Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

antropocenejpg

Il marxismo ecologico nell'Antropocene

Xu Tao e Lv Jiayi intervistano John Bellamy Foster

MR ott25 1.jpgIn questa intervista con Xu Tao e Lv Jiayi, John Bellamy Foster discute la storia e l'attualità del marxismo ecologico. Esplora le origini del termine Antropocene, il concetto di decrescita, l'incidenza della teoria della frattura metabolica e le questioni all'avanguardia che oggi devono affrontare i giovani studiosi della decrescita.

* * * *

Xu Tao e Lv Jiayi: Lei ha una grande influenza nell'ambito del marxismo ecologico. I suoi testi sono punti di riferimento per i ricercatori marxisti di tutto il mondo. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, le sue prime ricerche si concentravano sull'economia politica marxista e sulla teoria dello sviluppo capitalistico, in particolare sulla teoria del capitale monopolistico di Paul M. Sweezy e Paul A. Baran. Cosa l’ha portato a spostare il focus della sua ricerca sul marxismo ecologico? Ha ancora ulteriori interessi e ricerche nell'ambito dell'economia politica marxista attuale?

John Bellamy Foster: Avete ragione, il mio lavoro si è concentrato sempre più sull'ecologia, anche se questo cambiamento è stato più un'aggiunta alla mia precedente ricerca in economia politica che un vero e proprio riorientamento. Sono stato attratto dalla questione ecologica in seguito alla rilevazione che il capitalismo stava generando una crisi ecologica planetaria radicata nel sistema di accumulazione classista, e che stava mettendo sempre più in pericolo l'intera umanità. Ma, allo stesso tempo, ho continuato a pubblicare importanti lavori di economia politica. L'economia politica e l'ecologia non sono questioni particolarmente diverse. La critica di Marx all'economia politica del capitale è fondamentale per tutta l'analisi ecologica marxista, e la sua critica ecologica – ora nota come teoria della frattura metabolica – è determinante per la nostra comprensione dell'attuale stagnazione economica. A mio avviso, non possono essere separate, anche se spesso dobbiamo farlo per motivi di analisi. Piuttosto, costituiscono aspetti diversi della crisi materiale del nostro tempo.

Per molti versi, gran parte dell'analisi economica associata alla rivista Monthly Review, che affronta il rapporto tra stagnazione ed esplosione finanziaria - Stagnation and the Financial Explosion, è il titolo del libro di Harry Magdoff e Paul M. Sweezy (1986) - è stata ormai ampiamente accettata, dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2010. Ma poiché questi problemi sono chiaramente endemici all'accumulazione sottomessa al capitale finanziario monopolistico, il sistema stesso non ha risposte e cerca costantemente di distogliere l'attenzione dalla contraddizione fondamentale: il capitale stesso. Attualmente, le questioni del militarismo, dell'imperialismo e dell'ambiente planetario, che insieme rappresentano una crisi esistenziale per l'umanità, hanno spesso la precedenza sull'analisi diretta della crisi economica, sebbene siano tutte intrinsecamente correlate.

 

XT e LJ: All’interno degli studi del marxismo ecologico, molti studiosi, tra cui lei stesso, sostengono che l'umanità stia vivendo nell'epoca dell'Antropocene. Potrebbe approfondire l'origine e lo sviluppo del concetto di Antropocene? In che modo questo concetto ci aiuta a comprendere la crisi ecologica capitalista? Inoltre, molti studiosi (come Andreas Malm) sostengono che il concetto di Antropocene implichi una logica narrativa dominata interamente dalle scienze naturali, che attribuisce le questioni ecologiche all'umanità nel suo complesso, oscurando così le posizioni politiche e ideologiche. Pertanto, essi preferiscono il termine “Capitalocene” (ovvero l'idea che il capitale stia distruggendo l'ambiente ecologico). Come valuta questa prospettiva?

JBF: Il termine Antropocene ha in realtà una lunga storia. La parola è apparsa per la prima volta in inglese già nel 1973 nella traduzione dell'articolo “The Anthropogenic System (Period)” di E. V. Shantser, presente nella The Great Soviet Encyclopedia. Qui, “Antropocene” era usato come termine alternativo ad “Antropogene”, il nome che i sovietici avevano dato al periodo geologico ora chiamato Quaternario (che comprende il Pleistocene e l'Olocene). Questo uso fu introdotto nel 1922 dal geologo sovietico Aleksei Petrovitch Pavlov, e influenzò Vladimir I. Vernadskij, autore di Biosfera (1926). L’interpretazione della biosfera da parte di Vernadskij fornì una proto-analisi del sistema terrestre. L'introduzione del concetto di “Antropogene” o “Antropocene” in questa fase aveva lo scopo di suggerire che in qualche modo l'umanità stava influenzando la geologia e il sistema ambientale dell'intero pianeta. Sia Pavlov che Vernadskij sottolinearono con forza il ruolo dominante dei fattori antropogenici nella biosfera.

Certamente, Pavlov e Vernadskij hanno introdotto questo cambiamento nel modo in cui guardiamo al rapporto dell'uomo con i cicli biogeochimici della Terra nel contesto di un periodo geologico, anziché di un'epoca geologica più breve, collegando così il loro concetto all'intero periodo in cui sono esistiti gli esseri umani e i loro antenati ominidi. Inoltre, il loro quadro di riferimento era collegato al concetto di biosfera. Risale all’inizio di questo secolo l'individuazione che i fattori antropogenici – che ora superano quelli non antropogenici - siano la forza principale dei cambiamenti del Sistema Terra. Nell'interpretazione scientifica più aggiornata, l’Antropocene è visto come il successore dell’Olocene ed è contemporaneo alla Grande Accelerazione che dagli anni ’50 del secolo scorso - attraverso il consumo globale di materiali e risorse - sta influenzando l’intero metabolismo del Sistema Terra.

Tuttavia, nonostante la nostra comprensione geologica/ambientale sia cresciuta, sarebbe un errore che per meri motivi tecnici si sottovalutassero i precursori del pensiero olistico-dialettico precedente alla comparsa dei concetti contemporanei di Sistema Terra e Antropocene. Nel 1911, E. Ray Lankester, il più importante zoologo britannico della fine del XIX secolo, allievo di Charles Darwin e Thomas Huxley e amico intimo di Karl Marx, pubblicò il suo Kingdom of Man. In quest'opera, fu avanzata un'argomentazione simile a quella di Friederich Engels nel suo Dialettica della natura, secondo cui gli esseri umani avevano acquisito un potere in relazione alla terra, che avrebbe potuto portare alla distruzione della loro stessa civiltà - metaforicamente definita come “vendetta” della natura - se non si fossero mantenute le condizioni ambientali. (Il conflitto tra il dominio dell'uomo sulla natura e la “vendetta della natura” era simbolicamente raffigurato sulla copertina di The Kingdom of Man. Sotto il titolo c'era un'immagine della prima specie di parassita del sangue tripanosoma [genere Trypanosoma] scoperta nel 1843 e riscoperta da Lankester nel 1871. In Africa, una specie di parassita tripanosoma trasportato dalla mosca tse-tse era responsabile della morte di un numero imprecisato di persone a causa della malattia del sonno, dovuta agli effetti ambientali del capitalismo e del colonialismo, che per Lankester simboleggiavano la “vendetta della natura”. Per Lankester, il principale nemico della natura era il capitale. Egli sosteneva, come Marx ed Engels prima di lui, che solo un cambiamento nelle relazioni sociali e scientifiche avrebbe potuto impedire il degrado ambientale globale e le epidemie che minacciavano la vita, compresa quella umana.

