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Il trattato Della tirannide di Vittorio Alfieri: un classico da riscoprire

di Eros Barone

9788979441598Sarebbe dunque mestieri a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.

Vittorio Alfieri, Della tirannide, libro primo, capitolo decimoterzo.

Il 1777 fu un anno particolarmente fecondo nella vita intellettuale dell’Alfieri. Fu l’anno in cui, partito dalla lettura dello storico Tito Livio, giunse a ideare la tragedia Virginia e, partendo dalla lettura di Niccolò Machiavelli, ideò La congiura de’ pazzi. Da quella stagione così fervida nacque anche il trattato Della tirannide, un’opera singolare, un documento umano e politico che, proprio perché non è stato sempre posto nella sua giusta luce, attende ancora, specialmente nella nostra epoca, tanto lontana in apparenza da quella in cui fu scritto quanto in realtà così affine a essa, nuove, attente e perfino appassionate, generazioni di lettori. D’altra parte, non si può dire che l’Alfieri vi abbia esposto, se non frammentariamente e intuitivamente, idee che si possano giudicare nuove nella storia del pensiero politico. Ma nuovo è il pathos profetico che lo pervade e che ha ispirato il poeta in quell’anno, per lui memorabile, allorché sbocciò nel suo cuore una fede quasi religiosa nel valore della libertà.

 

1. La fenomenologia della tirannide: paura, viltà e libertà

L’Alfieriimposta il problema accomunando nella definizione di “tirannide” qualsiasi regime politico in cui sia possibile, per la persona o per il gruppo che detiene il potere, esercitare «una facoltà illimitata di nuocere». Egli considera perciò “tirannidi” tutte le monarchie del suo tempo, comprese quelle dei sovrani illuminati e riformatori (Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina di Russia ecc.). Così – scrive l’Alfieri nel primo capitolo del libro primo - «il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dée dare se non a coloro (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l’abbiano, una facoltà illimitata di nuocere; e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborrevoli abbastanza.

Il nome di re, all’incontro, essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data società, che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi». 1

Come si desumedalla stessa definizioneor ora riportata,la Tirannide non è solo un trattato politico, ma è altresì un saggio della settecentesca “scienza dell’uomo” ed un libro di formazione morale. Tra gli scarnificanti profili psicologici sbozzati dall’autore circola un ‘ethos’ dirompente, che dà un tono inconfondibile al libro. Un libro che si potrebbe per ironia intitolare: «Dei cento modi di essere codardi». Del resto, l’Alfieri della Tirannide è più efficace nel bollare d’infamia il “liberto” che nel celebrare il “liber’uomo”. Il che è quanto dire che l’indignazione e il disprezzo lo ispirano più a fondo che l’ammirazione e l’entusiasmo, sebbene l’orrore del peccato prevalga sull’odio contro il peccatore, oggetto, questo, di un religioso senso di sgomento che nasce non dalla paura del male che altri può recare alle nostre cose e alla nostra persona fisica, ma dall’orrore del male che può fare alla nostra anima.

Nell’ampio e mirabile capitolo terzo del libro primo (Della paura) l’Alfieri comincia a elaborare la fenomenologia della tirannide: «Ora, non v’ha dubbio che gli uomini che si accostano a loro [ai tiranni] sono sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d’ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche, per l’influenza dell’esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono». Laddove va detto che, tra il ’77, data della prima stesura, e l’’89, data della pubblicazione, l’Astigiano pose in una luce via via più viva il fondamento etico del suo sentimento antitirannico. Sennonché mette conto di sottolineare che, ad uno sguardo più attento, si scopre, in questo e in altri passi, uno stato d’animo tipicamente alfieriano, ossia l’ansia di una possibile sconfitta interiore, la “paura” di potere un giorno essere vinto e svilito dalla paura: di scivolare, a causa di un crollo interiore, nel turpe gregge dei “liberti”.

Del resto, il trattato prende le mosse idealmente dall’amara constatazione con cui si chiude il primo capitolo del libro primo: «Ma siccome per quanto io stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi… ». E, in verità, gran parte della Tirannide (quasi tutto il libro primo) si configura come una rassegna di ritratti, di profili, di schizzi, che mirano tutti a far vedere in quanti modi diversi si possa essere vili, servili, codardi; a volte anche sotto apparenze di dignità, e perfino. di ardimento e di magnanimità. Quello che profonde l’Alfieri è allora un impegno implacabile nello strappare le maschere dietro le quali si celano il cedimento e l’asservimento, al fine di svelare i volti servili e miserabili.

