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Viaggio sentimentale intorno al nulla
di Damiano Palano
Rileggere "Il desiderio di essere come Tutti" di Francesco Piccolo quattro anni dopo il Premio Strega (e dopo la fine "renzismo")
Sono passati solo quattro anni da quando Francesco Piccolo, con il suo romanzo-saggio "Il desiderio di essere come tutti", vinceva il Premio Strega, eppure sembra passato un secolo. Quel libro venne infatti considerato - e fu effettivamente - una sorta di manifesto intellettuale del "renzismo". La sua violenta polemica contro la "purezza" rivendicata dalla "sinistra" era (o quantomeno fu letta) come la legittimazione di una leadership che, lasciandosi alle spalle tutte le memorie del passato, era disposta a sporcarsi le mani senza vincoli moralistici e ad abbandonare tutti gli orpelli di un immaginario obsoleto. Oggi che il "renzismo" è tramontato, è quasi commovente ascoltare l'appello ai "valori di sinistra" da parte di coloro che esaltarono la brutale satira della "purezza" proposta da Piccolo. Ma proprio perché ormai quella fase si è conclusa, si può rileggere "Il desiderio di essere come tutti" - che in modo piuttosto sconcertante si volle allora insignire del più prestigioso dei premi letterari italiani - come un documento storico.
In questa chiave, "Maelstrom" ripropone la riflessione dedicata al romanzo, pubblicata allora anche su Tysm Magazine, con il titolo "Viaggio sentimentale intorno al nulla: Francesco Piccolo".
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In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica.
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Mini-Bot della Lega? Meglio i Titoli di Sconto Fiscale
di Enrico Grazzini
L’enorme debito dello stato italiano – pari a circa 2.300 miliardi, ovvero al 132% del Prodotto Interno Lordo – è un macigno sulla strada di qualsiasi governo. Il problema del debito pubblico è aggravato dal fatto che questo è contratto in una “moneta straniera” che lo stato non controlla: cioè l’euro. E che lo stato italiano è costretto a contrarre nuovi debiti solo per pagare gli interessi sul debito, senza riuscire a rientrare dal debito stesso. E’ un circolo vizioso che dura da qualche decennio e che è difficile rompere. Non a caso il debito pubblico continua costantemente a crescere. E Il peso del debito impedisce all’economia di svilupparsi per ripagare il debito stesso.
Come risolvere il problema? Le soluzioni non sono semplici ma probabilmente esistono. In primo luogo la proposta è di rivitalizzare l’economia emettendo dei titoli con valore fiscale che funzionino come moneta complementare all’euro, e che quindi ridiano ossigeno e liquidità all’economia reale rilanciando i redditi delle famiglie e delle imprese e gli investimenti pubblici e privati.
In questo articolo esamineremo in particolare due progetti di moneta fiscale: quello dei mini-bot lanciato dalla Lega di Matteo Salvini, e quello dei Titoli di Sconto Fiscale. E confrontando le due proposte, per alcuni aspetti simili, cercherò di dimostrare che il progetto di emissione di Titoli di Sconto Fiscale è più efficace di quello dei mini-bot perché fa crescere notevolmente il PIL senza produrre nuovo debito pubblico, anzi, generando surplus.
In via preliminare è necessario sottolineare che ci sono due maniere di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL: la prima è di diminuire il debito; la seconda è di far crescere il PIL. La prima maniera è dolorosa e complessa perché comporta l’aumento delle tasse e/o la riduzione della spesa pubblica e/o la cessione del patrimonio pubblico. La seconda maniera – ovvero la crescita del PIL – è certamente molto più felice e positiva perché comporta lo sviluppo dell’economia e la fuoriuscita dall’austerità e dalla crisi.
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Scacco matto agli stregoni della notizia
La parola a Marcello Foa
di Andrea Muratore
Il mondo contemporaneo è caratterizzato da un dibattito acceso sul ruolo e il futuro dell’informazione: informazione vista sempre come una componente strumentale della modernità, dato che diatribe come quella accesasi sulle cosiddette fake news erano essenzialmente incentrate sulle loro conseguenze a fini elettorali. L’informazione è, in ogni caso, un campo di battaglia dove ogni contendente è interessato a mettere in gioco le sue strategie più raffinate; un ruolo molto spesso sottaciuto è quello giocato, in questo contesto, dagli spin doctor, gli esperti di comunicazione legati al potere politico che, muovendosi nella linea d’ombra tra la comunicazione istituzionale e quella personale dei leader, esercitano un peso determinante nell’orientamento dell’opinione pubblica.
E proprio dell’arma impropria dello spin, delle sue determinanti sociologiche e psicologiche e delle sue importanti conseguenze politiche tratta un testo fondamentale per comprendere l’attualità: si tratta del saggio magistrale di Marcello Foa, Gli stregoni della notizia – Atto secondo, edito da Guerini, versione aggiornata pubblicata nel 2018 di un precedente lavoro di Foa del 2006. Foa, direttore del gruppo editoriale del Corriere del Ticino e titolare del blog indipendente Il cuore del mondo sul sito de Il Giornale, ha alle spalle una lunga carriera giornalistica e nel suo lavoro mette tutte le sue competenze al servizio di un obiettivo fondamentale: svelare i doppi giochi della comunicazione internazionale e snocciolare lo spin in tutte le sue componenti, partendo da esempi storici ben definiti.
Foa ha il merito, infatti, di unire la concretezza della sua analisi a una rigorosa presentazione della storia del fenomeno della manipolazione mediatica al servizio del potere politico-economico. Dagli antesignani degli spin doctor, tra cui spicca il vero e proprio “padre” della propaganda, Edward Bernays, si giunge sino alla vittoria degli “stregoni della notizia” degli Anni Ottanta, ai tempi dell’ascesa di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sulle due sponde dell’Atlantico.