Fu Nikolaj Bucharin, una delle figure di spicco della Rivoluzione d'Ottobre, a dichiarare alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Storia della Scienza e della Tecnologia, tenuta a Londra nel 1931, che «vivendo e lavorando nella biosfera, l'uomo sociale ha radicalmente rimodellato la superficie del pianeta». Bucharin, seguendo Marx, vide questo fenomeno come un cambiamento epocale nel «metabolismo» dell'umanità e della natura. Tuttavia, il concetto unificante di biosfera fu in gran parte escluso dal pensiero occidentale, sebbene fosse presente in modo piuttosto surrettizio negli ambienti scientifici, fino a quando, nell'aprile del 1970, apparve sulla copertina di Scientific American in occasione della prima Giornata della Terra. Non è un caso che l'autore dell'articolo di copertina di quel numero fosse il famoso ecologista di Yale, G. Evelyn Hutchinson, ex allievo dei principali biologi marxisti britannici: Joseph Needham (l'autore di Scienza e civiltà in Cina) e J. B. S. Haldane. Ed è a un altro importante biologo marxista britannico, Lancelot Hogben, che Hutchinson deve la sua adesione all’ecologia. Sia Needham che Hogben erano presenti al discorso di Bucharin a Londra. Per anni, l'intera discussione sulla biosfera fu associata al pensiero sovietico e marxista.

Ciò che cambiò questa situazione alla fine degli anni '50 e negli anni '60 non fu solo la crescita del movimento ambientalista, ma anche il rapido sviluppo della scienza del clima, prima nell'Unione Sovietica e poi negli Stati Uniti. Ciò portò alla scoperta dell'accelerazione del riscaldamento globale, sollevata per la prima volta da Mikhail Budyko nell'Unione Sovietica. Negli anni '70 e '80, lo sviluppo della climatologia, insieme al concetto di biosfera, ha portato alla nascita dell'analisi del Sistema Terra. Da ciò è nato l'attuale concetto di Antropocene, espresso da Paul Crutzen ed Eugene Stoermer – e successivamente ripreso dall'Anthropocene Working Group - che indica un'epoca geologica completamente nuova, in rottura con l'Olocene degli ultimi 11.700 anni, in cui le forze antropogeniche sono ora i principali fattori del cambiamento del Sistema Terra.

La storia pregressa del concetto di Antropogene/Antropocene nella scienza sovietica, è minimizzata nella visione occidentale dominante. La tesi che il termine sia stato coniato per la prima volta negli anni '80 da Stoermer (in un modo in gran parte privo di significato scientifico sistematico) e successivamente da Crutzen, è presentata come la storia ufficiale, se non altro perché il concetto poteva essere presentato come americano.

Ma, a prescindere dall’origine del concetto di Antropocene, l’adozione di questo termine - direttamente associato alla crisi ecologica planetaria - riveste un'enorme importanza dal punto di vista scientifico, poiché evidenzia che la società umana, grazie ai progressi economici e tecnologici, ha la responsabilità di preservare il pianeta come luogo di vita per l'umanità (e per innumerevoli altre specie) e che il mancato rispetto di tale responsabilità comporterebbe (metaforicamente) la “vendetta della natura”.

Il termine Capitalocene è stato coniato da Malm da un punto di vista socio-scientifico. Egli sostiene che attribuire la nuova era geologica agli esseri umani (attraverso l'uso di anthro) sminuisce l'importanza della causa principale del cambiamento ambientale planetario: il capitalismo come specifico modo storico di produzione. Tuttavia, ciò presenta una serie di problemi. Il concetto naturalistico di Antropocene non impedisce in alcun modo un'analisi socio-scientifica di questo fenomeno in termini di ruolo del capitalismo. Inoltre, tentare di imporre il concetto di Capitalocene agli scienziati naturali il cui ambito non è quello delle scienze sociali - senza una reale comprensione della scala temporale geologica - è un tentativo piuttosto arrogante di ignorare la complessità del problema dal punto di vista delle scienze naturali.

Gli scienziati naturali che sostenevano la nozione dell'Epoca dell'Antropocene stavano già compiendo una svolta rivoluzionaria motivata dalla necessità di affrontare la crisi ecologica planetaria. Mettere in discussione questa consapevolezza sulla base di una prospettiva ristretta delle scienze sociali, come se fosse l'unica questione in gioco, non ha fatto altro che rendere più difficile il loro compito. Alla fine ha prevalso la visione conservatrice e nel 2024 la Commissione Internazionale di Stratigrafia e l'Unione Internazionale delle Scienze Geologiche hanno respinto la proposta di designare l'Antropocene come nuova epoca geologica all'interno della Scala Temporale Geologica, una decisione che è stata, in parte, motivata da ragioni politiche. Inutile dire che questo non pone fine alla questione, ma crea un ulteriore ostacolo ai tentativi di sensibilizzare la popolazione mondiale sulla natura della trasformazione che ha avuto luogo nel rapporto dell'uomo con il sistema terrestre.

Nella teoria ecologica marxista, è necessario considerare la natura e la società come dialetticamente correlate, con la società umana come forma emergente all'interno del metabolismo universale della natura. Ciò significa che in base a questa correlazione, è un errore sussumere la descrizione naturalistica all’interno di una descrizione socio-scientifica focalizzata sul capitalismo, col rischio di perdere la natura dell'interazione dialettica. (Con la stessa logica, una prospettiva strettamente naturalistico-scientifica eliminerebbe l'essenziale aspetto sociale del problema e la natura stessa dell'interazione). Sebbene il capitalismo sia il principale responsabile del degrado del Sistema Terra, l'epoca dell'Antropocene persisterà anche all'interno di qualsiasi organizzazione socialista immaginabile, anche nel contesto di un rapporto più sostenibile con il pianeta. Nel momento in cui l’umanità diventa la forza principale nella trasformazione del Sistema Terra, questa condizione è irreversibile finché la società industriale continuerà su questa strada. Vivremo "sul filo del rasoio" e il rapporto sostenibile con il pianeta rimarrà una responsabilità fondamentale e una preoccupazione costante. L’unica questione riguardo a tutto ciò è come governiamo la nostra relazione con il pianeta ora e in futuro.

 

XT e LJ: All’interno del marxismo ecologico, il concetto di decrescita è stato ampiamente discusso. Lo studioso giapponese Kohei Saito è arrivato persino a sostenere che Marx, in ultima analisi, indichi la via verso un “comunismo della decrescita”. Che giudizio dà dei concetti di “decrescita” e di “comunismo della decrescita”? Costituiscono, secondo lei, un progresso negli studi sul marxismo ecologico?

JBF: Ho alcune riserve nei confronti del concetto di “comunismo della decrescita”, soprattutto per come viene sviluppato da Saito. Ci sono due questioni in gioco: da un lato, le tesi specifiche di Saito rispetto a Marx; dall’altro, il concetto generale di decrescita e, più nello specifico, quello di “comunismo della decrescita”.

