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Parlare o tacere su Gaza. Scrittori e artisti alla prova del genocidio
di Andrea Inglese
Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.
Omar El Akkad
Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale costruito pazientemente per scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda Guerra mondiale.
Jean-Pierre Filiu
Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio
Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico.
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L’indicibile genocidio è ciò che avviene
di Alfonso Gianni
“Regalo un rifugio a te e ai piccoli,
i piccoli addormentati come pulcini nel nido.
Non camminano nel sonno verso i sogni.
Sanno che la morte è in agguato.
Le lacrime delle madri sono ora colombe
che li seguono, trascinandosi dietro
ogni bara.”
Hiba Abu Nada, 20/10/2023, uccisa da
bombe israeliane lo stesso giorno in cui
aveva postato questi versi.1
“La morte dell’empatia umana è uno dei primi
e più rivelatori segni di una cultura sull’orlo
della barbarie”
Hannah Arendt
Chissà che cosa avrebbe scritto oggi Nuto Revelli, ufficiale degli Alpini nella tragica missione in Russia prima, comandante partigiano poi, e autore del testo di quello splendido canto partigiano che è Pietà l’è morta, la cui musica risale a una canzone – Il ponte di Perati – cantata dagli Alpini ai tempi della Prima guerra mondiale. Chissà se l’orrore del genocidio del popolo palestinese in corso in questi mesi, senza che nessuno riesca a fermarlo, avrebbe trovato modo e spazio per esprimersi nei versi di una canzone di rabbia e di lotta. Allo stesso tempo un inno alla pietà per quelle vittime della ferocia e della stupidità umana. Come è appunto Pietà l’è morta. Come si ricorderà, nel 1949 Adorno aveva dichiarato che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» Con questo aforisma, diventato subito famoso – oggi si direbbe virale - non voleva certo stilare un atto di morte per un intero genere letterario quanto segnalare una estrema difficoltà, anche per un pensiero critico, di misurarsi in modo congruo con le problematiche di un sistematico sterminio, cioè un genocidio. Inoltre segnalava che quel genocidio fissava una cesura epocale nella storia umana e del pensiero.
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La Palestina non ha bisogno di parole
di Barbara Spinelli
Ogni tanto i giornali occidentali annunciano nuovi fremiti e ripensamenti nei governi europei, nuove iniziative per fermare Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.
L’ultimo fremito viene chiamato addirittura tsunami: un’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese, apparentemente iniziata da Macron in Francia e Keir Starmer in Gran Bretagna (il 75% dei Paesi Onu ha già da tempo riconosciuto). Singolarmente perfida la mossa britannica: il laburista Starmer riconoscerà lo Stato palestinese “a meno che Israele non consenta a una tregua”. Se Netanyahu consente, niente riconoscimento. Gideon Levy, commentatore di «Haaretz», chiede: “Se riconoscere la Palestina può favorire una soluzione, perché presentarla come una penalità?”.
Il fatto è che il riconoscimento non mette fine a quello che vediamo: i bambini e gli adulti ridotti a scheletri come gli scampati di Auschwitz, la Fondazione Umanitaria di Gaza gestita da contractors americani e militari israeliani, incaricata di uccidere ogni giorno decine di affamati.
Poi c’è l’idea inane di paracadutare cibo e qualche medicina. Ma i medici che lavorano a Gaza testimoniano quel che accade quando stai morendo di fame. Se dai pane alle persone che vediamo smagrite e agonizzanti le ammazzi, nemmeno servono più le flebo di acqua e sale.
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La Conferenza Ebraica Antisionista di Vienna chiede l’espulsione di Israele dalle Nazioni Unite
di Enrico Vigna*
Un incontro di oltre 1.000 antisionisti ebrei e non ebrei a Vienna, in Austria, ha rivolto un fermo appello a tutti gli Stati e le comunità ad adempiere ai loro obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per fermare il genocidio in corso a Gaza, comprese le sanzioni.
Questo primo evento del suo genere in Europa, ha già gettato le basi per la pianificazione di una seconda conferenza nel 2026. La dichiarazione finale adottata dalla conferenza (13-15 giugno) ha dichiarato: “Noi, relatori e organizzatori della conferenza, rilasciamo questo appello generale, che riflette le posizioni collettive raggiunte durante i tre giorni di deliberazioni”.
La conferenza era stata organizzata da un piccolo comitato direttivo con sede a Vienna, è stato un incontro appassionato di attivisti per la solidarietà alla Palestina da tutto il mondo. C’era anche una delegazione dall’Indonesia. Il suo successo ha sorpreso gli stessi organizzatori, con centinaia di persone che hanno dovuto essere respinte. Persone ebraiche e non ebree di tutte le fedi o di nessuna, si sono unite nella determinazione di vedere la fine della velenosa ideologia del sionismo che ha motivato la creazione dello stato israeliano.
Tra i tantissimi oratori, hanno parlato Ilan Pappe, Ghada Karmi Francesca Albanese, Rahma Zein, Rima Hassan.
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Partecipazioni statali e la sudditanza italiana alle follie del neoliberismo
di Alessandro Volpi*
Abbiamo bisogno di politiche industriali per contrastare l'impoverimento della stragrande maggioranza della popolazione del nostro paese. Per realizzarle servirebbe una visione complessiva che sappia mettere a frutto le condizioni che, in parte, già esistono e sono totalmente snaturate. Il Ministero dell'Economia ha partecipazioni in 13 società quotate alla Borsa di Milano che hanno un valore di 263,5 miliardi, di cui poco meno di 90 sono di proprietà pubblica.