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Panafricanismo e comunismo
Selim Nadi intervista Hakim Adi
Parallelamente alla storia dominante dei partiti comunisti europei, incentrata sulla classe operaia metropolitana, è possibile rintracciare la traiettoria sotterranea di quei militanti comunisti e panafricani, minoritari nei loro partiti, ma sostenuti da Mosca nel periodo tra le due guerre. Si tratta di un epoca nella quale i giovani partiti comunisti sono dominati, per quanto riguarda la metropoli, da Bianchi e, nelle colonie, da coloni. Al fine di combattere l’opportunismo e lo sciovinismo, più o meno espliciti, di questi militanti, l’Internazionale comunista procedette alla strutturazione di una serie di organizzazioni transnazionali, incaricate di coordinare l’attività rivoluzionaria circa la «questione nera»: Sudafrica, colonie dell’Africa nera, segregazione negli Stati Uniti, ecc. Hakim Adi racconta in questa intervista una storia inedita, ovvero quella di un originale incontro tra comunismo, nazionalismo nero e panafricanismo.
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Come definiresti il panafricanismo?
Il panafricanismo può essere considerato, al contempo, come un’ideologia e come un movimento sfociante dalle lotte comuni degli afro-discendenti, tanto in Africa quanto nella diaspora africana, contro lo schiavismo, il colonialismo così come contro il razzismo anti-africano e le diverse forme di eurocentrismo che lo accompagnano. I termini «panafricano» e «panafricanismo» non sono emersi fino alla fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma era già presente una forma embrionale di panafricanismo nel XVIII secolo, in organizzazioni abolizioniste come la British-based Sons of Africa, gestita da ex-schiavi africani quali Olaudah Equiano e Ottobah Cugoano, che riconoscevano la necessità per gli africani di unirsi al fine di difendere interessi comuni.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. IV
Hong Kong, la porta della Cina… al mondo offshore
di Paolo Selmi
Quando oltre vent’anni fa Hong Kong tornò a esser parte della Repubblica Popolare Cinese, sia pur sotto gli slogan “Un Paese, due sistemi (yi guo liang zhi 一国两制 ) e “I cittadini di Hong Kong governeranno Hong Kong con un alto grado di autonomia” (gangren zhi gang, gaodu zizhi 港人治港,高度自治), ricevendo quindi ampie assicurazioni circa la propria autonomia amministrativa, la propria moneta, persino la propria squadra olimpionica, mi pare ancora di sentire qualche Cassandra che invitava a non fidarsi, che la pecorella cantonese sarebbe stata sbranata dalla tigre mandarina, che profetizzava cosacchi con gli occhi a mandorla, ma con sempre la stessa, maledetta, stella rossa in fronte, abbeverare i propri cavalli lungo i putridi acquitrini della costa cantonese mentre appiccavano fuochi con obbligazioni, divenute carta straccia, e pizze di film reazionari di Jackie Chan, Chow Yun-fat e Jet Li, insieme ovviamente a qualche bambino (sennò che comunisti erano?). D’altronde, cosa potevamo pretendere da chi chiamava D’Alema e soci “comunisti”?
Tuttavia, mentre noi ci dilettavamo rivangando vecchi ricordi di mondi scomparsi, da Hong Kong partivano le prime ambascie di mercanti nelle vicine province, in particolare nella ZES (jingji te qu 经济特区 , o Zona Economica Speciale) di Shenzhen, con portafogli ordini pieni di commesse da parte delle nostre ditte, che avevano appena scoperto la gallina dalle uova d’oro ma che, per problemi linguistici, burocratici, economici, non riuscivano a spennare da soli. Il millennio finiva e cominciava con questi trader, intermediari, faccendieri, che triangolavano fatture, emettevano polizze di carico, anticipavano soldi per i loro “cugini”, tanto acerbi e alle prime armi in questi discorsi di ordini, commesse, profitti, conti all’estero e penali, quanto senza peli sullo stomaco nella repressione schiavistica dei loro stessi connazionali su tagliacuci e stampi di plastica puzzolente.
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Il cigno nero
di Redazione
«Mi dicono tu vuoi uscire dall'euro? Badate che potremmo trovarci in situazioni in cui sono altri a decidere. La mia posizione è di essere pronti a ogni evenienza. (...) Una delle mie case, Banca d’Italia mi ha insegnato a essere pronti non ad affrontare la normalità ma il cigno nero, lo choc straordinario».
Queste parole di buon senso pronunciate ieri da Paolo Savona alle Commissioni riunite di Camera e Senato, hanno scatenato un putiferio. Un coro salmodiante di economisti e politici strillano e seminano il panico. Il colmo è stato raggiunto questa mattina dal deputato piddino Gianfraco Librandi, che sta «valutando l’ipotesi di depositare alla Procura della Repubblica un esposto per verificare se le allusive affermazioni del ministro Paolo Savona costituiscano procurato allarme ai sensi dell’art. 658 del codice penale». Il segno che l'élite eurista, previa campagna di allarmismo e satanizzazione del governo, è pronta a "scatenenare l'inferno".
Sorvoliamo (ci torneremo) sulle specifiche proposte di Savona per far fronte "ad ogni evenienza" — in particolare se la Bce possa davvero "svolgere le funzioni di lender of last resort" (come ogni vera Banca centrale fungere da prestatore di ultima istanza) nel caso di un shock finanziario che farebbe esplodere una crisi di debito.
Il putiferio contro Savona riconferma tre cose in un colpo solo. Primo: mentre all'estero, soprattutto i Germania, si discute senza tabù del "Piano B", in Italia non possiamo farlo, segno evidente che non siamo un Paese sovrano. Secondo: che l'élite nostrana si faccia garante di questo stato di sudditanza mostra fino a che punto è asservita a poteri oligarchici esterni e sia opposta all'interesse nazionale. Terzo: poteri eurocratici ed élite nostrana, saldi nella loro alleanza, si preparano a scatenare l'inferno contro il governo giallo-verde.
Qui sotto l'intervento di Savona, pubblicato in anteprima ieri da SCENARI ECONOMICI.