Nel suo primo libro, L’ecosocialismo di Karl Marx (2016 [2023]), Saito aveva cercato di ampliare la tradizione della frattura metabolica (metabolic rift), sviluppata da diversi pensatori precedenti, tra cui il sottoscritto. Tale analisi aveva respinto l’accusa, avanzata da alcuni ecosocialisti della prima generazione, secondo cui Marx sarebbe stato un pensatore “prometeico” o un produttivista estremo. (Va notato che una simile interpretazione del prometeismo come mero industrialismo ha in realtà poco a che vedere con il mito originario di Prometeo, soprattutto come viene rappresentato da Eschilo nel Prometeo incatenato). Da questo punto di vista, Saito ha offerto contributi rilevanti. Tuttavia, nei suoi due libri più recenti - Marx in the Anthropocene e Il Capitale nell’Antropocene (quest’ultimo tradotto in inglese con il titolo Slow Down) - Saito rovescia la sua posizione, arrivando a sostenere che Marx sia stato un pensatore prometeico o iper-industrialista sino alla fine degli anni ’50 del XIX secolo. Secondo Saito, perfino al tempo della redazione del Capitale Marx sarebbe stato un “ecosocialista di transizione”, ancora legato all’idea della necessità della crescita economica (almeno sotto il socialismo), e perciò ancora in gran parte un produttivista. Solo negli ultimi quindici anni della sua vita, nell’interpretazione di Saito, Marx avrebbe abbandonato definitivamente ogni forma di produttivismo, trasformandosi in un “comunista della decrescita” contrario all’espansione delle forze produttive e alla crescita economica.

Così, nelle sue opere più recenti, Saito - in contraddizione con la propria analisi precedente - ci presenta un Marx “dalla barba nera” degli anni ’50 dell’Ottocento come un convinto prometeico, fautore dell’espansione della produzione come fine a se stessa; un Marx “dalla barba grigia” del Capitale del 1867 come un ecosocialista in transizione, consapevole della frattura metabolica ma ancora intriso di elementi prometeici; e infine un Marx “dalla barba bianca” degli ultimi anni, ormai trasformato in un “comunista della decrescita” che rifiuta ogni forma di crescita economica, sia con il capitalismo che con il socialismo.

Il problema è che entrambe le parti dell'argomentazione di Saito – la reintroduzione di Marx come un iper-industrialista prometeico per la gran parte della sua vita, e la descrizione della metamorfosi di Marx in un “comunista della decrescita” negli anni finali della vita – sono infondate. Non vi è alcuna prova - nonostante i richiami di Saito a G. A. Cohen - che Marx sia mai stato un produttivista estremo, nel senso di considerare l’espansione della produzione come fine ultimo dello sviluppo umano. E non esiste alcun elemento che dimostri che negli ultimi anni Marx si sia trasformato in un “comunista della decrescita”, tanto che Saito non è riuscito a trovare neppure una frase negli scritti di Marx che sostenga una simile tesi. Da un punto di vista testuale, l’argomentazione non ha alcun fondamento.

Le affermazioni che Saito interpreta come indizi di una prospettiva decrescista si riferiscono in realtà all’impegno di Marx, costante per tutta la vita, per uno sviluppo umano sostenibile, come la teoria ecologica marxista sottolinea da decenni. In questo senso, l’approccio di Marx era certamente ecologico. Tuttavia, la dicotomia concettuale tra crescita e decrescita, nel senso in cui la intendiamo oggi, era impensabile nella sua epoca: applicarla a Marx è dunque storicamente anacronistico. Marx visse agli albori della Rivoluzione industriale, non in un’economia sviluppata a livello mondiale come quella odierna; la maggior parte del mondo non era ancora industrializzata, e perfino in Inghilterra i trasporti locali avvenivano ancora in carrozza.

Sebbene personaggi come Engels o Lankester avvertissero dei rischi ambientali globali già verso la fine dell’Ottocento, nella loro mente questo non si traduceva nell'idea che il problema fosse la crescita economica in astratto, e la decrescita come soluzione non avrebbe certamente mai sfiorato i loro pensieri. Essi vedevano la contraddizione ecologica nella natura stessa del capitalismo, orientato al profitto immediato e perciò incapace di proteggere l’ambiente. Il problema, per loro, era quello dello sviluppo umano sostenibile.

Tuttavia, mettendo da parte l'affermazione di Saito secondo cui Marx era un “comunista della decrescita”, rimane la questione, molto attuale, dei concetti di “decrescita” e di “comunismo della decrescita”. Penso che il concetto di decrescita pianificata sia una prospettiva strategica necessaria nella critica al mondo distruttivo, diseguale e irrazionale del capitalismo monopolistico del Nord globale. Il consumo energetico pro capite negli Stati Uniti, ad esempio, è sessanta volte quello del Nepal. Se tutti i popoli del pianeta avessero l’impronta ecologica degli Stati Uniti, oggi servirebbero tre o quattro pianeti Terra per sostenere il sistema. Gli Stati Uniti e l’Europa sono responsabili della maggior parte delle emissioni storiche di anidride carbonica, e i loro livelli pro capite restano superiori a quelli della Cina, nonostante il loro ruolo nella produzione mondiale sia sempre meno centrale. Gli Stati Uniti sono inoltre il Paese più dipendente dall’automobile al mondo. Nel Nord globale domina un sistema che massimizza l’accumulazione di capitale per un'esigua minoranza, attraverso lo sfruttamento e l’espropriazione esercitati dalle multinazionali, mentre produce una vera e propria crisi di abitabilità per il pianeta. È evidente che tutto ciò richiede una rivoluzione ecologica nel XXI secolo.

In termini ecologici, ciò significa che i Paesi ricchi devono ridurre il proprio consumo energetico pro capite, mentre i Paesi più poveri devono poterlo aumentare, fino a raggiungere un equilibrio globale sostenibile. I Paesi ricchi del nucleo capitalistico sono anche i Paesi storicamente imperialisti, che continuano a espropriare surplus dal Sud globale a beneficio del Nord. Uno studio pubblicato nel luglio 2024 su Nature Communications da Jason Hickel e suoi collaboratori mostra che il lavoro nel Sud fornisce il 90% del contributo globale alla produzione, ricevendo in cambio solo il 21% del reddito mondiale. Questa disuguaglianza è il cuore stesso del sistema imperialista globale.

Ciò che è essenziale nel Nord globale non è soltanto la decrescita in senso negativo, quantitativo, ma una decrescita positiva: la costruzione di una società fondata sull’uguaglianza sostanziale e sulla sostenibilità ecologica. Ciò richiede un'attenzione particolare allo sviluppo qualitativo, alla ridistribuzione del reddito, della ricchezza e delle risorse, al soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali di tutta la popolazione, alla produzione finalizzata all'uso e non allo scambio, alla distribuzione razionale delle risorse, alla valorizzazione dei beni comuni e dei valori comunitari e così via. Affermare che i limiti alla crescita - o persino della decrescita - siano necessari nelle regioni più ricche, che più sprecano e sfruttano all’interno del capitalismo globale, non significa farne un principio assoluto, così come non significa trasformare in un principio assoluto la crescita economica stessa. Il principio guida dell’ecologia marxista è sempre lo sviluppo umano sostenibile. Inoltre, sarebbe errato affermare che i Paesi più poveri non di una crescita dei mezzi di produzione. Essere socialisti oggi significa battersi per una società fondata sull’uguaglianza sostanziale e sulla sostenibilità ecologica, in una prospettiva globale.