Si tratta di società fondamentali per la vita economica italiana, tra cui spiccano Enel, di cui lo Stato possiede il 23,6%, Eni il 28, Leonardo il 30, Poste il 66, Fincantieri il 72, Terna il 30, Saipem il 32, Italgas il 30. In pratica stiamo parlando di un pezzo fondamentale dell'energia e dell'industria che è stato oggetto nel corso del tempo di privatizzazioni, ma soprattutto che è stato affidato a gestioni finalizzate al rendimento finanziario in maniera del tutto autoreferente.
Per essere più chiari queste società hanno operato singolarmente preoccupandosi di remunerare gli azionisti, in larga parte grandi fondi privati, senza alcuna visione d'insieme. Lo Stato, in tale ottica, ha mirato solo a fare cassa, senza alcuna idea generale del futuro del paese. Così gli utili, sempre consistenti anche per la condizione di monopolio di cui alcune di tali realtà godono, sono stati tradotti in dividendi e gli azionisti sono stati remunerati anche con ricchi buy back. Solo per dare le dimensioni del fenomeno è possibile citare alcuni dati: nel 2024, Eni ha realizzato utili per 6,4 miliardi di euro, Enel 5,8, Poste 3, Italgas 500 milioni, Terna 1 miliardo, Snam 691 milioni.
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L’occidente vuole disarmare la Resistenza, i regimi arabi si accordano
di Giovanni Di Fronzo
Il nuovo mantra della diplomazia occidentale per alleggerire le pressioni internazionali sul regime sionista è “la resistenza deve disarmare”. Questo è, infatti, il filo rosso che unisce le ultime mosse su tre terreni, quello palestinese, quello libanese e quello iracheno.
In tutti e tre i casi si cerca di ottenere con la pressione diplomatica quello che con le guerre imperialiste non si è riuscito a ottenere, ovvero che rispettivamente le organizzazioni della Resistenza Palestinese, Hezbollah e le Forze di Mobilitazione Popolare depongano spontaneamente le armi; la motivazione “seducente” è il “ristabilimento della democrazia e della sovranità nazionale”, a beneficio delle rispettive autorità considerate legittime, ovvero l’Autorità Nazionale Palestinese, lo stato libanese e quello iracheno, che vengono attualmente dipinte come ostaggio, appunto, delle organizzazioni della resistenza e del loro agire come proxy dell’Iran.
Si tratta di una mistificazione totale perché la storia e la realtà sul terreno dicono che, nel caso in cui le varie organizzazioni della Resistenza dovessero lasciare indifese le loro comunità, queste verrebbero immediatamente fatte oggetto dell’espansionismo sionista o di massacri settari ancora di più di quanto non lo siano ora.
Senza che nessuno dei presunti difensori della “sovranità nazionale” dei loro paesi faccia nulla per aiutarle. Si veda cosa sta succedendo agli alawiti e alle altre minoranze in Siria o, per guardare indietro nel tempo, cosa successe a Sabra e Shatila.
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Da Ben Gurion a Netaniahu: il passo più lungo della gamba
Grande Israele, genocidio o suicidio?
di Fulvio Grimaldi
Dall’occupazione all’annessione
Ce n’est que un debut. Permettetemi la blasfemia di adattare una parola d’ordine che aprì un tempo di liberazione e giustizia a qualcosa che ne è l’opposto: schiavitù e crimine. Cioè Gaza. E non solo.
Ci vuole tutta l’insolenza accompagnata ad abissale ignoranza - i due binari sui quali viaggia l’intera nostra compagine governativa - del trovatello berlusconiano che un prodigio neofascista ha fatto diventare ministro egli Esteri, per esigere (!) che, prima di venire a esistenza, lo Stato palestinese (che non c’è) debba riconoscere lo Stato israeliano che c’è da ottant’anni. Con la consapevolezza di chi è convinto che non ce n’è per nessuno, Tajani sorvola sul dato granitico del riconoscimento solennemente dichiarato, nel 1993, dalla massima autorità palestinese, l’OLP di Arafat. Un leader, già ridimensionato dalla cacciata da Beirut, rannicchiato in esilio a Tunisi, che si rassegna a coronare l’ennesima turlupinatura sionista, della quale non verranno mai rispettate neanche le forme.
Questa manifestazione di competenza e arguzia diplomatica Tavjani l’ha espressa, con il tempismo che rivela la sua oculatezza diplomatica- Erano le ore in cui si materializzava la presunta elucubrazione onirica di Trump dell’oscena “Riviera di Gaza”, apparecchiata, a forza di cocktail e aragoste, per Bibi, Donald, loro consorti e altri della Fratellanza Epsteiniana, Quelli da Bibì tenuti ferreamente per i santissimi in virtù dei ricattini sexy allestiti dal pedofilo ebreo (ovviamente suicidato) su mandato del Mossad.
“Gaza riviera, dalla visione alla realtà” è la solenne dichiarazione, a fine luglio, di una determinante quota di parlamentari e ministri Knesset, riferendosi, appunto, al futuro distopico di una Gaza dove fame, bombe, veleni, cecchini anti-bambini, avranno fatto togliere il disturbo a un residuato di pezzenti umanoidi sgraditi a Jahvé. Ben Gvir: “Nessun negoziato (altro che Hamas indisponibile), occupazione e incoraggiare l’emigrazione”.