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I buoni e i cattivi (e i migranti nel mezzo)
di Norberto Fragiacomo
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante riflessione di Norberto Fragiacomo, di Risorgimento Socialista, pur non condividendo alcuni passaggi
Il manicheismo dell’entertainment sistemico contemporaneo (informazione+politica irreggimentata) taglia con l’accetta, fra le altre, la delicata questione dei migranti: da una parte i «cattivi» che, animati da pessime intenzioni, vorrebbero chiudere ogni pertugio, dall’altra i «buoni» e accoglienti, che propugnano il c.d. diritto di migrare; sullo sfondo masse di diseredati africani ed asiatici che, oppressi da indigenza e privazioni (e sollecitati dalle paterne esortazioni di presunti filantropi, ma questo appartiene al non detto), si spostano verso il continente «bianco» a rischio della propria vita.
E’ una storia veridica quella che ci raccontano? Prima di stabilirlo tocca esaminare la situazione.
Ispezioniamo anzitutto il campo dei cattivi, ove han piantato le tende i caporioni della destra «razzista, sovranista, populista e xenofoba», che vanno da Orban a un ministro bavarese accostabile addirittura all’AfD, passando per l’eterna perdente Marine Le Pen. In Italia il loro campione è Matteo Salvini, un razzista impenitente che, essendo il vero dominus del Governo Conte – così ci ripetono quotidianamente – trascina con sé pure i 5Stelle (incasellati nell’estrema destra anche se le loro prime proposte di governo profumano di diritti sociali, dopo 30 anni di restaurazione liberista: vabbé, è un dettaglio, al pari delle accuse di «comunismo» seguite al varo del Decreto Dignità).
Cos’ha promesso lo stregone leghista al suo elettorato (in costante crescita, malgrado Repubblica)? Che gli immigrati irregolari verranno espulsi e che non ne verranno accolti di nuovi; che prima di pensare agli ultimi arrivati l’esecutivo si occuperà dei tanti italiani in difficoltà.
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A chi giova il populismo di sinistra?
di Renato Caputo
Le ragioni degli insuccessi delle principali forze populiste di sinistra e i limiti strutturali di una politica populista declinata a sinistra
Una volta stabilito il significato scientifico-concettuale del termine sinistra – come proprio di chi nella lotta di classe si schiera con le classi subalterne di contro alle classi dominanti – appare evidente che un populismo il quale, in nome del superamento di tale contraddizione fondamentale giudica inessenziale l’opposizione fra destra e sinistra, giova certamente ai ceti sociali privilegiati che fanno di tutto per non rendere evidente la necessità di tale conflitto, per continuare a portarlo avanti in modo unilaterale dall’alto. Discorso analogo vale per il populismo che intende rideclinare la contraddizione sociale fondamentale come contrapposizione fra ci sta in alto e chi in basso, intendendo con i primi i politici, la “casta” e con il secondo il popolo e i suoi rappresentanti, ovvero la società civile.
Così i rappresentanti dei populisti anti-casta non solo rilanciano il mito reazionario dell’uomo qualunque, ma presentano un ceto politico e amministrativo che non solo non rappresenta affatto gli interessi dei subalterni, ma che è costituito principalmente da esponenti della media borghesia delle professioni, in primo luogo da avvocati. Del resto l’opposizione fra un potere politico, in quanto tale oppressivo, e una società civile – ovvero la sfera economica in cui, nella società capitalista, predomina l’interesse particolare e la concorrenza – è forse la più classica delle rappresentazioni liberali, ovvero della tradizione politica propria della classe dominante nella società borghese. Ecco che la contrapposizione fra alto e basso diviene l’opposizione fra la produttiva e onesta società civile economica – che intende autorappresentarsi sul piano politico – e il parassitario ceto politico tradizionale, di cui per altro sono espressione parte significativa dei principali esponenti del populismo di destra. In tal modo si vorrebbe eliminare qualsiasi autonomia del politico rispetto agli interessi economici dominanti.
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La prova del budino
Il governo giallo-verde e la classe lavoratrice
di Claudio Bellotti
Un vecchio e noto proverbio inglese dice che la prova del budino è mangiarlo. Calza perfettamente anche per l’esperienza che milioni di persone si apprestano a fare del governo giallo-verde.
Per capirne le prospettive non possiamo accontentarci di giudicare gli avvenimenti a partire dalle parole che rivestono i fatti e le azioni dei diversi partiti. Chi, come gran parte dell’intellettualità progressista di area Pd, pensa di poter “smascherare” o addirittura mettere in crisi questo governo denunciando le incoerenze verbali di Salvini o Di Maio perde il suo tempo.
Il voto del 4 marzo
È necessario innanzitutto ribadire che il voto del 4 marzo è stato un voto segnato profondamente dalla condizione sociale. In un certo senso è stato un voto di classe, espresso però in modo passivo, ossia scegliendo (passivamente, appunto) tra gli “strumenti”, i partiti presenti sulla scheda, quelli che meglio si prestavano allo scopo.
Milioni di lavoratori, giovani, precari, poveri, disoccupati hanno detto in modo chiaro e inequivocabile che i partiti che avevano governato fino ad allora non hanno più il diritto di comandare e devono sparire. Pd, Forza Italia e rispettivi alleati sono stati frantumati dal voto quasi unanime di coloro che hanno pagato più pesantemente gli effetti della crisi economica.
È stata la condizione sociale a generare questo risultato: chi ha votato M5S e, in parte, persino la Lega, ha espresso un segnale chiaro: meno precarietà, salari e pensioni decenti, meno diseguaglianze sociali, sostegno a chi non ha lavoro. È stata una protesta rabbiosa e sacrosanta contro le politiche condotte per decenni. Tuttavia questo contenuto sociale del voto si è potuto esprimere solo in una forma politicamente e ideologicamente confusa, mescolando aspetti progressisti con altri pesantemente reazionari. E come poteva essere altrimenti?