Una critica dettagliata delle tesi di Saito su tutti questi punti si trova nell’articolo di Brian Napoletano, Was Karl Marx a Degrowth Communist?, pubblicato nel numero di giugno 2024 di Monthly Review.

 

XT e LJ: Per i giovani studiosi che si occupano di marxismo ecologico, quali sono oggi i temi più innovativi e le direzioni di ricerca più promettenti? In quali aspetti il pensiero ecologico di Marx merita ancora di essere approfondito?

JBF: La vostra domanda implica una distinzione tra due piani: da un lato, la ricerca sul pensiero ecologico di Marx e sul marxismo classico in generale; dall’altro, lo sviluppo di queste analisi per affrontare la crisi ecologica attuale. Per quanto riguarda Marx, siamo ancora solo all’inizio: le risposte si trovano nella natura stessa del suo materialismo, che era ecologico fin dalle radici, ossia legato a una concezione materialista della natura da cui nacque anche la sua concezione materialista della storia. Il mancato riconoscimento del valore del suo materialismo, soprattutto nel marxismo occidentale che ha ridotto il materialismo marxiano a un insieme di formule economiche che escludono la natura, ha impoverito il pensiero marxista. A ciò si aggiunge il rifiuto, tipico del marxismo occidentale, della dialettica della natura propria del marxismo classico. Ho appena terminato di scrivere un libro, Breaking the Bonds of Fate: Epicurus and Marx (2025), nel quale riprendo un tema già trattato in Marx’s Ecology (2000): esplorare le radici del materialismo di Marx in una prospettiva più olistica. Da questa prospettiva, lo studio dello sviluppo del pensiero marxiano diventa un progetto imponente, che richiede un approfondimento teorico e un ritorno alle sue basi originarie.

Altri progetti che ho in mente - e che ho solo parzialmente perseguito - riguardano l'esplorazione dell'estetica e dell'ecologia di Marx, le basi ecologiche del suo anti-eurocentrismo, l’analisi della frattura metabolica in campi come l’epidemiologia, la teoria dell’imperialismo ecologico, e il rapporto tra ecologia e produzione comunitaria. È necessario prestare maggiore attenzione alla critica che Marx ha mosso per tutta la vita all'espropriazione della natura (legata all’analisi dell’espropriazione dei beni comuni) e alla concezione della dialettica della natura come naturalismo dialettico o ecologia dialettica. Il concetto marxista di teoria del lavoro nella cultura - cioè l’origine antropologica dell’essere umano - è intimamente connesso a una visione ecologica dell’origine dell’umanità, che va riscoperta e sviluppata. Il saggio di Engels Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia è, a questo proposito, fondamentale. Resta poi da approfondire il rapporto tra il marxismo classico e la teoria evoluzionistica. Un punto essenziale nello sviluppo della dialettica marxiana è la teoria dell’emergenza o dei livelli integrativi, cruciale per ogni prospettiva ecologica.

Nel cercare di comprendere la nostra situazione ecologica contemporanea attraverso gli strumenti e i metodi dell’ecologia marxiana, dobbiamo essere chiari sui nostri stessi metodi, consentendoci al tempo stesso di attingere al meglio ciò che la scienza e la cultura possono offrire nella ricerca di soluzioni sostenibili. La critica di Marx all’economia politica del capitale rimane fondamentale, ma deve essere integrata con la sua critica ecologica (come nella teoria della frattura metabolica) se vogliamo giungere al cuore del problema ecologico contemporaneo. Dobbiamo inoltre rivolgere la nostra attenzione alla lunga storia del marxismo ecologico successiva a Marx, che ho esplorato nel mio libro The Return of Nature (2020) - anche se su questo punto resta ancora molto da fare. L’idea, elaborata per la prima volta da Brett Clark e Richard York nel 2005, secondo cui l’intero problema del metabolismo del carbonio - e quindi del cambiamento climatico - può essere compreso, nella sua essenza, attraverso la teoria marxiana della frattura metabolica, ha aperto un campo di critica del capitalismo contemporaneo che continua ad ampliarsi in molte direzioni.

La dialettica della natura, che sottolinea l’interrelazione organica di tutte le cose, è fondamentale nella prospettiva marxiana e richiede un’applicazione continua. Ad esempio, è un errore cadere nella trappola riduzionista, ossia considerare l’attuale crisi ecologica planetaria solo in termini di cambiamento climatico, per quanto quest’ultimo possa sembrare onnicomprensivo, poiché è fondamentale riconoscere che abbiamo già superato, o stiamo per superare, la maggior parte degli altri limiti planetari. Tutti i problemi ecologici odierni devono essere affrontati, comprese le condizioni della sopravvivenza umana (e della sopravvivenza delle specie viventi in generale), insieme alle condizioni del vivere bene sulla Terra. L’ambito di ricerca più importante, a mio avviso, è quello della civiltà ecologica, ossia le condizioni di uno sviluppo umano sostenibile oltre il capitalismo. Stiamo lottando per generare un’intera nuova era dello sviluppo umano. Il marxismo ecologico è centrale in questo processo.

 

L'ecologia e le molteplici crisi del capitalismo

XT e LJ: L'espansione infinita della produzione capitalistica ha distrutto la capacità di carico dell'ambiente naturale, causando una crisi ecologica globale. Lei ha ripristinato il carattere originale del pensiero ecologico marxista con una grande quantità di prove concrete, in particolare la sua teoria della “frattura metabolica”, che ha ottenuto ampio riconoscimento nella comunità accademica. In che modo la teoria della frattura metabolica rivela la relazione tra il sistema capitalista e la crisi ambientale? Ha avuto nuove riflessioni sulla teoria della “frattura metabolica” negli ultimi anni?

JBF: Non considero la teoria della frattura metabolica come una mia teoria. Il mio articolo del 1999 in cui ho introdotto l'argomento era intitolato “La teoria della frattura metabolica di Marx”. L'ho sempre considerata fondamentalmente una teoria di Marx, il lato ecologico della sua teoria dell'alienazione. In numerose opere ho cercato di sviluppare ciò che Marx nella sua opera definiva una “esposizione genetica”, che è stata poi elaborata in vari modi e applicata a problemi concreti. Il concetto stesso di frattura metabolica ha dei limiti. L'ecologia marxiana ha una base più ampia in una comprensione materialista e dialettica del rapporto dell'uomo con la natura e la società che non può essere facilmente compresa nella sua interezza nella teoria della frattura metabolica in quanto tale, che riguarda principalmente la questione della crisi ecologica. Pertanto, l'ecologia marxiana nel suo complesso deve essere vista in termini di questioni più ampie relative al metabolismo dell'umanità e della natura e al materialismo organico di Marx, che permea tutto il suo pensiero.