Così, sotto una maschera mutevole l’autore vede nascondersi anche il tristo volto del tiranno, e solo a tratti lampeggia, fra tanta viltà e paura, il volto luminoso del “liber’uomo”. La “galleria dei codardi” è assai ricca, benché non molto varia. È quasi un vasto affresco, che si stende per gran parte del libro primo, a cominciare dal terzo capitolo intitolato Della paura. In esso già si colgono abbozzi di figure e di scene che saranno perfezionate e rifinite nei capitoli seguenti. V’è la paura e l’avvilimento dell’oppresso, v’è il celato tremore del tiranno, vi sono «i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte servono e custodiscono il tiranno; v’è il miserevole dramma dei «coltivatori» prelevati «per forza dai loro tuguri per portar l’armi»; v’è «il popolo delle città, l’una metà mendico, ricchissimo l’altra»; v’è la pena muta dei pochi «enti pensanti», che pur vedendo coi propri occhi, a chiare note, i funesti effetti della tirannide, per paura «sommessamente sospirando, si tacciono»; v’è la gente venduta al tiranno, «simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo» e più di lui ingiusta, tremante e crudele; vi sono infine gli «eroi tiranneschi, che per pochi baiocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà», e «atterriti da tergo… simulano coraggio da fronte». Una paura universale domina su tutte quelle pagine del capitolo terzo, e conferisce ad esse unità: la paura –martella il poeta – è il solo legame che tiene i sudditi col tiranno».

Tipi e figure di «liberti» hanno un netto rilievo nei capitoli seguenti del libro primo. Ecco l’ambizioso senza scrupoli, il cortigiano privo di ogni dignità morale: «… Il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa» (cap. V, Dell’ambizione). Anche più spregevoli di costui sono i «semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori» (ivi).

Spregevole e risibile insieme è l’ambizioncella degli schiavicelli, che s’appagano d’un titolo, d’un nastro, o di «altra simile inezia», bramosi di «rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno» (ivi). Spregevole e non risibile è poi la figura del «primo ministro», il «vice-tiranno», a cui il monarca cede l’usufrutto di tutti i suoi diritti (cap. VI, Del primo ministro). E, in verità, il capitolo dedicato a questo esponente della tirannide raggiunge, con i suoi toni di sarcasmo e di scherno, un’efficacia rara.

 

2. La milizia e la religione: “instrumenta regni” del tiranno

Nel capitolo Della milizia, il disprezzo, acuendosi,si converte in ribrezzo morale. Qui l’autore non si perita di ricorrere ad un linguaggio di estrema virulenza, con punte di carattere epigrammatico: «Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell’obbedire, insolenti e feroci nell’eseguire, nasce il mortale abuso dell’esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni ed interessi diversi e in tutto contrari a quelli del pubblico»: lo stesso interesse del tiranno che pasce quei soldati «e che vezzeggia la loro superba pigrizia» (cap. VII). Mai si vide più sconcio connubio di viltà e di ferocia che in questa «genìa militante»: «Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli altri, appena hanno vestita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro consimili… » (ivi). «Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo. Sono costoro il vero e primo gioiello delle loro corone… » (ivi).

Scriverà più tardi l’Alfieri, il quale nel 1769 aveva visitato gli «Stati del gran Federico», cioè di Federico il Grande: «All’entrare negli Stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestiere militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Il conte di Finch, ministro del re, il qual mi presentava, mi domandò perché io, pur essendo al servizio del mio re, non avessi in quel giorno indossato l’uniforme. Gli risposi: perché in quella corte mi pareva che di uniformi ve ne fossero abbastanza. Il re mi disse le solite quattro parole d’uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non avermi fatto nascere suo schiavo. Uscii da quella universale caserma verso la metà di novembre, odiandola quanto bastava». 2 Sono stati già rilevati dagli studiosi gli antecedenti di questo “antimilitarismo” dell’Alfieri nella letteratura prerivoluzionaria francese del ’700: Voltaire, Helvétius, Rousseau. È però evidente che l’esecrazione della «genìa militante» del suo tempo ha nell’Alfieri una genesi tutta personale e un’impronta tutta sua, e non ha nulla a che fare col “pacifismo” di altri scrittori del ’700.