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Ma è vero o è bello?
di Walter Siti
[Nasce L’età del ferro, una nuova rivista (cartacea) diretta da Alfonso Berardinelli, Giorgio Manacorda e Walter Siti, pubblicata da Castelvecchi e disponibile da luglio in libreria. La presentiamo pubblicando il saggio di Siti, Ma è vero o è bello?, sugli attuali rapporti tra giornalismo e letteratura]
L’afro-americana Janet Cooke era una giovane di belle speranze nel 1980, quando sentì parlare di un ragazzino, Jimmy, dipendente dall’eroina a otto anni; colpita, ne accennò alla redazione del «Washington Post» dove lavorava, e il capo entusiasta le ordinò di farci sopra un articolo. Un’occasione ottima per mettersi in luce e fare carriera, ma per quanto setacciasse i quartieri degradati della città non riuscì a trovare il ragazzino; quando il capo le confermò che poteva tenere segrete le sue fonti, decise di inventarsi il caso – scrisse un pezzo intitolato Jimmy’s World, così efficace che nel 1981 le fu assegnato il premio Pulitzer per il giornalismo. Senonché nacquero dubbi, ci furono una denuncia e un’inchiesta, si scoprì che la Cooke aveva anche mentito sul proprio curriculum al momento dell’assunzione, alla fine la poveretta ammise che il suo Jimmy era un bambino immaginario. Restituì il Pulitzer, perse il posto al giornale, l’episodio ebbe grande risonanza e fu definito “il Vietnam del giornalismo”; García Márquez, nel leggere la notizia, commentò scherzosamente che certo era ingiusto che Janet avesse vinto il Pultizer per il giornalismo, ma sarebbe stato giusto che le fosse attribuito il Nobel per la letteratura (letteratura non buonissima, a essere sinceri, l’articolo gronda di stereotipi dickensiani sull’infanzia offesa).
La letteratura è una fake news? Secolare problema, il rapporto della letteratura con la verità, fissato in Occidente dalla distinzione aristotelica tra storico e poeta: lo storico racconta ciò che è accaduto, il poeta racconta ciò che potrebbe accadere. Il nostro Manzoni, nel suo bel saggio sul romanzo storico, resta su questo binario parlando di “vero positivo” e “vero poetico”. Nel Settecento, il secolo del giornalismo, alla storia si sostituisce la cronaca; Charles Gildon accusa Robinson Crusoe di essere una fake news, elencando le incongruenze che lo rendono poco attendibile come vero diario di un naufrago; e Defoe, da parte sua, lamenta che l’eccesso di romanzi avventurosi, confondendo le acque, impedisca di leggere Moll Flanders come “una storia vera”.
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La logistica nel capitalismo globale
di Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti
Un dialogo con Giorgio Grappi, Brett Neilson e Ned Rossiter
È ormai da diversi anni che Giorgio Grappi, Brett Neilson e Ned Rossiter si occupano di logistica. Tra i primi a considerarla come un elemento centrale per la comprensione del supply chain capitalism contemporaneo, e autori di diversi articoli e saggi sul tema, Grappi, Neilson e Rossiter hanno collaborato anche alla realizzazione di progetti di ricerca tricontinentali quali Transit Labour. Circuits, Regions, Borders e Logistical Worlds. Infrastructures, Software, Labour. Anche grazie ai loro contributi la logistica è fuoriuscita dall’ambito prettamente ingegneristico o manageriale entro cui era racchiusa fino a qualche anno fa, presentando una inedita e produttiva prospettiva utile alla comprensione del presente politico globale. Intesa come la «costituzione materiale della globalizzazione», la logistica oggi contribuisce a ridisegnare la mappa geo-politica globale, dando vita a numerose zone economiche speciali, corridoi di flussi, spazi infrastrutturali e molto altro ancora. Alla sua azione empirica e palese, tuttavia, fa da contraltare una opacità che soltanto un’analisi accurata attorno ad essa e alle sue origini può permettere di dipanare. Questo dialogo vuole essere un piccolo apporto al dibattito, ed è stato realizzato in forma di intervista da Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti, tra i curatori del nuovo numero di Zapruder dedicato alla logistica. È stato realizzato a settembre 2016 all’interno della summer school Investigating Logistics, svoltasi a Berlino presso la Humbolt University. La versione originale dell’intervista, in lingua inglese, è in corso di pubblicazione su Zapruder World.
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La nuova edizione del “capitolo sesto inedito” del primo libro del “Capitale”
di Salvatore Tinè*
Pubblicato per la prima volta nel 1933 dall’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca, il manoscritto del cosiddetto Capitolo VI inedito del primo libro de Il capitale costituisce senz’altro non solo uno dei testi più importanti e complessi dell’opera di Marx, ma anche un documento particolarmente significativo dell’immane lavoro di redazione de Il capitale che avrebbe occupato per più di vent’anni la vita del pensatore di Treviri. Il manoscritto, redatto nel 1864 e intitolato Risultati del processo di produzione immediato, è l’unica parte pervenutaci dell’ultima redazione del primo libro del Il capitale che precedette la sua edizione a stampa del 1867, originariamente contenuta nel Manoscritto 1863-1865.
L’edizione del Capitolo VI a cura di Giovanni Sgro’ appena uscita con La Città del Sole ci consente di rileggere queste pagine di Marx in una nuova traduzione condotta sul testo stabilito dai curatori del volume 4.1 della seconda edizione della MEGA2. Solo in alcuni punti tuttavia l’attale traduzione modifica quella già condotta dallo stesso curatore e pubblicata nel tomo II del volume XXXI della edizione italiana delle Opere Complete di Marx ed Engels. Molto più aderente alla “lettera” del testo delle tre precedenti traduzioni italiane di Bruno Maffi, di Liliana La Mattina e di Mauro di Lisa, ci pare che essa possa essere utile a cogliere meglio in alcuni suoi passaggi la densità e la complessità del testo di Marx. L’ottima introduzione di Sgro’ e un indice analitico molto ragionato individuano con molta precisione filologica e rigore la trama teorica che innerva, spesso solo sottesa, le pagine del pensatore di Treviri.