La costruzione dialettica della teoria della frattura metabolica di Marx non è stata pienamente sviluppata in Marx's Ecology, sebbene fosse implicita in essa. È stata approfondita in alcuni dei miei lavori successivi, ad esempio The Return of Nature (2020), The Robbery of Nature (con Brett Clark, 2020), Capitalism in the Anthropocene (2022) e The Dialectis of Ecology (2024). È importante riconoscere che Marx aveva formulato tre concetti: "il metabolismo universale della natura (talvolta indicato anche come ”metabolismo naturale“), il ”metabolismo sociale" e la frattura metabolica (o «la frattura irreparabile nel processo interdipendente del metabolismo sociale, un metabolismo prescritto dalle leggi naturali della vita stessa»). Il metabolismo sociale, che Marx equiparava al processo lavorativo e produttivo, è il lato ecologico della produzione, il rapporto specificamente umano con il metabolismo universale della natura. La frattura metabolica si verifica quando un metabolismo sociale alienato rompe il legame umano con il metabolismo universale della natura in modo tale da creare una crisi ecologica per la riproduzione sociale. Il concetto di frattura metabolica continua ad essere sviluppato man mano che approfondiamo vari aspetti dell'analisi di Marx. Ad esempio, ora sappiamo che la teoria di Marx in questo ambito è stata influenzata dal lavoro del suo amico Roland Daniels, Mikrokosmos, uno studio rimasto inedito fino alla fine degli anni 80 del secolo scorso. Negli ultimi anni è stata esplorata la connessione che Marx stesso, ispirato da Engels, ha tracciato tra la frattura metabolica e le epidemie periodiche nel capitalismo. Pensatori come Rob Wallace nel suo Dead Epidemiologists (2020) e Sean Creaven nel suo Contagion Capitalism (2024), hanno applicato l'analisi della frattura metabolica al COVID-19.

È vero, come voi osservate, che la crisi ecologica contemporanea può essere vista in termini di capacità di carico [ecologico], ma esprimerla semplicemente in questo modo significa ridurre l'intero problema a una questione di scala. Tuttavia, non è solo la scala a essere coinvolta, ma anche il sistema, che è più direttamente correlato alla questione della frattura metabolica. Il superamento dei limiti planetari non è quindi solo una questione di scala di produzione, ma anche di modalità di organizzazione della produzione, delle particolari tecnologie utilizzate, dei fini della produzione e così via. La teoria della frattura metabolica si occupa quindi sia del sistema che della scala, il che solleva tutta una serie di questioni qualitative. Ad esempio, la produzione di sostanze tossiche non è solo una questione di scala, ma riguarda la produzione stessa di sostanze tossiche.

Esistono diversi modi in cui l'irrazionalità intrinseca del modo di produzione capitalistico, in particolare nella sua fase monopolistica, genera, nei cicli biogeochimici del pianeta, rotture che non sono una semplice questione di capacità di carico, ma sono legate alla struttura stessa della produzione. Nel suo tentativo di espandersi in forme sempre più irrazionali sotto il capitalismo monopolistico globale, il capitale intensifica il problema ecologico. L'analisi della frattura metabolica ci permette quindi di affrontare tutta la complessità del problema ecologico, senza ridurre tutto a una nozione di capacità di carico, come se ciò che produciamo, come produciamo e per chi produciamo non fossero anch'essi elementi essenziali del problema.

 

XT e LJ: Oltre alla crisi ecologica, lei pensa che il capitalismo stia affrontando altre crisi? (Ad esempio, crisi economiche e finanziarie, crisi di guerre imperialiste, crisi culturali e ideologiche e così via).

JBF: La crisi produttiva e finanziaria è endemica al capitalismo in quanto sistema di sfruttamento classista. Anche l'imperialismo è endemico al capitalismo e, nella sua fase matura e monopolistica, diventa totalizzante, il che significa che non abbiamo solo uno scambio economico (ed ecologico) globalmente ineguale, ma anche una costante tendenza alla guerra globale, che oggi è accentuata dal declino degli Stati Uniti come potenza egemonica globale del sistema capitalista. L'ideologia riguarda principalmente il modo in cui una classe dominante giustifica il proprio dominio e il modo in cui le altre classi resistono - nel regno delle idee. La cultura nasce da forme di parentela e comunità umane e dal modo in cui i valori d'uso sono generati e assorbiti nella società, il che influenza le "strutture del sentire" (termine usato da Raymond Williams), caratterizzando diverse epoche storiche. Il conflitto ideologico e culturale è intrinseco a un sistema capitalistico globale classista e all'imperialismo radicato nelle disuguaglianze e nella conseguente appropriazione globale del valore.

Tutte queste contraddizioni del capitalismo alimentano dialetticamente la crisi ecologica, che ha portato il livello della crisi capitalistica a una scala planetaria. Lo storico marxista britannico E. P. Thompson vedeva nella preparazione alla guerra nucleare e nella distruzione ambientale una nuova realtà storica: “lo sterminismo, l'ultimo stadio della civiltà”. Se modifichiamo la frase di Thompson e ci riferiamo allo "sterminismo come ultimo stadio della civiltà capitalista", arriviamo alla realtà dell'attuale crisi planetaria generata dal rapporto sociale del capitale. Tutto ciò rappresenta l'irrazionalità fondamentale della nostra epoca. Tutto nel sistema capitalista monopolistico globalizzato di oggi procede verso lo sterminismo ed è evidente nel genocidio che Israele (e gli Stati Uniti) stanno imponendo alla popolazione palestinese di Gaza. Questo perché l'ostacolo ad affrontare la crisi ecologica, insieme a tutte le altre crisi del capitalismo/imperialismo, è l'ostacolo del capitale stesso. L'accumulazione di capitale senza restrizioni secondo la sua logica interna, si è trasformata nell'accumulazione di catastrofi su scala planetaria. Tutte le soluzioni, quindi, indicano la necessità di andare contro la logica del capitale.

L'approccio dialettico implica una lotta continua contro il riduzionismo, affrontando la questione della "totalità". Se il capitalismo minaccia di trascinare il mondo intero nell'ecologia negativa dello sterminismo, ciò è in ultima analisi il prodotto del sistema di sfruttamento sociale e di espropriazione incentrato sulle classi che costituisce il modo stesso di accumulazione del capitale. Lottare contro le oppressioni a tutti i livelli e le crisi che esse generano è parte integrante della lotta contro lo sterminismo capitalista. Non è un caso che il fascismo sia ritornato nella maggior parte delle società capitalistiche. Monthly Review si occupa continuamente della crisi economica, della crisi dello Stato, dell'imperialismo, della guerra e delle oppressioni basate sull'identità razziale e di genere (e transgender). Ciò significa combattere le imposizioni culturali/ideologiche provenienti dall'alto, i movimenti reazionari e, soprattutto, il capitale stesso.

 

XT e LJ: Il capitalismo digitale, nato dalla combinazione di capitale e tecnologia digitale, è diventato una nuova forma di sfruttamento capitalistico contemporaneo. Anche la ricerca accademica sul capitalismo digitale è in crescita. Pensa che il capitalismo digitale causerà problemi ecologici? Che il capitalismo digitale dovrà affrontare crisi ecologiche?

JBF: Il concetto di “capitalismo digitale” copre ormai un ampio spettro. La tecnologia digitale è, ovviamente, qui per restare. Di per sé non è certo una cosa negativa, ma rappresenta l'espansione delle capacità umane. Negli anni '50, Sweezy, economista marxista e uno dei fondatori di Monthly Review, scrisse un rapporto in cui affermava che sarebbe arrivato un giorno in cui sarebbe stato normale per le persone andare in giro con un computer in tasca. Il problema non è la tecnologia in sé, ma il modo in cui essa è modellata dalle relazioni sociali. Le relazioni sociali nel capitalismo sono relazioni di classe finalizzate all'accumulazione di capitale e all'arricchimento della classe capitalista come unico fine della società. In tali circostanze, lo sviluppo e l'uso della tecnologia, e persino le limitazioni alla tecnologia imposte dalla società, sono in gran parte determinati dalle relazioni di classe dell'accumulazione.