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La volete l’intelligenza artificiale? Almeno rendetevi conto di quanto costa
di Glauco Benigni
Premessa 1)
A mio avviso, in Occidente si sono riorganizzate 4 Caste dominanti, ovvero:
I Politici/Scienziati che gestiscono il bipolo Vero/Falso; i Mercanti/Finanzieri che gestiscono il bipolo Compro/Vendo e commissionano merci e prodotti ai Costruttori; i Guerrieri /Servizi Segreti che gestiscono il bipolo Attacco/Difesa e (al servizio delle 3 precedenti) la casta degli Scribi/Media che gestisce per loro conto il bipolo Consenso/Dissenso.
Premessa 2)
L’AI è attualmente posseduta e costantemente implementata da poche grandi Companies che fanno capo alle Caste menzionate. Queste Companies, grazie al parco buoi dei loro sostenitori in Borsa, hanno accumulato fortune e hanno investito in ricerca molte decine di BN dollars. Si chiamano Microsoft; Alphabet – Google, Amazon, Apple, Meta. Li riconoscete? Sono i Tecnofeudatari della Silicon Valley i cari vecchi “Over the Top”, poi detti FAGAM che già da decenni controllano la rete web e orientano ogni aspetto della rivoluzione digitale. Negli anni recenti a loro si sono aggiunti alcuni soggetti rilevanti: a) il gruppo che fa capo a Elon Musk, b) Palantir e le altre società gestite da Peter Thiel e 3) Anthropic che appartiene a un imprenditore italo-americano
Come scriveva Foreign Affairs: “Le meta-nazioni digitali sono «attori geopolitici, e la loro sovranità sull’intelligenza artificiale rafforza ulteriormente l’ordine “tecnopolare” emergente in cui le aziende tecnologiche esercitano nei loro domini quel tipo di potere un tempo riservato agli stati-nazione».
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L’ex portavoce di Gheddafi: «L’Italia sostenga la riconciliazione del popolo libico»
Maurizio Vezzosi intervista Ibrahim Moussa
Intervista esclusiva a Ibrahim Moussa, che precisa: «Non cerchiamo vendetta. Cerchiamo giustizia e dignità». Per capire cosa sta davvero accadendo in Libia, Krisis dà voce a Ibrahim Moussa, ex portavoce di Muammar Gheddafi e oggi attivo nella diaspora libica. Le sue parole rappresentano una lettura radicalmente diversa degli eventi del 2011 e delle loro conseguenze: dure verso l’intervento Nato, critiche nei confronti dell’Occidente e fortemente legate all’eredità politica della Jamahiriya. Per affrontare le questioni aperte su giustizia, sovranità e riconciliazione in Libia, Krisis ritine importante ascoltare anche questo punto di vista, spesso ignorato nei circuiti informativi tradizionali.
Ibrahim Moussa è stato il portavoce di Muammar Gheddafi durante la guerra condotta dalla Nato in Libia nel 2011. Attualmente è Segretario Esecutivo dell’African Legacy Foundation, un’organizzazione non governativa con sede a Johannesburg, in Sudafrica.
* * * *
Quali sono, secondo lei, le ragioni che hanno portato all’attacco francese e statunitense alla Libia nel 2011 e all’uccisione di Muammar Gheddafi?
«Mi permetta di dirlo senza filtri diplomatici. L’attacco alla Libia del 2011 non aveva come scopo la protezione dei civili. È stato un attacco imperialista calcolato, guidato da Francia, Stati Uniti e Nato, per eliminare Muammar Gheddafi e annientare la sua visione per la liberazione africana. Nel 2011, Gheddafi si era posto alla guida di un progetto di trasformazione panafricana. Un progetto che stava gettando le basi per:
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Il fallimento storico delle liberaldemocrazie
di Andrea Zhok
"L’egoismo individualista promosso dal liberalismo ha prodotto rappresentanti autoreferenziali, privatizzazione dei profitti e impotenza dei popoli, dal crac subprime al genocidio palestinese ignorato. La volontà popolare è svuotata, mentre media e istituzioni reprimono ogni dissenso. Un consolidando un sistema oligarchico travestito"
A partire dalla “crisi subprime” fino all’attuale genocidio palestinese in mondovisione, ciò che colpisce è la manifestazione conclamata del fallimento storico delle liberaldemocrazie.
Prima di addentrarci nel tema è necessario riflettere per un istante intorno a cosa renderebbe, di principio, qualitativamente migliore un regime democratico rispetto ad alternative autocratiche od oligarchiche.
Il vantaggio teorico dei sistemi democratici consiste nella potenziale maggiore elasticità e prontezza nel corrispondere ai bisogni della maggioranza. O, detto altrimenti, un sistema democratico può dirsi comparativamente migliore nella misura in cui consente una comunicazione facilitata tra l’alto e il basso, tra gli individui meno influenti e quelli più influenti, tra chi non detiene il potere e chi lo detiene.
I sistemi autocratici od oligarchici presentano il difetto di rendere l’ascolto dei senza potere una scelta opzionale di chi è al vertice. Non essendoci sistemi di comunicazione efficace dal basso verso l’alto (esistevano cose come le “udienze regali”, ma avevano un ovvio carattere di estemporaneità) bisogna confidare nell’interesse e nella benevolenza dei vertici affinché gli interessi del popolo vengano fatti.