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Sulla Belt and Road Initiative
Nicola Tanno intervista Diego Angelo Bertozzi
La Nuova Via della Seta è il grande progetto della Cina del XXI secolo. Rifacendosi all’antica via commerciale del secondo secolo d.C. della dinastia Han, la Belt and Road Initiative (BRI) è un piano per la costruzione di infrastrutture di trasporto e logistiche che coinvolge decine di paesi di tutto il mondo per un valore di più di mille miliardi di dollari. Di questo ambizioso progetto ne ha parlato Diego Angelo Bertozzi in La Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta e la Cina globale (Imprimatur). In questa intervista Bertozzi, già autore di altri volumi sul paese orientale, ha discusso sulle prospettive della BRI e sul futuro della Cina.
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1) La Nuova Via della Seta viene descritto come un progetto aperto e in costante evoluzione. Che definizione daresti della BRI e quali sono per te i suoi scopi principali?
Della nuova via della seta esistono diverse mappe –che di volta in volta segnalano l’aggiornamento delle rotte individuate o dei progetti in essere. La prima ufficiale è stata pubblicata nel 2013, mentre l’ultima versione è del dicembre del 2016 e porta alcune novità quali una descrizione più dettagliata dei corridoi terrestri, la copertura dell’intero bacino mediterraneo lungo una linea che prosegue, senza una meta precisa, verso l’Atlantico, così come a est si aprono rotte marittime verso l’Artico e oltre l’Australia. Queste aperture indefinite, così come la maggiore specificazione dei percorsi terrestri e marittimi, vanno a confermare la natura aperta dell’intero progetto, che non segue disegni e confini prestabiliti, che si adatta di volta in volta agli accordi conclusi e che non preclude possibili nuove collaborazioni. Tentativi, verifiche sul campo, cautela e metodi d'azione non rigidi permettono di saggiare tanto le potenzialità di possibili quanto di valutare le possibili contromosse di competitori strategici.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. III
Turbocapitalismo e ciclo produttivo … di rifiuti
di Paolo Selmi
Lasciamo, per un attimo, da parte il passato e guardiamo al presente. L’attuale produzione di beni di consumo avviene, di fatto, come se l’ambiente fosse una risorsa inesauribile, pur sapendo benissimo che non lo è. Tuttavia, ciò che, strutturalmente, accade da quando esiste l’uomo, oggi riceve un’accelerazione sempre maggiore a causa di un ciclo di vita della merce sempre più breve, sempre più globalizzato e sempre più accelerato nelle sue fasi di produzione e riproduzione.
1. L’inquinamento in fase di produzione è forse uno degli argomenti più noti: non esiste soltanto il dumping sociale ed economico come presupposto alla delocalizzazione, ma anche quello ambientale. Il problema, quindi, si “sposta” laddove il problema non si pone, o si pone in maniera più blanda. Pensiamo al tessile. Chi scrive, si ricorda ancora di quando andava a scuola a piedi e scommetteva, con gli amici, di che colore fosse quel giorno il torrente su cui sversava la locale tintoria. Oggi la tintoria ha chiuso, il torrente è pulito (quando ha abbastanza acqua), e il problema si è spostato altrove. Le emissioni di CO2 nel magico mondo dell’abbigliamento corrispondono, infatti al 5% del totale di emissioni del pianeta, e sono in aumento, dal momento che anche i consumi dal 2000 sono aumentati, in meno di vent’anni quindi, del 60%1 . La qualità del prodotto finito è degradata, da cui un ciclo di vita sempre più breve, da cui l’aumento di risorse destinate alla produzione (destinate a triplicare dal 2000 al 2050), fra cui un impiego sempre più massiccio di fibre sintetiche, leggasi, guarda caso, plastica, più economiche e più inquinanti. “Fast fashion”, lo chiamano gli anglofoni: talmente “fast” da muoversi da Cina e India (dove si concentra il 60% della produzione mondiale) senza che il visitatore abituale di centro commerciale se ne accorga neppure. Sembra prodotto nel capannone lì dietro, che invece ospita una filiale di una qualche altra multinazionale, di elettrodomestici o di articoli “sportivi”.
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Breve storia del neoliberismo (con alcuni antidoti)
di Jason Hickel
Una acuta analisi storica del neoliberismo traccia le tappe dell’affermazione di questa teoria economica elitistica, che contro ogni logica sostiene politiche rivelatesi disastrose. Godendo, nonostante questo, di uno status privilegiato nel dibattito scientifico, al punto che i suoi esponenti ormai lo considerano l’unico approccio legittimo. Il neoliberismo non è sempre stato l’unico modo di concepire la realtà: la sua prepotente affermazione è in realtà il frutto di deliberate scelte politiche da parte di specifiche classi sociali. Oggi è sempre più evidente che le ripetute, insensate politiche di austerità, il sottosviluppo perenne dei paesi periferici del mondo, e le crisi che investono l’umanità come disoccupazione, emergenze sanitarie e crisi migratorie, sono direttamente o indirettamente correlate alle politiche neoliberiste. E allora, come si spiega questa prevalenza, e in che modo è possibile cambiare prospettiva?
* * * *
Come docente universitario trovo spesso che i miei studenti danno per scontata l’ideologia economica dominante odierna – il neoliberismo – come naturale e inevitabile. Ciò non sorprende, dato che molti di loro sono nati nei primi anni ’90, quindi il neiliberismo è l’unica cosa che hanno conosciuto. Negli anni ’80, Margaret Thatcher dovette darsi da fare per convincere la gente che “non c’era alcuna alternativa” al neoliberalismo. Ma oggi questa convinzione è già radicata; è nell’aria, parte del corredo pratico della vita quotidiana, e generalmente accettata come dato di fatto sia a destra che a sinistra. Ma non è sempre stato così. Il neoliberismo ha una storia specifica, e conoscerla è un importante antidoto alla sua egemonia, poiché dimostra che l’ordine presente non è naturale né inevitabile, ma che è invece recente, che ha un’origine precisa e che è stato progettato da persone particolari con interessi particolari.
Per la maggior parte del XX secolo, le politiche di base che costituiscono l’ideologia economica oggi ritenuta standard sarebbero state respinte come assurde. Politiche simili erano state sperimentate in passato con effetti disastrosi, e la maggior parte degli economisti era passata ad abbracciare il pensiero keynesiano o qualche forma di socialdemocrazia.