Il capitalismo digitale – che include ovviamente il capitalismo della sorveglianza (un termine introdotto per la prima volta da Monthly Review), il capitalismo dell'intelligenza artificiale, il capitalismo dei droni e così via – pone seri problemi, in gran parte dovuti al modo in cui la tecnologia viene utilizzata nella guerra di classe del capitale contro i lavoratori. In effetti, la parola chiave in tutto questo è capitalismo. Non credo che sia possibile definire correttamente alcuna fase o stadio del capitalismo in termini di tecnologia, anche se questa gioca necessariamente un ruolo importante. Piuttosto, deve essere definito nei termini della fase più recente e dominante dell'accumulazione, concentrandosi sulle relazioni tra le classi sociali. Altrimenti è facile cadere nella trappola di una specie di determinismo tecnologico.

È fondamentale esaminare attentamente l'influenza della tecnologia sulle relazioni sociali, non la tecnologia in sé. Per quanto riguarda la tecnologia e la crisi ambientale, bisogna evitare ogni tipo di feticismo. È vero che la rivoluzione digitale pone nuovi problemi ecologici: basti pensare alle quantità astronomiche di energia necessarie per i nuovi complessi informatici di grandi dimensioni. Tuttavia, la vera contraddizione non è la modalità tecnologiche, che ovviamente è influenzato dal sistema, ma piuttosto la natura delle relazioni sociali del capitalismo stesso. La tecnologia digitale potrebbe rappresentare un vantaggio per la società. Ma nel contesto delle relazioni sociali di produzione esistenti, essa è intrappolata nelle contraddizioni del sistema e nelle sue tendenze sfruttatrici, soggette a crisi, e tendenze sterministe che ora coinvolgono l'intero pianeta. La tecnologia digitale viene utilizzata principalmente dal sistema di accumulazione per dividere e controllare ulteriormente le persone, piuttosto che per soddisfare le esigenze individuali, sociali e ambientali. Di conseguenza, sta accentuando tutte le contraddizioni del capitalismo, comprese quelle ecologiche. Un articolo molto profetico su questo argomento, intitolato “Imperialism in the Silicon Age”, è stato scritto più di quarant'anni fa da A. Sivanandan nel numero di luglio-agosto 1980 di Monthly Review.

 

XT e LJ: Molti studiosi, tra cui lei stesso, ritengono che i paesi capitalisti sfruttino e controllino le risorse ecologiche globali attraverso mezzi politici, economici e militari, causando degrado ecologico e disuguaglianza, dando così origine all'imperialismo ecologico. In che modo l'imperialismo ecologico, come nuova forma di imperialismo, si collega e si differenzia dall'imperialismo classico? Inoltre, l'imperialismo ecologico ha dei limiti e potrebbe andare incontro a crisi?

JBF: L'imperialismo ecologico non è una nuova forma di imperialismo, ma il fondamento di tutto l'imperialismo, che rende possibile l'imperialismo economico e sempre lo accompagna. Fin dall'inizio, il capitalismo si è sviluppato in gran parte grazie al saccheggio coloniale delle risorse e della manodopera delle periferie, un processo condotto con la forza, senza alcuna finzione di scambio equo. Tale espropriazione è l'espropriazione diretta delle risorse, compresa l'espropriazione della terra e dei corpi. Secondo Marx, non si trattava di scambio, ma di rapina. Egli sosteneva che la rivoluzione industriale fosse stata preceduta da un processo di “espropriazione originaria” (un termine che egli preferiva a “accumulazione originaria [o primitiva]”, poiché meglio coglieva la natura effettiva del processo in atto), in cui i beni comuni venivano espropriati con la forza, creando la massa del proletariato industriale. Lo stesso processo di espropriazione originaria ebbe luogo anche nelle colonie, ma lì, come spiegava Marx, fu ancora più esplicitamente violento e brutale, comportando l'estirpazione (genocidio) delle popolazioni indigene e la schiavitù. Se l'imperialismo economico, come scriveva Marx, comporta un processo di espropriazione in cui si ottiene più lavoro a un costo minore, l'imperialismo ecologico comporta un processo in cui si ottiene più natura a un costo minore. Il colonialismo consisteva nel saccheggio della natura, delle risorse e dei corpi a beneficio della“madre patria”. L'aspetto dello scambio economico era spesso solo superficiale.

Molti studi sono stati dedicati alla tradizione della frattura metabolica nel commercio del guano, nel Perù del XIX secolo (in particolare nelle isole Chincha). La crisi del suolo tra l'inizio e la metà del XIX secolo, che era al centro della teoria della frattura metabolica di Marx, è stata causata dall'agricoltura capitalista industrializzata, in cui le principali sostanze chimiche del terreno, tra cui azoto, potassio e fosforo, venivano prelevate sotto forma di alimenti e di fibre, e inviati a centinaia o addirittura migliaia di chilometri verso i nuovi centri manifatturieri urbani - che erano anche centri di concentrazione demografica - dove finivano per inquinare le città, invece di essere restituite alla terra. Il risultato fu la perdita di fertilità del suolo. Per porvi rimedio, il capitale si rivolse inizialmente ai fertilizzanti naturali, il più produttivo dei quali era il guano proveniente dalle isole Chincha al largo del Perù. Ciò portò a un enorme commercio di guano. Molti degli scavatori di guano erano lavoratori cinesi a contratto, chiamati dai britannici “coolies”, e di fatto erano sottoposti a una forma di schiavitù. I lavoratori che scavavano il guano sulle isole Chincha, in condizioni di estremo sfruttamento e di fatto, di schiavitù, morivano invariabilmente sul lavoro. In questo caso, troviamo un classico esempio di imperialismo ecologico. Le guerre dell'oppio in Cina - che ebbero origine dalla creazione britannica di piantagioni di papavero in India per l'esportazione forzata di oppio in Cina - furono verosimilmente un caso di imperialismo ecologico di altro tipo e possono essere studiate in tale contesto. Questi esempi storici ci aiutano a comprendere la natura dell'imperialismo ecologico odierno.

Proprio come ci sono stati frequenti tentativi di fornire un resoconto degli scambi economici ineguali, in una letteratura che ha avuto origine dal lavoro del teorico marxista dell'imperialismo Arghiri Emmanuel – il cui libro sullo scambio ineguale è stato ora ripubblicato dalla Monthly Review Press in una nuova edizione – così ci sono stati crescenti tentativi negli ultimi anni di rendere conto dello scambio ecologico ineguale. Misurare l'imperialismo del commercio rispetto alle risorse ecologiche, tuttavia, è molto più difficile, poiché non può essere fatto in termini monetari e quindi solleva questioni di incommensurabilità. Ciononostante, sono stati compiuti progressi significativi nel delineare l'imperialismo ecologico. Il lavoro più importante a questo proposito, a mio parere, è il modello elaborato dal grande teorico dei sistemi ecologici Howard T. Odum, che ha sintetizzato il suo approccio con quello di Marx. Hannah Holleman e io abbiamo scritto un articolo sulla critica di Odum all'imperialismo ecologico per il Journal of Peasant Studies nel 2014.