Proseguendo nella sua rassegna delle varie forme di tirannide, da quella militare a quella religiosa, ed esprimendo concetti assai diffusi nella pubblicistica innovatrice del ’700 – si pensa, com’è ovvio, soprattutto a Voltaire e al suo Dictionnaire philosophique -, nel capitolo Della religione l’Alfieri conduce un’aggressiva polemica non contro tutta la dottrina cattolica, ma contro i dogmi che possono prestarsi a fare di tale dottrina un “instrumentum regni”. La satira, singolarmente acuta e penetrante, viene ad arricchire la galleria dei codardi (codardi per connivenza con i tiranni o per cedimento interiore ai soprusi commessi dai tiranni), laddove l’alleanza dei preti con i monarchi è vista come inevitabile conseguenza della loro sterminata ricchezza: «… Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù» (cap. VIII).

Orbene, l’acume dell’Alfieri nella considerazione dei fatti politico-sociali è comprovato dalla sua lucida intuizione secondo cui i «ricchissimi» sono stati in ogni tempo, di necessità (non come individui, s’intende, ma come ceto o categoria sociale), gli alleati del dispotismo più o meno accortamente mascherato, e che i «poverissimi» sono fatalmente destinati ad essere schiavi, perché l’estrema povertà prostra ogni energia e annienta nei più ogni dignità morale. Riguardo poi al principio del diritto divino dei monarchi un’altra acuta osservazione dell’Alfieri è quella che fa vedere il tiranno tutto dedito ad amministrare «l’ira dei preti», per il timore che insorga da qualche parte un «fanatico di religione», forse più «incalzante» che i «fanatici di libertà».

 

3. La polemica contro il lusso e la satira della nobiltà

I concetti più decisamente rivoluzionari e più nuovi che l’Alfieri abbia enunciato nella Tirannide si incontrano nei capitoli XI e XIII del libro primo: Della nobiltà e Del lusso. È stato detto che nel pensiero politico dell’Alfieri manca «la mediazione tra il rivoluzionarismo negativo e una costruzione positiva», e che non bastano a riempire questo vuoto gli «accenni alla incompatibilità fra nobiltà ereditaria e libera repubblica», fra il lusso e la disparità eccessiva di beni e la vera libertà politica». 3 In realtà, questi concetti sono dall’Alfieri non solo accennati, ma anche proposti e svolti con particolare nettezza. Non a caso, proprio qui è da ricercare la più significativa novità che nella storia del pensiero politico può offrire il trattato alfieriano Della tirannide. Occorrerà evitare, beninteso, di attribuire all’Astigiano un senso di solidarietà con i ceti popolari, una pietà sociale, che gli è quasi totalmente estranea, e fu invece viva e cocente in altri scrittori italiani e francesi del ’700 (basti ricordare due nomi assai diversi: Parini e Diderot). La protesta contro il nefasto lusso dei ricchissimi ha nell’Alfieri una genesi essenzialmente etico-politica, giacché il modello politico-istituzionale a cui egli guarda, insieme con altri contemporanei del periodo (si pensi a Montesquieu e a Voltaire), è quello della monarchia parlamentare scaturita dalle rivoluzioni inglesi del ’600.

Sennonché su questo tema conviene cedere, con una certa larghezza, la parola all’autore: «Non credo che mi sarà difficile il provare che il moderno lusso in Europa sia una delle principalissime cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri popoli, i quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla veramente. Ogni privato lusso eccedente suppone una mostruosa disuguaglianza di ricchezze fra’ cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e corrottissime tutte del pari. […] M’ingegnerò io bensì di provare in questo capitolo: che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle tirannidi riesce anch’egli una delle principalissime basi di esse; e che dove c’è molto lusso non vi può sorgere durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso, questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla. Il primo e il più mortifero effetto del privato lusso, si è che quella pubblica stima che nella semplicità del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido vivere vien trasferita al più ricco. […] Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna essendo presso ai presenti europei una cosa chimerica, affatto si dovrà egli conchiudere che non vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? […] Rispondo: che difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, là dove la disparità delle ricchezze sia eccessiva; ma che pure dei mezzi vi sono per porre rimedio a una tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto dì la libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà, che le buone leggi abbiano provveduto o provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal commercio e dalle arti, che non dall’inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso le ricchezze dei pochi non occasionando allora la povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato di mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti. Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si corroborano. […] …dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi, dée sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti. Questa servitù difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i più; ma quando poi ella si è incominciata a introdurre, provato che hanno i ricchissimi quanto la universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano affinch’ella non si possa più scuoter mai. Sarebbe dunque mestieri a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.»