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Lenin e la situazione rivoluzionaria
di Renato Caputo
È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti.
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Le paure della buona coscienza
di Rolando Vitali
«ll modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.» K. Marx. Per la critica dell’economia politica
Sta accadendo, ancora una volta: stiamo attivamente costruendo la base di consenso della reazione e nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo già scivolando nella contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra diritti umani e nazismo ecc. che vede la repubblica dei buoni e dei giusti da una parte, e l’abiezione dei disumani dall’altra. Ma come facciamo a non renderci conto che facendo nostra questa divisione non solo contribuiamo al consolidamento dell’egemonia salviniana, ma soprattutto contribuiamo anche ad impedire che una reale alternativa politica progressista possa costruirsi?
Ormai è sempre più chiaro come, ancora una volta, la maggior parte delle forze progressiste italiane si trovi del tutto disarmata nell’interpretare la fase attuale senza cadere in forme di subalternità esiziali per ogni capacità di costruire un’alternativa autonoma. Ancora una volta assistiamo alla totale incapacità di esprimere una posizione politica non subalterna. Ancora una volta siamo schiacciati tra due forme di reazione diverse: liberismo liberale da una parte e liberismo autoritario dall’altra. E stiamo più o meno tutti contribuendo gioiosamente a consolidare questa contrapposizione, ancora una volta…
Da una parte, coloro che scivolano progressivamente nella galassia reazionaria, attratti dalla forza gravitazionale della sua indubitabile effettualità: questi ultimi guardano tutto sommato con soddisfazione al cosiddetto “cambio di rotta” impresso da Salvini e dall’attuale governo, identificandosi supinamente non solo alla narrazione dell’avversario che vuole i migranti prima causa della contrazione dei salari, ma soprattutto alla dicotomia tra universalismo astratto e particolarismo reazionario.
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Mutamenti dello scenario geopolitico e geoeconomico
Giuseppe Molinari intervista Andrea Fumagalli
Con l’intervista a Raffaele Sciortino abbiamo avviato una riflessione sui mutamenti degli scenari geopolitici e geoeconomici mondiali che si stanno determinando. L’interesse è quello di ricomprendere le mosse di breve periodo in un piano di lungo corso e inscrivere le tattiche adoperate dagli attori globali in una strategia complessiva. La partita che si sta giocando è molto più profonda di quello che può sembrare ad un occhio non attento: ad essere in palio, infatti, sono le stesse gerarchie capitalistiche. Questa volta ne parliamo con Andrea Fumagalli, a partire dai passaggi che si sono definiti negli ultimi tempi.
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Che scenario si sta dando sul piano mondiale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico? Pensi che il dominio economico e finanziario statunitense stia giungendo al termine? E’ possibile immaginare un processo di “de-dollarizzazione” considerato anche il sempre maggior peso che sta assumendo il renmimbi cinese?
Io credo che siamo di fronte ad una fase di passaggio nella definizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici. Ma, oggi più che mai, a mutare sono i secondi, visto che la messa in discussione delle gerarchie geoeconomiche è già avvenuta nel corso degli ultimi 15 anni, con il cambiamento dei rapporti economici tra Occidente (impersonato soprattutto dagli U.S.A. dopo il grande sviluppo tecnologico della Net Economy e della Silicon Valley) ed Oriente (essenzialmente Cina ed India). Da questo punto di vista, oggi possiamo dire che l’economia cinese ha una dinamica sicuramente più efficiente rispetto a quella statunitense, anche per via delle caratteristiche del sistema cinese, che utilizza un misto di elementi di modernità e di antichità. La modernità sta nella capacità di assumere la leadership nella dinamica tecnologica: le statistiche dell’Ocse ci rivelano come, sin dal 2007/2008, la Cina sia il paese che investe di più nel mondo in R&S e come, dal 2010/2011, l’economia cinese sia trainata dai settori a più alto impiego di tecnologia.
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Cos’è, per noi, la sovranità?
di Francesco Valerio della Croce*
Note di contributo alla discussione congressuale del PCI sul tema della sovranità
Queste righe vengono scritte all’indomani della terribile notizia della morte del compagno Domenico Losurdo. Ed è, quindi, impossibile non prendere le mosse da alcuni spunti importanti della sua elaborazione nel nostro approccio ad un tema che tiene sempre più banco nel dibattito politico nazionale ed internazionale: quello relativo alla sovranità e alle problematiche che essa attraversa (questione nazionale, sovranità costituzionale, sovranità democratica, ecc.).
Assai brevemente, è opportuno ricordare parole fondamentali del prof. Losurdo pronunciate alla prima assembla di lancio dell’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista, a fine dicembre del 2014:
“Per primo il comunismo italiano ha saputo capire la questione nazionale. Per primo Antonio Gramsci ha saputo capire che l’universalismo, l’internazionalismo, deve essere al tempo stesso collegato alla questione nazionale. Gramsci ha detto che Lenin è stato un grande internazionalista, anche perché era profondamente radicato sul terreno nazionale russo. E se appunto noi non riusciamo a capire questo collegamento tra internazionalismo e questione nazionale, certo non capiamo il socialismo dalla caratteristiche cinesi ma rinnegheremmo anche la storia e il patrimonio del movimento comunista e del Partito Comunista Italiano.“
Con queste parole, il prof. Losurdo ci ha ricordato il legame indissolubile tra questione nazionale ed internazionalismo, un elemento costante della teorizzazione e della prassi del movimento comunista internazionale, con un peculiare avamposto nella piena consapevolezza di tale inscindibile nesso da parte della storia del comunismo italiano, a partire dai contributi di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti a riguardo.