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Debunker vs complottisti
di Il Chimico Scettico
Come nascono le teorie del complotto
Un lettore mi sfida mandandomi questo link e aggiungendo "Dimmi se non lo trovi condivisibile". Dico che mi sfida perché le mie opinioni su debunker e fact-checkers le ho manifestate chiaramente in piu di un'occasione (tipo qui e qui)
"Il tratto psicologico più comune tra chi crede nei complotti è il bisogno di sentirsi speciali", racconta Michelangelo Coltelli, fondatore di Butac, uno dei più longevi e autorevoli siti di debunking italiani. "Tanti sostenitori delle teorie del complotto che abbiamo analizzato negli anni hanno questa illusione: l’idea di essere tra i pochi a vedere i fatti per come stanno".
In questo caso, ebbene sì, lo trovo largamente condivisibile. Condivisibile ma parziale e di parte. Per esempio, proviamo a rigirare così le stesse parole dell´intervista:
"Il tratto psicologico più comune del pro-scienza è il bisogno di affermarsi manifestando superiorità nei confronti del complottista. Tanti pro-scienza che ho analizzato negli anni sui social erano soggetti la cui unica ragione di vita sembrava essere dare addosso ai complottisti, credendo così di essere dalla parte della la scienza". Piccolo problema: il più delle volte dimostrano lo stesso analfabetismo scientifico dei loro bersagli. Il prodotto standard della divulgazione/spettacolo sui media crede di aver capito e di sapere, ma non ha capito e non sa.
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Carestia a Gaza: l'ecatombe si approssima
di Davide Malacaria
L’inviato di Trump Steve Witkoff e l’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, dopo la visita in Israele, con annessa conversazione con Netanyahu, hanno visitato uno dei quattro centri per la distribuzione di aiuti gestito dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF) presso il corridoio di Morag. Scopo della visita, mettere a punto un piano made in Usa per far fronte alla carestia indotta dalle restrizioni israeliane.
Due criticità in questo. Anzitutto il fatto che, essendo corresponsabili di questa ecatombe tramite la loro GHF, gli Usa dovrebbero lasciare fare ad altri, meno conniventi con Tel Aviv e più capaci. Il secondo è che appare difficile che un immobiliarista come Witkoff possa porre rimedio a una carestia, che non si risolve solo inviando più cibo (per inciso, neanche gli aiuti paracadutati via aerea, benché benvenuti, possono farvi fronte).
Per capire quanto ciò sia errato e quanto sia complessa la situazione basta leggere un articolo di Haaretz che lo spiega fin dal titolo: “La pasta non servirà a niente. Gaza è sull’orlo di un aumento esponenziale delle morti per fame”. A lanciare questo allarme non è un semplice cronista, ma Alex de Wall, il più autorevole esperto di carestia del pianeta.
Anzitutto la situazione attuale: “L’ONU è molto prudente nel dare i dati e i numeri [sulla malnutrizione e sui decessi] sono sospettosamente bassi. Uno dei motivi è che lo screening è stato effettuato solo in aree limitate, dove è possibile operare. Non sappiamo quali siano le condizioni dei bambini a cui non è stato possibile accedere. Quindi quei dati non sono in realtà così gravi come ci si aspetterebbe che fossero in queste circostanze“.
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Dazi e scelte politiche, intreccio fatale per un impero in crisi
di Francesco Piccioni
Il commercio mondiale non deve obbedire più, neanche formalmente, alle incerte leggi dell’”economia di mercato”, ma rispondere approssimativamente al tasso di subordinazione verso l’”impero centrale” accettato dai singoli paesi del resto del mondo.
Questa è l’impressione che resta dopo sei mesi di discussioni e trattative frenetiche sull’entità dei dazi che gli Usa – sotto il comando apparente di Trump – hanno deciso di far scattare operativamente dal prossimo sabato, 8 agosto.
Una scelta totalmente politica, come si evince dall’”ordine esecutivo” firmato dal tycoon nella notte del 31 luglio.
«Alcuni partner commerciali hanno accettato, o sono vicini ad accettare, impegni significativi in materia di commercio e sicurezza con gli Stati Uniti, segnalando così la loro reale intenzione di eliminare in modo permanente le barriere commerciali. Altri partner, pur avendo partecipato ai negoziati, hanno offerto condizioni che, a mio giudizio, non affrontano adeguatamente gli squilibri nelle nostre relazioni commerciali o non si sono allineati sufficientemente con gli Stati Uniti su questioni economiche e di sicurezza nazionale.»
“Questioni economiche” e “questioni di sicurezza” vengono così esplicitamente intrecciate, senza lasciare alcuno spazio ad interpretazioni alternative. Il tentativo Usa è quello di imporre un “nuovo sistema commerciale” in cui la fedeltà politica alle scelte statunitensi consente condizioni tariffarie migliori, per quanto comunque punitive.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quattordicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE IV
Terminata (momentaneamente) la pars destruens, Tomskij passa alla construens e si occupa di un rapporto causa-effetto ormai dimenticato. La negligenza, la superficialità, l’opportunismo, di chi dovrebbe tutelarci, peggio ancora, rappresentarci, si combattono con la nostra partecipazione, operaia e di massa ai processi gestionali e decisionali! Per farlo, occorre coinvolgere grandi masse operaie, buona parte delle quali appena giunta in fabbrica e con in testa ancora più il paesello che la propria, nuova vita:
Per coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche, dobbiamo muoverci su due direttrici. La prima è portare la discussione dei contratti collettivi proprio dove sta chi di tali contratti è parte, ovvero nel cui nome tali contratti sono stipulati. A siglare il contratto collettivo siamo in due:
il dirigente, che si assume la responsabilità di dire, “prometto di pagare questo e questo, di non modificare le condizioni di lavoro, né tantomeno peggiorarle nel corso del tempo”
il sindacato che, nel firmare il contratto collettivo, si assume la responsabilità e promette che i suoi iscritti lavorino per tutta la validità del contratto in un certo modo, a certe condizioni, senza provare a cambiarle in tale lasso di tempo.1
Ripartiamo dall’ABC, invita i suoi Tomskij, dal chi siamo e cosa dobbiamo saper fare, e bene, senza strafare, senza snaturarci; ripartiamo anche da per cosa lottiamo, qual è il nostro scopo. Altro che “cinghia di trasmissione”, verrebbe da dire.