La «galleria dei codardi» offre, dal cap. XI del libro primo in poi, altri tipi ed altre figure: i «nobili recenti», che «di tanto più feroci saranno, quanto l’uomo che è nato più vile, che è stato più oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più superbo e feroce ogniqualvolta egli, per altra via che quella della virtù, perviene ad innalzarsi sovr’essi» (cap. XII, Delle tirannidi asiatiche, paragonate colle europee); i dignitari, in un regime tirannico: «E lo stesso capriccio conferisce nel nostro occidente [il confronto è, appunto, con l’oriente] gli stessi onori e dignità a quegli schiavi più dotti nell’arte di piacere, e compiacere al tiranno…» (ivi). E abbassando lo sguardo verso i ceti più umili, l’Alfieri vede, con un misto di compassione e di disprezzo, il «popolo misero e molle, che si sostenta col tessere drappi d’oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi», così che «di necessità un tal popolo viene a stimar maggiormente coloro che, più consumandone, gli dan più guadagno»; e però dal lusso privato vengono sovvertite «le opinioni tutte del vero e del retto» (cap. XIII). In tal modo codesto popolo «misero e molle» stupidamente ammira «quel fasto dei grandi che dovrebbe sì ferocemente irritarlo» (ivi).

Nessuna pagina della Tirannide è così intrisa di amarezza e di cocente esperienza interiore come quel luogo del capitolo XIV (Della moglie e prole nella tirannide): «O i figli dell’uomo pensante si educheranno simili al padre, e perciò, senza dubbio, infelicissimi anch’essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno»: donde il Leopardi giovane, intimamente, al pari del Foscolo, alfieriano, trarrà il suo memorabile dilemma: «O miseri o codardi – figliuoli avrai. Miseri eleggi». E all’acuta disamina della fenomenologia della servitù, condotta dall’Alfieri, non sfugge nemmeno l’inconsapevole codardìa di quei «poveri e rozzi e lontani», che sola può amare il tiranno, perché non lo vede e non lo conosce: miserabile folla senza nome, che il tiranno non può amare di altro amore che di quello «con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù» (cap. XVII). E il primo libro della Tirannide si chiude all’insegna dello scherno: assai degni di riso sembrano all’Astigiano quegli stolti che, essendo «essendo schiavi nelle estese tirannidi» ardiscono «reputarsi da più che gli schiavi delle ristrette»: «Quindi nell’udire io le millanterie d’un Francese o d’uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese, o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d’un contadino, perché questo pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille» (cap. XVIII).

 

4. L’essenza rivoluzionaria del «libercoletto» alfieriano

Il libro secondo della Tirannide, assai più breve, comprende otto capitoli. Dopo i primi due capitoletti, che costituiscono quasi un breve proemio, il terzo e il quarto capitolo delineano il ‘tipo ideale’ del «liber’uomo»: come egli debba vivere nella tirannide, come egli debba, occorrendo, morire. L’Alfieri afferma che il «liber’uomo» deve vivere in una «severa total lontananza» dal tiranno, il quale viene raffigurato con acre risalto: «… star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe e corruzioni sue, dalle mura, terreno, ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano» (cap. III, Come si possa vivere nella tirannide). E poco più oltre, la fantasia del poeta giunge a immaginare una scena di coraggioso riscatto umano: «Coloro che con una condotta di mezzo fra la viltà e la prudenza non se ne possono vivere sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tai ch’ei sono…» (ivi). Segue, nel capitolo quinto (Fino a qual punto si possa sopportar la tirannide), una appassionata esortazione – che l’Alfieri rivolge, più che altro, a se stesso – a saper affrontare la morte ove il tiranno ti offenda nei tuoi affetti più cari, o, quel che è peggio, nell’onore: «… e, che avvenire ne possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto». Sicché queste pagine, come quelle del capitolo quarto (il cui titolo è tutto un programma: Come si debba morire nella tirannide), costituiscono, assieme al relativo culto dei personaggi esemplari tratti dalla storia romana e dalle biografie di Plutarco, un documento essenziale dell’intima, sofferta e a volte quasi trasognata aspirazione all’eroismo che era nell’animo dell’Alfieri, nei suoi anni migliori, e che si riflette nella sua poesia tragica: un’aspirazione non ancora incrinata dal dubbio dell’avere in sé, insieme con Achille, Tersite. 4