 

Il futuro ecologico del socialismo

XT e LJ: Nel suo libro Capitalism in the Anthropocene: Ecological Ruin or Ecological Revolution ha scritto: «Dobbiamo costruire un futuro più sostenibile: sanare la frattura metabolica e costruire un nuovo regno di libertà sociale». Come possiamo superare la frattura metabolica? Attraverso la lotta del «proletariato ambientale»? La creazione di nuovi regni di libertà porta al socialismo ecologico?

JBF: Nella sua analisi della frattura metabolica, nel primo volume de Il capitale, Marx insisteva sulla necessità di «ripristinare» il metabolismo sociale in linea con il metabolismo universale della natura, cosa possibile nella sua interezza solo nella società superiore del socialismo. Ovviamente, il movimento socialista avrebbe dovuto impegnarsi per questo obiettivo nel presente, come parte del movimento verso il futuro. Naturalmente Marx riteneva che questo sarebbe stato un compito primario nella costruzione di una società socialista. Insisteva sulla necessità di creare condizioni sostenibili per «la catena delle generazioni umane». Per il marxismo, il riconoscimento delle condizioni materiali, siano esse naturali o sociali, è fondamentale per comprendere la dialettica tra necessità e libertà. Per promuovere la libertà sociale in una società socialista sono necessari un livello di sviluppo materiale che garantisca risorse sufficienti per tutti e condizioni di sostanziale uguaglianza e sostenibilità ecologica. È solo in questo contesto che è possibile lo sviluppo di una società caratterizzata da quella che Marx definiva «libertà in generale».

Oggi, la forza oggettiva del cambiamento è quella che può essere definita «proletariato ambientale», ovvero un ambito della classe operaia che esprime un materialismo rivoluzionario nel senso più profondo e ampio del termine, e non si limita alla ristretta sfera economica legata al lavoro in fabbrica, in cui [questo termine] viene spesso concepito. Possiamo vederlo emergere a livello globale nel contesto dell'attuale crisi materiale, che è anche una lotta per la sopravvivenza. I movimenti dei diseredati (comprese le lotte dei lavoratori sfruttati, degli indigeni, degli oppressi razziali, degli oppressi di genere, dei contadini, dei lavoratori senza terra e simili) stanno diventando sempre più coesi. Alla fine poco importa se li chiamiamo “movimenti ambientalisti” o “movimenti dei lavoratori”: entrambi sono necessari e rappresentano una tendenza oggettiva in risposta allo sterminismo capitalista. Marx ed Engels in La sacra famiglia, come si ricorderà, affermarono che il proletariato è quella classe della società moderna che è «costretta da un bisogno inderogabile, impellente, assoluto – espressione pratica della necessità – a insorgere contro la disumanità di un sistema di produzione che cerca di alienare l'umanità da se stessa, dalla società, dalla natura e dalla possibilità della libertà umana.

 

XT e LJ: Come ha lei detto, la lotta del proletariato ambientale è un fattore importante. Tuttavia, oggi molte persone credono che il proletariato abbia perso la sua natura rivoluzionaria e stia gradualmente scomparendo. In che modo dovremmo intendere la presenza tangibile del proletariato ambientale nei paesi capitalisti? Il proletariato ambientale perderà la sua natura rivoluzionaria come sostengono alcuni?

JBF: Il concetto di proletariato ambientale rimanda al concetto di proletariato nel materialismo storico classico, che è stato in gran parte perso, e, allo stesso tempo, utilizza questo concetto per esaminare le condizioni oggettive e le tendenze del nostro tempo. Nel marxismo occidentale, il concetto di proletariato è stato sempre più ridotto al solo proletariato industriale o, addirittura, al proletariato operaio, spesso limitato al lavoro organizzato (e talvolta semplicemente al lavoro organizzato dei white collars). Negli Stati Uniti, era visto come costituito semplicemente dai blu collars. Di conseguenza, il proletariato è stato ridotto a semplici relazioni economiche, che a loro volta sono state interpretate in termini sempre più ristretti. Sotto molti aspetti, il concetto di proletariato (e di classe operaia) non è stato interpretato secondo la teoria socialista, ma secondo la economia capitalista dominante che lo ha relegato solo ad un ruolo meccanico: una visione che purtroppo si è riflessa in gran parte della teoria marxista.

Marx ed Engels, tuttavia, affrontarono la questione in modo diverso. L'opera originale del materialismo storico classico sul proletariato è stata La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels. Ciò che emerge immediatamente quando si legge l'opera di Engels è che la sua concezione della classe operaia è più ambientale e più olistica rispetto a quella odierna, secondo cui la classe operaia è semplicemente una categoria economica. Scrivendo poco dopo le cosiddette rivolte di Plug Plot Riots*, e durante il movimento Cartista, Engels si è innanzitutto occupato delle condizioni di vita del proletariato industriale nelle grandi città, dedicando capitoli separati al proletariato agricolo e al proletariato minerario. Si è concentrato sull'ambiente urbano, compresi gli alloggi, l'inquinamento di ogni tipo, la disponibilità di acqua pulita, la qualità del cibo (e la sua adulterazione), le malattie, la mortalità e l'aspettativa di vita per classe ed età, la disabilità, il lavoro minorile, le sostanze chimiche, la segregazione urbana e la divisione etnica tra inglesi e irlandesi.

Naturalmente, Engels si è occupato anche delle condizioni del lavoro in fabbrica, dello sfruttamento, dell'esercito industriale di riserva e delle condizioni del lavoro industriale. Ma il lavoro industriale passò in secondo piano nella sua analisi dell'intero ambiente [di vita] del proletariato. La sua analisi ruotava attorno al concetto di “omicidio sociale”, ovvero al fatto che la classe operaia aveva un'aspettativa di vita molto più bassa a causa delle sue complessive condizioni. Non solo Engels, ma anche Marx, vedeva il proletariato soprattutto in questo modo. Ciò è evidente in tutto Il Capitale, nonostante l'analisi economica teorica fosse più incentrata sullo sfruttamento e sulla produzione di plusvalore.

Assumere una concezione puramente economica della classe operaia tende a indebolire piuttosto che a rafforzare la filosofia della prassi. Tra le altre cose, minimizza l'intero ambito della riproduzione sociale, compresa la sfera domestica, la riproduzione della classe operaia e le relazioni di genere, che hanno tutte svolto un ruolo fondamentale nel materialismo storico classico. Ma tralascia anche la più ampia prospettiva ambientale rispetto alle condizioni della classe operaia. Sostituisce una concezione materialistica della storia – la prospettiva stessa di Marx ed Engels – con un'interpretazione economica molto più ristretta della storia.

Non c'è dubbio che l'isolamento del solo fattore economico avesse originariamente un senso nello sviluppo del movimento socialista, che si occupava principalmente del capitalismo come sistema di sfruttamento e della necessità per la classe operaia di organizzarsi sia economicamente che politicamente per rispondere allo sfruttamento capitalista. Tuttavia, è chiaro che nei periodi rivoluzionari più radicali, la lotta della classe operaia si concentra sulle condizioni materiali in un senso molto più ampio, che va oltre il mero aspetto economico, affrontando anche quelle condizioni materiali che definiamo “ambientali”.