Dobbiamo “coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche”. “Lavoro di gestione economica” (хозяйственно-экономическая работа) è già un termine che, di per sé, illustra bene le due sfere dell’economia (l’aggettivo composto, infatti, comprende sia il termine slavo che quello greco, per cui un traduttore automatico va in tilt e traduce “economico-economico”...): la chozjajstvo, che non è solo “economia” o “azienda”, o “casa” (da cui il calco linguistico dal greco che segue) ma, nella forma verbale chozjastvovat’ padroneggiare, gestire. Che cosa? L’economia.
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La Passione durevole e Costanzo Preve
di Salvatore Bravo
Ci sono testi che svelano e rilevano in modo indiretto il problema onto-metafisico in cui siamo implicati. Uomini senza passione governano il pianeta, il potere e il senso di onnipotenza con operazioni di guerra valutate in modo autoreferenziale ”spettacolari” (Trump) sono il segno del vuoto di senso dell’Occidente. Lo spettacolo minaccia di condurci verso uno scontro atomico senza ritorno, nel frattempo circa un migliaio di esseri umani hanno perso la vita nello scontro tra Israele-USA e Iran, mente a Gaza il genocidio continua a consumarsi nel silenzio mediatico abbagliato, è il caso di dire, dalle operazioni militari in Iran. La politica, passione sociale ed etica, è stata sostituita con il suo surrogato più squallido: la logica del dominio che diventa aggressività nichilistica incapace di “pensare le conseguenze” sociali, politiche e ambientali della guerra divenuta “spettacolo”. Non c’è progettualità e dinanzi alla fine della potenza economica capitalistica si reagisce con la violenza, in quanto la dimensione della politica si è inabissata nell’irrazionalità del pan-economicismo oligarchico. Uomini senza passione per l’umano e senza amore per il proprio popolo governano il pianeta. A questi uomini che Nietzsche definì “ultimi uomini”, si contrappone la resistenza silenziosa degli uomini dalla “passione durevole”. Costanzo Preve ne fu un esempio intramontabile. Egli dedicò un testo alla Passione durevole, che non è un semplice testo, ma è l’oggettivazione della vita nel senso alto e nobile della parola.
La Passione durevole di Costanzo Preve è molto più che un semplice saggio di filosofia. Ne “La passione durevole” c’è l’anima carnale del “filosofo e di ogni essere umano che non si piega fatalmente alla società dello spettacolo” e che non reagisce alle congiunture della storia, ma che agisce su di esse mediante il bilancio critico dell’esperienza comunista sporgendosi, così, verso il “nuovo”. La passione durevole è vocazione filosofica che attraversa le intemperie della storia e delle vicissitudini personali senza disperdersi in inutili “giri e raggiri di vuote parole”.
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La questione giovanile e un “nuovo umanesimo”
di Eros Barone
La manifestazione dei “papa-boys” a Roma, in occasione del Giubileo dei giovani, se da un lato mostra la capacità di mobilitazione di massa della Chiesa, dall’altro conferma, oltre al carattere illusorio degli obiettivi di tale manifestazione, il ruolo, che esprime l’essenza storica della Chiesa e ne spiega la ‘lunga durata’, di apologia indiretta del potere esistente (da quello costantiniano a quello feudale, da quest’ultimo al potere borghese-capitalistico). Sappiamo, dunque, fin d’ora a che cosa serviranno le ‘divisioni’ giovanili del Vaticano passate in rassegna da Leone XIV a Roma: a impedire, in nome della pratica della ‘carità’ interpersonale, l’attuazione della giustizia sociale; a mettere sullo stesso piano il genocidio israeliano di Gaza e l’“operazione militare speciale” condotta dalla Russia in Ucraina.
Sennonché questo raduno ci ricorda anche un altro fatto, e cioè che la questione giovanile è diventata, come altre questioni sociali del nostro tempo e del nostro Paese, un oggetto misterioso. Eppure, un’indagine e un approfondimento della condizione giovanile sono tanto più necessari quanto più bassa, e non da ieri, appare oggi la soggettività giovanile e quanto più una siffatta ricerca procede in controtendenza rispetto a una situazione che vede i giovani prevalentemente come oggetto, e non come soggetto, del discorso, dell’analisi e delle proposte che li riguardano.
Articolerò questa riflessione, che concerne un tema cruciale per il futuro del movimento di classe in tre parti: un’interrogazione, una provocazione e una conclusione. Comincio dall’interrogazione, formulando appunto una domanda: che posto trova nell’immaginario dei giovani e nella loro memoria storica una qualche idea, sia pur vaga, di quei loro coetanei di poco più di cento anni fa, a cui sono intitolate piazze, larghi e vie delle nostre città?