Negli ultimi capitoli del libro (VI-VII-VIII) l’Alfieri ripete, in sostanza, cose già da lui dette, per la maggior parte, nelle precedenti pagine del suo «libercoletto», o cose non dette da lui, ma da lui ripensate e fatte proprie. Dal pensiero politico innovatore del suo tempo, ormai di dominio comune tra le «persone colte», e specialmente dal Montesquieu, deriva il relativismo circa gli ordinamenti che corrispondono ai diversi tempi e luoghi, in una libera repubblica. Ma non in queste riflessioni va ricercata l’originalità dell’Alfieri; come non è da ricercare là dove discorre, nel capitolo secondo del libro primo, della separazione dei due poteri, legislativo ed esecutivo, come fondamento della libertà. Due passi sembrano invece particolarmente degni di attenzione in queste ultime pagine della Tirannide: il criterio del «tanto peggio, tanto meglio» che è proposto come «durissima verità» nel terzo capoverso del capitolo settimo (Come si possa rimediare alla tirannide), 5 e l’amaro e duramente realistico riconoscimento – espresso negli ultimi due capoversi dell’ultimo capitolo – della necessità della violenza rivoluzionaria per innovare profondamente e «posar le basi di un libero governo su le rovine d’uno ingiusto e tirannico». 6 Questi due passi, oltre a documentare la logica stringente, il ‘pathos’ appassionato e l’intuizione profetica dell’autore, rendono palese, ancora una volta, l’intimo spirito rivoluzionario del «libercoletto» alfieriano e confermano la verità secondo cui i classici non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire. 7


Indicazioni bibliografiche supplementari
La suggestione etico-politica che esercita l’opera dell’Alfieri è stata sottolineata nel Novecento da uno studioso assai sottile, Giacomo Debenedetti, che ha osservato come in tempi di oppressione tornano a piacere gli accenti ispirati dell’Astigiano contro la tirannide: «All’Alfieri molti motivi ci possono ricondurre; tra i quali, in tempi meno oscuri, si vorrebbe che primeggiassero quelli della poesia: il richiamo del poeta da una parte, e dall’altra il nostro legittimo desiderio di confrontarne la voce con l’acustica moderna. Ma non potrebbe darsi che per gente come noi, così malcapitata sul pianeta, in un’era così soffocante, il primo invito dell’Alfieri, e il più decisivo, emani da quella parola “libertà” che romba, tuona e vola nelle sue pagine?» (Ragioni di una rilettura, in Saggi critici. Terza serie, Milano 1959, p. 11).
N. Sapegno, Alfieri politico, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961 (un saggio che testimonia, da parte di questo illustre italianista, un approccio critico singolarmente incomprensivo e decisamente unilaterale al trattato politico dell’Alfieri)
Sono da vedere inoltre le pagine di N. Badaloni nel saggio La cultura, in Storia d’Italia Einaudi, III, pp. 898-904, e le osservazioni di S. Timpanaro a proposito dell’influenza del poeta latino Lucano (Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspettie figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980).

Note
1 V. Alfieri, Della tirannide, Milano 1949, p. 11.
2 V. Alfieri, Vita scritta da esso, Milano 1960, p. 103.
3 L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano, Torino 1975, p. 83.
4 È da ricordare il ben noto sonetto-autoritratto, che è del 1786: «… Or stimandomi Achille ed or Tersite» (v. 13).
5 Ecco il passo in cui l’autore enuncia, attraverso il ricorso ad un’ipotesi controfattuale, il criterio del «tanto peggio, tanto meglio» come fondamentale direttiva dell’azione antitirannica: «Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d’un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sacrificare la propria vita, e di più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non avrebbe altro migliore né più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare e perfino talmente istigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità odiosissima e insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole, la sua persona, la sua autorità, e a tutti: perché ogni eccesso del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, nuocerebbe egualmente alla tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere».
6 Ed ecco il passo finale del trattato, in cui l’Alfieri dimostra sia la necessità della violenza rivoluzionaria per abbattere la tirannide (qualsiasi tirannide) sia l’insufficienza e il carattere subalterno della gradualistica “guerra di posizione”: «… non vi essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più umano, si trova pur sempre sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll’eccedere ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontà e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo e perfino scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere tra gli uomini senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all’essere liberi, più ancora, che dall’esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dée nascere un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge pure quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n’è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e virtuosi uomini».
7 La frase conclusiva è una citazione di Italo Calvino, tratta dal saggio «Perché leggere i classici» (1991, Milano).
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Giancarlo
Monday, 04 August 2025 12:56
grazie all'autore per questo articolo.
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