Oggi, l'idea stessa dell'emergere di un proletariato ambientale ha a che fare con la dissoluzione, nell'era della crisi planetaria, di ogni netta distinzione tra condizioni materiali economiche e ambientali, e con una fusione delle due, affinchè il movimento stesso sia oggettivamente spinto in una direzione più rivoluzionaria. Possiamo già vedere questo fenomeno in atto in tutto il Sud globale, ma anche nel Nord, specialmente in quelle che chiamiamo comunità in prima linea. Negli Stati Uniti i movimenti per la giustizia ambientale che si basano sulla classe e sulla razza, che legano insieme l'ecologia e l'economia, sono più evidenti nelle comunità nere, latine e indigene. Oggi è una realtà oggettiva che le lotte future saranno più materialiste, in senso lato, esprimendo lotte non solo per la giustizia sociale, ma anche per la sopravvivenza.

 

XT e LJ: Marx ha sottolineato: «Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza». La premessa di Marx - per discutere dei futuri sistemi sociali razionali - si basa sullo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Tuttavia, il socialismo ecologico non sembra essersi concentrato sulle condizioni per la nascita di nuovi rapporti di produzione. Come dovremmo interpretare il rapporto tra socialismo ecologico e l'affermazione di Marx? Il raggiungimento del socialismo ecologico richiede un alto sviluppo delle forze produttive?

JBF: Marx, nella sua famosa discussione sulle forze produttive e sui rapporti di produzione – parte della sua metafora della base/sovrastruttura del 1859 – non forniva una prospettiva deterministica, ma piuttosto quello che definiva il «filo conduttore» dei suoi studi. Oggi le cose ci appaiono in modo diverso. Le catene imposte dalle relazioni sociali sono ancora presenti, ma il problema principale del capitale finanziario monopolistico non è lo sviluppo delle forze produttive in quanto tali, ma piuttosto, da un punto di vista economico, l'incapacità di assorbire all'interno del processo di accumulazione l'enorme produttività o la capacità di generare surplus entro i ristretti parametri di classe dell'ordine esistente. Le conseguenti tendenze alla sovraccumulazione nel nucleo capitalista hanno reso formalmente “razionali” per il sistema lo spreco economico e la distruzione di ogni genere, nonostante siano sostanzialmente irrazionali. Il problema delle forze produttive diventa quindi quello del loro utilizzo e, in alcuni casi, della loro ridondanza.

Nell'attuale sistema capitalistico monopolistico-finanziario, il nemico è qualsiasi tipo di conservazione. Infatti, negli Stati Uniti, dove il movimento [ambientalista] per la conservazione era una forza importante nel XIX e all'inizio del XX secolo, la parola stessa, dato il feticcio del consumo ostentato, è quasi scomparsa. Ogni tipo di irrazionalità sprecona che generi profitti viene promossa al fine di aumentare la ricchezza ai vertici della società. Il risultato è un sistema di stagnazione economica, finanziarizzazione e proliferazione di beni di consumo inutili e irrazionali, mentre i bisogni umani fondamentali, persino la protezione della terra come luogo di abitazione umana, vengono sistematicamente trascurati. Un elemento chiave è l'incapacità del capitalismo di pianificare (tranne in tempo di guerra), e quindi la discrepanza assoluta tra il modello di sviluppo e i bisogni della popolazione. Tale irrazionalità e mancanza di pianificazione socioeconomica sono fondamentali per la conservazione del capitale monopolistico stesso. Il sistema genera costantemente contraddizioni sempre maggiori, che ora stanno coinvolgendo l'intera terra. Per quanto riguarda il problema ecologico, sappiamo esattamente cosa fare per risolverlo. Ma le catene delle relazioni sociali capitalistiche bloccano i cambiamenti necessari in ogni punto, e creano persino forze opposte o controrivoluzionarie che non solo sono irrazionali, ma ora anche di natura sterministica. Non si tratta semplicemente dell'espansione quantitativa delle forze produttive, bensì del loro sviluppo qualitativo e del loro utilizzo razionale, che sono ostacolati dagli attuali rapporti sociali capitalistici.

 

XT e LJ: In quanto grande potenza, la Cina ha compiuto grandi sforzi nella protezione ecologica e ambientale. Come valuta gli sforzi e i contributi della Cina alla protezione dell'ambiente? Per i paesi in via di sviluppo come la Cina, potrebbe fornire alcuni suggerimenti per la protezione dell'ambiente?

JBF: La Cina non è solo una grande potenza, ma, cosa ancora più significativa nel contesto mondiale attuale, è un paese impegnato nel “socialismo con caratteristiche cinesi”. Come tutti i paesi, la Cina ha enormi problemi ambientali. Ma il pensiero di Xi Jinping ha collegato l'obiettivo di sviluppare una grande società socialista moderna, tra il 2035 e il 2050, alla costruzione di una civiltà ecologica e di una Cina esteticamente bella. Egli insiste sul fatto che le montagne verdi sono più importanti e più preziose delle montagne d'oro. Non si tratta solo di parole, ma rappresentano principi che sono stati messi in pratica, costituendo uno sforzo coordinato che ha già reso la Cina leader mondiale nelle tecnologie energetiche alternative per far fronte al cambiamento climatico, nella riforestazione e l’afforestazione, nella velocità di riduzione dell'inquinamento e in altri settori. La Cina è attualmente il principale emettitore di anidride carbonica a livello globale, ma su base pro capite è ben al di sotto di paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Giappone. Il problema principale in questo caso è la dipendenza della Cina dalle centrali a carbone, che tuttavia è ormai notevolmente al di sotto del suo picco massimo. Pechino sta compiendo sforzi strenui per ridurre le sue emissioni complessive e la dipendenza dal carbone e sta introducendo obiettivi rigidi in materia di emissioni, non più semplicemente obiettivi [di riduzione] di intensità di carbonio, a partire dal 2026. Inoltre, vi sono segnali che le emissioni di carbonio della Cina abbiano ormai raggiunto il picco massimo e stiano diminuendo prima del previsto. Nonostante tutte le difficoltà e le contraddizioni, non c'è dubbio che gli sforzi molto seri della Cina in questo senso offrano speranza all'umanità intera. Questi sforzi, inoltre, non sono semplicemente imposti dall'alto, come spesso si suppone. Non solo sono motivati dal Partito Comunista Cinese, ma sono anche in parte una risposta ai movimenti ambientalisti di massa cinesi. Il concetto di “civiltà ecologica” è sorto come visione sistematica all'inizio degli anni '80 in Unione Sovietica. Tuttavia, è stato adottato, sviluppato e messo in pratica in Cina. Inutile dire che l'idea stessa di costruire una civiltà ecologica va contro la logica principale del capitalismo. Sebbene le contraddizioni siano enormi, la Cina sta attualmente tracciando un percorso peculiare verso lo sviluppo umano sostenibile, notevole per un Paese in via di sviluppo. Ha ripreso la linea di massa e sta ricostruendo l'alleanza tra operai e contadini con i suoi modelli di rivitalizzazione rurale e di doppia circolazione. Non credo che il percorso intrapreso dalla Cina sia l'unico, nemmeno nel Sud globale. Vediamo altri paesi di orientamento socialista compiere enormi progressi in base alle proprie condizioni. Vorrei qui menzionare in particolare Cuba e Venezuela. Tutti i percorsi verso lo sviluppo umano sostenibile, per definizione, vanno contro la logica del capitalismo. Tuttavia, c'è da sperare che il legame tra il marxismo ecologico e la civiltà ecologica in Cina ispiri lotte simili in tutto il mondo.


Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org

Fonte: Monthly Review 2025, vol. 77, n. 05 (01.10.2025)
Pin It

Add comment

Submit