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A che punto è la colonizzazione dell’Europa. Un aggiornamento
di Andrea Balloni
Mancanza assoluta di una prospettiva futura, totale assenza di una visione collettiva, accettazione acritica di un contesto di perenne disomogeneità sociale e di eterno precariato.
Questa è la condizione psicologica zombie dei popoli europei, dopo cinquant’anni di applicazione del programma didattico neocoloniale e neoliberista angloamericano, dove ogni ascensore sociale è fuori uso e i cittadini sono ormai incapaci di immaginare un piano sociale migliore di quello che gli è stato assegnato nel condominio; incapaci dell’ottimismo volitivo necessario alla propria emancipazione.¹
Correva l’anno 1987, quando Margaret Thatcher pronunciò le seguenti parole: “La società non esiste, esistono solo gli individui”, riassumendo con rara capacità di sintesi e con altrettanto rara potenza profetica la direzione che l’Occidente aveva preso e il cammino che i ceti dominanti volevano imporre anche al resto del mondo. Un punto di vista che prevedeva di pensare a se stessi prima che alla comunità, che dissolveva e negava la percezione della società come unione, oltre che di individui, di cultura, sentimenti, rispetto e solidarietà; un punto di vista, infine, che mortificava inevitabilmente e definitivamente l’immagine positiva, costruttiva e progressiva che per necessità informa il pensiero socialista: l’immagine dell’uomo, in altre parole, come animale sociale, come essere che si realizza nelle relazioni interpersonali e nella costruzione della propria società.²
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Antisemita a chi? Putiniano perchè?
di Fulvio Grimaldi
Herzog: Mattarella, un vero amico.
“ Spunti di riflessione” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
Antisemita a chi? Con Fulvio Grimaldi @MondocaneVideo
https://www.youtube.com/watch?v=Q_N881lWI-k
Intanto di semiti tra gli ebrei ce ne sono pochini, come ci spiega lo storico ebreo Shlomo Sand nel suo fondamentale “L’invenzione del popolo ebraico”, dove ci si racconta come quanto di ebraico è giunto in Palestina, goccia a goccia, dagli inizi del secolo scorso e poi, con più impeto, dopo la seconda guerra mondiale, di semita ne ha poco. Vengono dal Caucaso, dove all’ebraismo si sono convertiti in massa per fare un dispetto allo zar, ortodosso e oppressore, e si sono diffusi per tutto l’Occidente. Dal quale, vista l’occasione, dopo che all’Occidente era scappato un mondo di colonie, hanno avuto la delega di ricominciare la conquista a partire dalla Palestina. Poi, hai visto mai, Eretz Israel, Grande Israele e il Medioriente, quanto meno, torna nostro. E a chi cià da dì quarcosa, “antisemita!”
Che è poi tutto un equivoco. Per chi ci crede, Noè aveva tre figli: Sem, Cam e Jafet. Ne ha fatto i capistipiti di tutti i popoli della Terra: Sem, di quelli di Nord Africa e Medioriente, dove allora c’erano i mesopotami, gli Abbasidi, gli Omayyadi, i mammalucchi, tutti arabi e poi musulmani; Cam, di quelli a Sud, in Africa e Jafed di tutti gli altri, interpretati come indoeuropei (perché i cinesi a Noè non si erano ancora palesati).
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Milano: al nocciolo della questione
di Sergio Fontegher Bologna
Sono nato a Trieste ma vivo a Milano da una vita (da 65 anni, per la precisione). Mi riesce difficile far finta di nulla davanti alle inchieste della magistratura, che stanno scuotendo la città. E soprattutto tacere di fronte all’urlìo assordante di coloro che esaltano “il modello Milano” e tacciano i magistrati come sabotatori di un futuro radioso e denigratori di un passato strabiliante. Con “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a guidare il baccanale dell’osceno.
Non mi sono mai occupato di urbanistica ma mi chiedo se non sia sufficiente la condizione di “abitante” per avere il diritto a parlarne.
Negli anni Settanta era il gruppo di Alberto Magnaghi alla Facoltà di Architettura del Politecnico a darmi i parametri interpretativi della questione dell’abitare e della trasformazione urbana. Come autore/ricercatore, e con mia figlia Sabina alla macchina da presa, nel 2006/2007 abbiamo realizzato un documentario intitolato “Oltre il ponte” sulla trasformazione del quartiere dove abito, Porta Genova, passato da zona di altissima concentrazione operaia (circa 14 fabbriche medio-grandi) a zona della moda e del design. E tutto sommato avevamo dato un giudizio positivo. Oggi quegli stessi luoghi che abbiamo filmato sono completamente cambiati. In peggio. Al posto di fondazioni d’arte o laboratori artigiani i soliti squallidi show room del prêt-à-porter, con interminabili file di attaccapanni pieni di stracci. Ci sono rimasti gli Armani, però, coi loro “silos”, le aiuole ben curate, quelli che fanno cucire le borse a sub-sub-appalti di poveri cinesi pagati 3-4 euro l’ora.
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Cyberdisastro per la Difesa francese (ed europea)
di Giuseppe Masala
Come abbiamo visto in questi anni, il sistema della Difesa francese, inteso sia come apparato militar-industriale che come Forze Armate in senso stretto sta attraversando un momento di gravissima crisi, a nostro avviso paragonabile all'aggiramento tedesco della Linea Maginot, iniziato il 10 Maggio del 1940, che costò alla Francia la sconfitta e l'occupazione nazista.