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Il rosso e il nero
di coniarerivolta
Pubblichiamo un intervento sul complesso intreccio tra immigrazione e lotta di classe. Molti, troppi, propongono una stretta sui flussi migratori invocando Marx: Marx si maneggia con cura, e quindi proviamo a fare un po’ di chiarezza
L’arrivo di Matteo Salvini al Viminale ha portato, in maniera non sorprendente, a un imbarbarimento del dibattito riguardo agli sbarchi di immigrati. Ci sono pochi dubbi sul fatto che i propositi e gli atti bellicosi del Ministro dell’Interno siano soprattutto un modo per nascondere l’inconsistenza del governo gialloverde riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione Europea: appena si è trattato di scegliere se prendersela con le istituzioni che in questi anni ci hanno condannato a recessione, disoccupazione e bassi salari, o con gli immigrati, la Lega non ha avuto dubbi. Per condurli a miti consigli, è bastato poco.
Ciò che è più sorprendente è che molti, a sinistra, sembrano essere d’accordo con le dichiarazioni e le scelte del ministro leghista, in maniera più o meno esplicita. La ragione per questa innaturale convergenza tra persone sedicenti di sinistra e un ministro notoriamente razzista e di destra va ritrovata nel fatto che, secondo gli esponenti di questa strana corrente di pensiero gli immigrati contribuirebbero automaticamente alla riduzione dei salari dei lavoratori autoctoni. Per giustificare questa conclusione, essi ricorrono addirittura a Marx e al suo concetto di “esercito industriale di riserva”. Gli immigrati contribuirebbero ad alimentare tale “esercito”, offrendosi di lavorare per un salario sensibilmente inferiore rispetto a quello dei lavoratori italiani, e finirebbero per far ridurre i salari di tutti i lavoratori.
Chiaramente, non si può negare che il fenomeno migratorio ponga oggettivamente grandi difficoltà quando si ragiona in termini di lotta di classe. Non ci si può nascondere il fatto che un grande afflusso di immigrati possa essere sfruttato in modo tale da favorire il capitale a scapito dei lavoratori (immigrati e non). Vedremo, però, che molti dei ragionamenti utilizzati per adottare una posizione di irrigidimento e regolamento dei flussi migratori poggiano su basi incerte, se non palesemente sbagliate.
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L’Italia e lo scherno tedesco
di Von Thomas Steinfeld
Il 16 giugno scorso la Suddeutsche Zeitung, un giornale tedesco di qualità secondo solo alla FAZ, ha pubblicato un articolo sull'Italia che cita Chi non rispetta le regole? L'articolo è molto confuso e ci tratta comunque da sconfitti, anche se sul finale mostra qualche apertura. Anche la citazione del libro non sembra coglierne il senso
L’Italia si sta autodistruggendo? Dal punto di vista tedesco, a molti sembrerebbe di si. Ma non per gli italiani.
Che ci sia un “Europa dei Vinti”, e’ chiaro dall’inizio della cosiddetta crisi finanziaria, cioe’ da circa 10 anni. Da allora, la ricchezza dei paesi che si sono uniti nella comune moneta europea (euro) cresce poco, almeno se confrontata con quella della Cina o degli Stati Uniti.
Prima questo era diverso: fino a quando c’era stata una crescita degna di questo nome, ogni singolo stato della comunita’ aveva potuto crescere, qualcuno di piu’, qualcuno di meno. Ma da quando non cresce quasi piu’ niente, vince solamente colui che lo fa a spese degli altri. Vinti e vincitori divergono palesemente e questo e’ tanto piu’ evidente quanto piu’ rigide sono le regole della competizione alle quali gli uni e gli altri si sono impegnati a sottostare. E quando un paese appartiene ai vinti, anno dopo anno: come possiamo dirci veramente sorpresi, se questo paese non vuole piu’ impegnarsi a rispettare le regole, o addirittura sogna di abbandonare la competizione? Questa e’ la condizione in cui si trova, dopo le ultime elezioni, la terza economia dell’Unione Europea: l’Italia.
Il paese ha trascurato “dieci anni di competitivita’ ” ha sostenuto di recente Hans Werner Sinn, uno dei piu’ famosi economisti tedeschi. Dal punto di vista italiano, le ragioni del fallimento sono altre. Perche’ là (in Italia) la storia del paese, dopo la seconda guerra mondiale, viene presentata come una catena di enormi sforzi collettivi, e cioe’ l’aver acquisito quella capacita’ di essere competitivi – che si misura (compete) con i successi dei paesi del nord e della Germania in particolare.
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False scelte: globalismo o nazionalismo
di Greg Godels*
Nel novembre del 2008, nel mezzo della più grave crisi economica mondiale dalla Grande Depressione, scrissi che l'era dell'internazionalismo globale - la cosiddetta "globalizzazione" - stava volgendo al termine. Le "forze centrifughe" agendo in senso autoconservativo si attivavano, separando alleanze, blocchi, istituzioni comuni e forme di cooperazione:
«La crisi economica ha invertito il processo post-sovietico di integrazione internazionale, la cosiddetta "globalizzazione". Allo stesso modo che durante la Grande Depressione, la crisi economica ha colpito le diverse economie in modi difformi l'una dall'altra. Nonostante gli sforzi per integrare le economie mondiali, la divisione internazionale del lavoro e i livelli diversi di sviluppo precludono una soluzione unificata alla crisi economica. I deboli sforzi nell'azione congiunta, nelle conferenze, nei vertici, ecc, non possono avere successo semplicemente perché ogni nazione ha interessi e problemi diversi: condizione che diventerà sempre più acuta man mano che la crisi si intensifica... È altamente improbabile che l'Unione [europea] troverà soluzioni comuni. In effetti, il disfacimento dell'UE è una eventualità.»
Un decennio dopo, dovrebbe essere evidente che questo pronostico anticipava l'ascesa e la crescita del nazionalismo economico, una tendenza politica che minaccia di spazzare via le istituzioni e le politiche del globalismo del libero mercato. Proprio come il fallimento del consenso keynesiano nel fronteggiare la nuova crisi negli anni '70 determinò l'ascesa del fondamentalismo di mercato (il cosiddetto "neoliberismo") e il suo successivo consolidamento internazionale come consenso questa volta alla "globalizzazione", così lo shock del 2007-2008 ha portato alla ribalta le debolezze, le carenze e i fallimenti del fondamentalismo di mercato. Di conseguenza, la politica dei mercati globali aperti ingaggia ora una lotta per la vita o la morte contro il nazionalismo economico. In larga misura, gli stati capitalisti più grandi si stanno ritirando verso un interesse nazionale aggressivo e intensificano la competizione globale.
