), Wallerstein manifesta un’esigenza etico-politica tipica dell’intellettuale radicale, che concepisce la cultura come legittimazione del potere: essa “ha sempre cercato di dimostrare l’intrinseca superiorità di chi deteneva il potere” (p. 94); del resto l’espressione ‘servi del potere’, usata contro i docenti, universitari e non, in quanto “cinghia di trasmissione dei potenti” (p. 97), è stata uno degli slogan della contestazione. La quale nasce come tentativo di sciogliere il nesso potere-sapere smascherando la seduzione e la lunsinga di potere nascosta nel sapere, e di ri-politicizzare la cultura legandola ad un progetto di rovesciamento del sistema-mondo capitalistico (non a caso l’immaginazione al potere è l’altro slogan che esprime il progetto del ‘68).

Accanto ad una magistrale analisi genealogica delle ragioni del crollo del nostro sistema-mondo, si affaccia nella sociologia di Wallerstein una utopica proposta di transizione ad una nuova forma di universalismo – in termini lyotardiani, ad una nuova Grande Narrazione che raccolga, superandone l’assetto eurocentrico, sia l’illuminismo emancipativo che l’idealismo ontologico. Si tratta di un’opzione di sapore kantiano, oltre che weberiano: al di là del disincanto storicistico, al di là dell’avalutatività delle scienze sociali, Wallerstein (il cui nomen-omen è Immanuel) postula l’esistenza di una sorta di ideale regolativo capace di superare, nell’uomo che conosce, la forma del relativismo: “tutti noi di fatto poniamo dei limiti verso ciò che siamo disposti ad accettare come comportamento legittimo, per non trovarci a vivere in un mondo del tutto anarchico” (p. 60).

Ora, soltanto l’intellettuale radicale può denunciare l’“isolamento corporativo” dell’accademico e l’atteggiamento comodamente avalutativo dello scienziato. Ma, invece dell’abolizione del potere-sapere, logica conseguenza della sua decostruzione socio-storica e soprattutto culturale (dacchè ogni cultura riproduce il potere nei suoi apparati, come dimostra proprio la storia dell’università), Wallerstein prospetta un’assiologica moralità della cultura, a cui si dovrebbe tendere con la creazione di un universalismo davvero universale (non più copertura ideologica di quello europeo), che “rifiuti le caratterizzazioni essenzialiste della realtà sociale, storicizzi sia l’universale che il particolare, riunifichi la cosiddetta epistemologia scientifica e quella umanistica in un’unica epistemologia” (p. 104), dando luogo ad una sorta di pluralismo orizzontale: una forma di sapere (e dunque di potere) universale ma molteplice, multiversa7 .

Non potendo del tutto condividere la speranza ecumenica del sociologo statunitense, preferiamo attenerci alla sua energica rivalutazione del ruolo politico dell’intellettuale: secondo Wallerstein, l’intellettuale è un “generalista” che deve sottrarsi allo specialismo della sua stessa formazione ed applicare “la nostra conoscenza generale individuale a una comprensione dell’epoca di transizione in cui ci troviamo” (p. 107). Poiché la società è la materia di questa trasformazione del sistema-mondo come sistema complesso, solo un sociologo può farlo, ma deve farlo al di fuori dell’università, cioè al di là della riproduzione di quel potere-sapere che è ormai entrato in crisi. Ciò non è affatto scontato: gli intellettuali sembrano oggi non avere le forze sufficienti per rompere gli steccati accademici e saltare fuori dai recinti disciplinari; forse soltanto una sociologia che sia anche filosofia, sarà capace di formulare una “comprensione analitica della realtà” e di produrre una cultura adeguata ad un’epoca di transizione, traghettandoci verso una nuova configurazione sistemica.

 

 

1 Cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna 1995; Id., Capitalismo storico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000; Id., Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste 2006.

2 Cfr. ad es. I. Wallerstein, Dopo il liberalismo, Jaca Book, Milano 1999.

3 Sul tema cfr. naturalmente T. Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino 2005.

4 Cfr. “Droit d’Ingérence”, rivista francese fondata da un gruppo di intellettuali ‘sepúlvediani’ per invocare l’intervento della Nato in Kosovo, nel 1998.

5 Cfr. in particolare P. Bourdieu, Le regole dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 425-437. Bourdieu attribuisce tuttavia a tale espressione un valore positivo, nella misura in cui il ‘corporativismo’ degli intellettuali riesce a produrre quella che lui definisce Realpolitik della ragione, ovvero l’avanzamento democratico, non esclusivo o elitario, dei valori universali elaborati dalle élites.

6 Economia, politica e sociologia si annoverano infatti tra le scienze dure (a cui il Foucault archeologo delle scienze umane aggiungerà, ne Le parole e le cose, la linguistica strutturale), mentre storia, antropologia e orientalismo diventano scienze dello spirito. Ciò spiega in parte il tentativo dello strutturalismo di sganciarsi dalla storia e diventare ‘scienza’ a pieno titolo con l’ausilio della linguistica: è la volontà di acquisire il prestigio sociale promesso dalle scienze dure.

7 Su questi temi cfr. anche I. Wallerstein, Utopistica. Le scelte storiche del XXI secolo, Asterios, Trieste 2003.

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