In questi anni abbiamo infatti visto come la Francia abbia sostanzialmente perso la presa sulla cosiddetta Françafrique che si è sostanziata sia con il ritiro militare da paesi quali il Niger, il Burkina Faso, il Mali e il Senegal, sia con la sostanziale fine del Franco CFA. Da notare peraltro che questo ritiro non si è verificato per autonoma scelta politica di Parigi ma per l'effetto di eventi avversi sullo scacchiere geopolitico, basta notare che la Francia in questi paesi è stata sostanzialmente sostituita, sia dal punto di vista commerciale che militare, da aziende e reparti militari provenienti dalla Federazione Russa.
Ma a questo enorme smacco diplomatico, militare, commerciale e monetario subito in Africa vanno anche aggiunte cocenti sconfitte in senso industrial-militare che hanno posto in dubbio la qualità dei prodoti dell'industria militare francese. Ci riferiamo innanzitutto al fiasco subito dal sistema antiaereo franco-italiano SAMP-T che nelle intenzioni doveva essere la risposta europea al sistema Patriot americano ma che, nella battaglia aerea in Ucraina contro le forze russe, non è stato all'altezza delle attese subendo molte avarie (anche di natura informatica) e non riuscendo a far fronte neanche parzialmente ai furibondi attacchi delle forze missilistiche russe.
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Le crepe nella NATO: un’analisi
di Biljana Vankovska*
La mia analisi sulle prime crepe nella NATO è stata pubblicata con un leggero ritardo, sufficiente per diventare obsoleta. Avevo segnalato i due referendum proposti in Slovenia – uno sulla spesa militare e l’altro sull’adesione all’Alleanza – quando la situazione è improvvisamente cambiata.
Con sorpresa di chi non conosce bene la politica di questo piccolo paese, il parlamento sloveno ha annullato la decisione sul primo referendum, proposto dal partner di coalizione Levica, per motivi procedurali: la domanda referendaria non era stata formulata correttamente!
Questo ha dato al Primo Ministro Robert Golob il pretesto perfetto per ritirare la sua stessa proposta frettolosa ed emotiva di un secondo referendum (che chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli a rimanere o uscire dalla NATO).
Sembra che le speranze di un vero dibattito in qualsiasi paese sulla richiesta insensata, o meglio suicida, della NATO di destinare il 5% del PIL a scopi militari si siano dissolte. Come dice il vecchio adagio latino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus (Le montagne partoriscono e nasce un ridicolo topolino).
I colleghi sloveni che ho consultato sostengono che la saga del referendum non è finita, poiché i proponenti potrebbero ancora “correggere” la domanda e chiederne uno nuovo. Tuttavia, alcuni osservatori realistici fanno notare che si tratterebbe di un referendum consultivo, cioè non vincolante, il che significa che, anche se generasse un dibattito pubblico, rimarrebbe solo una tempesta in un bicchiere d’acqua – senza alcun effetto legale o politico concreto.
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Riceveranno gli europei una visita del “signor Oreshnik"?
di Alessandra Ciattini
Le guerre odierne non sono conflitti isolati, ma manifestazioni di uno scontro globale per la futura spartizione del potere mondiale. Mentre Trump prepara un nuovo fronte in Estremo Oriente, gli analisti mettono in guardia l’Occidente e suoi alleati
Le guerre, cui assistiamo, non sono più il frutto di una guerra a pezzi, ma le manifestazioni di un conflitto globale, il cui risultato sarà una diversa spartizione del mondo. Il pacificatore Trump ha cambiato idea e sembra voler continuare ad appoggiare l’Ucraina, per poi aprire un fronte nell’Estremo Oriente. Due noti analisti statunitensi si chiedono se gli Usa e gli europei sono in grado di continuare su questa strada e se non hanno sottovalutato le capacità militari e politiche dei loro avversari. Se l’Occidente collettivo non riconoscerà la sua sconfitta, se non negozierà veramente con la Russia, se la Germania metterà in pratica i suoi piani deliranti, è probabile che prima o poi riceveremo una visita non gradita dell’unico missile di medio raggio supersonico non intercettabile: Oreshnik.
Purtroppo, sembra sia chiaro ormai che non siamo di fronte a una guerra a pezzi, come sosteneva il papa recentemente scomparso, ma a una guerra globale, giacché i diversi conflitti oggi attivi nel mondo (e ogni giorno ce n’è uno nuovo) sono tra loro in stretta connessione e riguardano la lotta del blocco dominante per mantenere il suo dominio, mentre altri blocchi si stanno costituendo e indipendizzando, portando avanti i loro progetti.
Dinanzi a questo scenario di minacce, di ricatti, di ultimatum lanciati soprattutto dagli Usa e da alcuni Paesi dell’Europa (come, per esempio, il trasferimento di alcune B61-12 nel Regno Unito da parte degli Usa), mi sembra opportuno ragionare per cercare di capire quanto ci sia di realistico dietro tutto ciò. E lo farò riportando i testi sintetici di due interviste assai interessanti, la prima a Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence dei marines statunitensi ed ex ispettore delle Nazioni Unite per le armi, la seconda a Larry Johnson, ex analista di intelligence della Cia. Insomma, due veri amerikani.