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Sorteggiare i governanti?
Da "Solar Lottery" di Philip Dick a David Van Reybrouck
di Damiano Palano
Criticando una vecchia idea e nuove sperimentazioni
Con una delle sue provocazioni, Beppe Grillo ha in questi giorni proposto di designare i membri del Senato mediante un sorteggio e non con le elezioni. Il sorteggio fu in effetti a lungo lo strumento privilegiato dalle democrazie antiche e dalle repubbliche medievali, che diffidavano delle elezioni, ritenute strumenti destinati a favorire i gruppi sociali più abbienti. E anche di recente varie voci (tra cui quella di David van Reybrouck) hanno sostenuto l'opportunità di integrare i meccanismi elettivi con il ricorso al sorteggio, e alcune sperimentazioni hanno tradotto in pratica (con molti limiti) questa idea.
A proposito di questa discussione, "Maelstrom" ripropone un articolo, apparso in origine sulla rivista "Spazio filosofico", dedicato proprio a una lettura del pamphlet "Contro le elezioni" di van Reybrouck e all'ipotesi di tornare a sorteggiare i detentori delle cariche pubbliche.
* * * *
Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico.
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I migranti e la lunga notte dell’Europa
di Antonio Lettieri
Il Consiglio europeo che doveva affrontare la questione ha dovuto accettare il principio che si tratta di un problema comune per evitare il veto dell’Italia, ma ha demandato tutto alla volontarietà dei vari paesi. Subito dopo Macron e Merkel con le loro dichiarazioni hanno in pratica dissolto l’accordo. Nessuno potrà stupirsi se al prossimo Consiglio l’Italia porrà il veto, aprendo una crisi che forse potrebbe salvare l’Ue dalla sua pratica autodistruttiva
All’apparenza la riunione del Consiglio europeo del 28-29 giugno si è conclusa sul punto delle migrazioni, che era il principale, con un nulla di fatto. In realtà, ha brutalmente rivelato il volto duro e ostile dell’Europa nei confronti del più grande dramma del nostro tempo. L’Italia si era battuta per far passare il principio che la questione delle migrazioni non riguarda solo l’Italia, ma L’Europa. “Chi attraversa il Mediterranee, ha sostenuto Giuseppe Conte, intende entrare in Europa”.
Per far passare questo principio, che sembrerebbe ovvio, ha minacciato il veto dell’Italia sulle conclusioni del Consiglio. Poi, il principio è entrato nella risoluzione finale, affermando che gli stati membri dell’UE avrebbero, su una base “volontaria”, aperto le loro porte ai migranti. La clausola della volontarietà era obbligata dal fatto che. come si sapeva in partenza, i paesi di Visegrad, sotto la guida dell’ungherese Orban, non avrebbero accettato l’ obbligo di suddivisione dei flussi migratori. Germania e Francia avevano alla fine accettato il principio del coinvolgimento dell’UE che, nei fatti, superava la minaccia del veto italiano alla risoluzione finale – veto che avrebbe aperto una crisi esistenziale nel funzionamento dell’UE.
Il negoziato, per molti versi drammatico, si era concluso dopo una lunga notte, all’alba del 29 giugno, con un voto unanime, quando, nelle ore immediatamente successive, Macron, che aveva concordato col capo del governo italiano il documento finale, faceva sapere che la Francia non avrebbe accolto nessun migrante. E che sarebbe spettato ai paesi dove i migranti sbarcavano organizzare campi “chiusi”, in pratica campi di detenzione, adatti a impedirne il passaggio verso altri stati dell’Unione. Quanto alla Germania, Angela Merkel si dichiarava solo parzialmente soddisfatta, ribadendo l’obiettivo di rinviare nei paesi di primo approdo gli immigrati passati, senza esserne autorizzati, in Germania: una pretesa irragionevole accettata da Grecia e Spagna, ma respinta dall’Italia.
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Storia e impotenza politica [*1]
Mobilitazione di massa e forme contemporanee di anticapitalismo
di Moishe Postone
Tutti sanno che l'inizio degli anni '70 ha coinciso con un'era di massicce trasformazioni strutturali dell'ordine mondiale, spesso descritte come il passaggio dal fordismo al post-fordismo (o, più esattamente, dal fordismo al capitalismo neoliberista globalizzato, passando per il post-fordismo). Questa trasformazione della vita sociale, economica e culturale, che si è tradotta nello smantellamento dell'ordine centrato sullo Stato, tipico della metà del XX secolo, è stata altrettanto radicale di quanto fu la precedente transizione che portò dal capitalismo liberale del XIX secolo alle forme burocratiche del XX secolo, segnate dall'interventismo statale.
Questo processo ha portato dei profondi cambiamenti non solo nei paesi capitalisti occidentali, ma anche nei paesi comunisti, e ha portato al collasso dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo, così come a delle trasformazioni radicali in Cina. In seguito a questo, molti hanno ritenuto che avrebbe sancito la fine del marxismo e, più in generale, la fine della validità teorica della teoria critica di Marx. Tuttavia, questi processi di trasformazione storica, allo stesso tempo, hanno riaffermato l'importanza cruciale della dinamica storica e dei cambiamenti strutturali su grande scala. È precisamente questa problematica, che si trova al cuore della teoria critica di Marx, ciò che sfugge a tutte le principali dottrine formulate immediatamente dopo la fine del fordismo - quelle di Michel Foucault, di Jacques Derrida e di Jürgen Habermas. Tutte le recenti trasformazioni finiscono per farle apparire come delle teorie retrospettive, che concentrano la loro critica sull'epoca fordista, ma che non sono adeguate all'attuale mondo post-fordista. Sottolineare la problematica della dinamica e delle trasformazioni storiche, permette di chiarire sotto un'angolazione differente un certo numero di questioni importanti.
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