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Marx e la società comunitaria
di John Bellamy Foster
In questo studio, John Bellamy Foster entra nel vivo degli scritti di Marx sulle società comunitarie, un aspetto spesso trascurato dell'opera marxiana, nonostante la sua importanza per il progetto socialista. Collegando gli studi di Marx all'antropologia, alla storia e all'etnologia, J.B. Foster fa luce sulla centralità del comunitarismo nella critica generale di Marx alle società di classe
«In definitiva, il comunismo è l'unica cosa importante del pensiero di [Karl] Marx», osservava nel 1983 il teorico politico ungherese R. N. Berki.[1] Anche se si trattava di un'esagerazione, è innegabile che l'ampia concezione di Marx della società comunitaria/comunismo costituisse la base della sua intera critica della società divisa in classi e della sua visione di un futuro sostenibile per l'umanità. Tuttavia, ci sono stati pochi tentativi di affrontare sistematicamente lo sviluppo di questo aspetto del pensiero di Marx, così come è emerso nel corso della sua vita, a causa della complessità del suo approccio alla questione della produzione comunitaria nella storia, e delle sfide filosofiche, antropologiche e politico-economiche che questo ha presentato fino ai nostri giorni. Tuttavia, l'approccio di Marx alla società comunitaria è di reale importanza non solo per comprendere complessivamente il suo pensiero, ma anche per aiutare l'umanità a superare la gabbia d'acciaio della società capitalista. Oltre a presentare un'antropologia filosofica del comunismo, Marx ha approfondito la storia e l'etnologia delle attuali formazioni sociali comunitarie. Ciò ha portato a indagini concrete sulla produzione e sullo scambio comunitari. Tutto ciò ha contribuito alla sua concezione del comunismo del futuro come società di produttori associati.[2]
Nel nostro tempo, la produzione e lo scambio comunitari e gli elementi di uno Stato comunitario sono stati sviluppati, con diversi gradi di successo, in un certo numero di società socialiste successive alle rivoluzioni, in particolare in Unione Sovietica, Cina, Cuba, Venezuela e altrove nel mondo. La comprensione di Marx della storia, della filosofia, dell'antropologia e dell'economia politica della società comunitaria/collettiva è quindi un'importante fonte di intuizione e di visione, non solo per quanto riguarda il passato, ma anche per il presente e il futuro.
L'ontologia sociale della produzione comunitaria
Marx fu, fin dalla prima età, un prodotto dell'Illuminismo radicale, influenzato in questo senso sia dal padre, Heinrich Marx, sia dal suo mentore e futuro suocero, Ludwig von Westphalen.
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Pubblicità dell'indicibile*
di Nicola Licciardello
Per mesi non sono intervenuto su “Sinistra in Rete”, pur continuandola a leggere, per le troppe cose in sospeso: la morte di papa Francesco e l’elezione del nuovo, Trump in Usa e Ursula II in Europa. Il loro avvento costituisce un salto d’epoca: Carlos Xavier Blanco non smentisce l’estremo trans-umanesimo di Franco Berardi Bifo, il quale pensa i comandi dell’intera società delegati alla AI bellica, la quale mira all’annientamento umano - logica soluzione al caos politico.
Scrive Xavier Blanco: “Il popolo viene privato di tutto ciò che aveva guadagnato in due secoli di barricate, rivoluzioni, sofferenze e abnegazione. Privato di un’assistenza sanitaria e di un’educazione di qualità. Privato della capacità di sposarsi e procreare. Privato della capacità di possedere una casa. Delocalizzazione e terziarizzazione dell’economia europea cancellano il proletariato. Emerge un sottoproletariato di migranti, indifesi e disuniti (...) in via d’annientamento la classe media: con il capitalismo della sorveglianza, non essendo più necessaria all’elite, scende alla base della piramide. Nel 99% della popolazione, cioè fra i poveri, le differenze saranno marcate a livello animale: poter mangiare o no, essere una cosa o meno, esser sacrificabile. Il modello Auschwitz-Hiroshima si sta rinnovando a Gaza”1.
Il punto zero però non arriva, si trascina: perché ciò che è iniziato non si compie ora, subito? La sociologia, e la fisica classica direbbero per la resilienza di controspinte, resistenze, forze e interessi di segno opposto. Diciamo anche per la non calcolabile resistenza umana.
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Perché non ha (mai) senso parlare di un'Italia "con o senza l'Europa"
di Andrea Zhok
Due considerazioni di passaggio sul tema dei rapporti tra Italia e UE.
1) Spesso si tende a opporre due immagini astratte, da un lato l'Europa vista come coincidente con l'UE, dall'altra l'immagine dell'Italia, fragile fuscello affidato ai marosi della politica internazionale e dell'economia dei Big Players.
Una volta che il discorso prende questa piega è facile chiedersi retoricamente: dove potrà mai andare l'Italia da sola, come se giocassimo la partita Italia-Resto del Mondo.
Questo visualizzazione è completamente fuorviante.
Non ha mai senso parlare di un'Italia "con o senza l'Europa".
Forme di trattati di cooperazione europea ci sono sempre stati, da quando l'Italia esiste come stato unitario.
Il problema non è rappresentato dai trattati europei o internazionali in generale, ma dalle specifiche caratteristiche del trattato di Maastricht (e poi di Lisbona), con l'istituzione di un modello di relazioni assai specifico, votato a politiche neoliberali, mercantiliste, rivolte a massimizzare l'export a scapito del mercato interno, inteso a indebolire le capacità autoorganizzative delle istituzioni nazionali nel fornire servizi di interesse pubblico, punitivo nei confronti delle industrie di stato e premiale verso le operazioni di privatizzazione.
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Vincenzo Costa: "Io ho paura della sinistra"
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Piccole Note: Il cyberattacco in Libano e l'attacco Nato alla Russia
Giorgio Agamben: La fine del Giudaismo
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
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Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
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Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto