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Ciò che è vivo e ciò che è morto della scuola di Don Milani
di Mauro Piras
[Il 26 giugno 1967 moriva, a 44 anni, Don Lorenzo Milani. Dedico questo intervento agli studenti e ai colleghi della 5D Servizi Socio-sanitari dell’Istituto Professionale “Elsa Morante”, Firenze]
Una scuola che seleziona distrugge la cultura.
Ai poveri toglie il mezzo d’espressione.
Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose.
(Lettera a una professoressa)
Si parla fin troppo di Don Milani, quest’anno. Tutto è iniziato con un paio di articoli molto polemici. Uno di Lorenzo Tomasin sul Sole24ore, che denuncia nella Lettera a una professoressa una cultura del risentimento e dell’odio di classe (qui). Un altro di Paola Mastrocola, che da diverso tempo, periodicamente, accusa il “donmilanismo” di essere il male della scuola italiana, l’inizio di una decadenza che avrebbe portato all’abbandono dello studio serio “delle nozioni”, dell’italiano e della letteratura, a favore di attività di “intrattenimento” vaghe e inutili (qui). Sono seguiti diversi interventi di segno contrario che hanno, a volte con tono un po’ agiografico, difeso l’idea di scuola di Don Milani, o hanno ricostruito con più attenzione il contesto storico (Vanessa Roghi) o il senso del progetto pedagogico (Italo Fiorin); oppure, ultimamente, hanno cercato di pesare meglio i pro e i contro (Franco Lorenzoni). Fino alla visita del Papa a Barbiana, il 20 giugno scorso.
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Che unità?
di Dario Leone
Ricostruire l’unità dei comunisti e non di una sinistra senza identità
La “Sinistra” è un contenitore categoriale. L’attore sociale ragiona per categorie che sono logiche semplificative volte al cosiddetto “risparmio energetico mentale”. In un’ epoca di spendig review psico intellettuali, non stupisce che la categoria politica di cui parliamo non sia affatto riempita di profilo identitario. Leggendo i giornali chiunque, ormai, può rientrare in questo contenitore che a poco a poco sembra assumere le sembianze di un buco nero dove tutto entra e tutto si perde. Del resto appartengono alla Sinistra la socialdemocrazia, il socialismo, il craxismo, il socialismo rivoluzionario ed il comunismo stesso. Tra le varie famiglie di questo articolato puzzle rari sono gli esempi di azione politica volta al superamento del Capitalismo.
Dentro questa indefinibile nebulosa si sviluppa la riflessione che appassiona le varie anime della sinistra italiana (e di qualche partito comunista) mosse dalla necessità di costruire l’unità della sinistra stessa.
Ma a cosa servirebbe questa unità? Per fare cosa? Concettualmente l’obiettivo è quello di “spostare più a sinistra” l’asse decisionale di future coalizioni sovente costruite con monoliti liberisti che, in un impari rapporto di forza, finiscono per rendere gli alleati invisibili e del tutto inconcludenti sulle principali questioni politiche di loro interesse.
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La crisi dell’UE e le memorie divise dell’Europa
Leonardo Paggi, Geoff Eley, Wolfgang Streeck
Pubblichiamo la traduzione di alcuni estratti da un’intervista di Carlo Spagnolo (Università di Bari) con Geoff ELEY, Università del Michigan (G.E.), Leonardo PAGGI, Università di Modena (L.P.), e Wolfgang STREECK, Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung, Colonia (W.S.), già pubblicati in lingua inglese sul Blog di Sergio Cesaratto (Università di Siena) [e su Sinistrainrete]. L’intervista sarà prossimamente pubblicata integralmente su “Le memorie divise dell’Europa dal 1945”, volume monografico della rivista “Ricerche Storiche”, n. 2/2017. Questo eccezionale documento è un dialogo illuminante sulle cause dell’attuale crisi europea, e sui possibili scenari che si prospettano per l’Unione, i paesi membri, ed i popoli europei.
* * * *
1. Fin dai suoi inizi, l’integrazione europea ha incontrato resistenze e attraversato fasi di stasi e di involuzione, ma la crisi odierna presenta caratteristiche inedite e ben più gravi. A partire dalla bocciatura del trattato costituzionale in Francia e Olanda nel 2005 abbiamo assistito alla crescita di movimenti “populisti” nazionali contrari all’immigrazione e alla deregolamentazione del mercato del lavoro, ad una rinascita del nazionalismo in diversi paesi ed al voto a favore della Brexit del 23 giugno (2016).
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Reddito contro lavoro? No, grazie
di Giovanna Vertova
Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri).
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L’Unione Europea nella globalizzazione
di Franco Russo
USA: lo stato profondo
Quest’articolo ha uno scopo delimitato: esaminare gli orientamenti e le iniziative degli organi dell’Unione Europea (UE), o di suoi influenti rappresentanti, relativamente all’attuale fase della globalizzazione, dopo che dagli USA il presidente Trump ha fatto risuonare il grido America first! Una prima reazione di commentatori, di esperti e anche di militanti della sinistra anticapitalista hanno frettolosamente reagito affermando che il ciclo della globalizzazione si era ormai chiuso e hanno profetizzato il ritorno al protezionismo a difesa degli interessi nazionali. Dunque, fine imminente della globalizzazione e rinascita dei conflitti tra Stati nazionali, chiamati a sostenere i rispettivi capitalismi. Paradossalmente queste posizioni tradiscono una visione tipica dell’ideologia liberale che da Montesquieu in poi ha esaltato il dolce commercio come base per costruire relazioni armoniche e pacifiche tra nazioni ad economia capitalistica, dimenticando che nel mercato mondiale da sempre si sono svolti e, nella sua attuale fase di globalizzazione, si svolgono azioni sia di cooperazione sia di conflitto, anche militare, tra grandi spazi economico-politici.
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Il lavoro? Sempre più irregolare
di Marta Fana
Affrontare il tema del lavoro irregolare presenta ampi margini di complessità legati sia alla natura del fenomeno, che per definizione si sottrae alle informazioni ufficiali, sia alle variegate modalità con cui si presenta.
Stando alle definizioni ufficiali, utilizzate dall’Istat, le unità di lavoro irregolare sono quelle «relative a prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia lavoristica, fiscale e contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative»[1]. Dal quadro d’insieme, riportato dall’Istituto Nazionale di Statistica e aggiornato fino al 2014, emerge che il contributo al pil del lavoro irregolare ammonta a 77,2 miliardi di euro, corrispondente a circa il 5,3% del valore aggiunto totale. A questi dati corrisponde una stima di 3 milioni 667mila unità di lavoro irregolare, di cui 2 milioni 595mila relative a posizioni di lavoro subordinato e 1 milione e 72mila a lavoro indipendente (o autonomo).
L’irregolarità aumenta rispetto ai primi anni della crisi (2011) di oltre 100 mila unità, effetto probabilmente dovuto alla tendenza delle imprese a ridurre il costo del lavoro al fine di non essere espulse dal mercato e allo stesso tempo alla disponibilità dei lavoratori ad accettare un rapporto di lavoro anche non regolare per evitare una contrazione drastica del reddito dovuta alla disoccupazione.
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Trenkle, Lohoff, “Terremoto nel mercato mondiale”
di Alessandro Visalli
Il libricino a cura di Massimo Maggini, raccoglie due interventi del “Gruppo Krisis”: un breve saggio di Norbert Trenkle del 2008, a maggio, di poco antecedente alla piena manifestazione della crisi, quando si stava affannosamente da circa un anno cercando di chiudere i focolai che si aprivano ora in una banca, ora in una istituzione assicurativa; un’intervista a Lohoff e Trenkle del 2012, sul difficile problema del “capitale fittizio”.
Il “Gruppo Krisis” da una trentina di anni si occupa di sviluppare una critica radicale di ispirazione marxista e nasce su iniziativa di Robert Kurz (che è scomparso nel 2012), Ernst Lohoff, Ptere Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle, intorno ad una rivista edita dal 1986. Nel 2004 si avvia una spaccatura tra il gruppo di krisis e Kurz, che fonda una sua nuova rivista, Exit. Una lettura di alcuni motivi di questa divergenza teorica si possono leggere in un articolo di Lohoff pubblicato in italiano da Sinistrainrete, “Due libri, due punti di vista”, in cui mette a confronto le tesi del suo libro “La grande svalorizzazione”, con quelle del libro di Kurz “Denaro senza valore”. Inoltre, sempre su Sinistrainrete, l’intervista di Kurz, “La teoria di Marx, la crisi e l’abolizione del capitalismo”. Degli stessi autori si può leggere in italiano: il “Manifesto per il lavoro”, del 2003, di Kurz, Trenkle, Lohoff; “Ragione sanguinaria”, del 2014, di Kurz sulla critica dell’illuminismo; “Le crepe del capitalismo”, del 2015, di Kurz; “Crisi: nella discarica del capitale”, del 2014, di Trenkle e Lohoff.
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Un “ponte sull’abisso”. Lenin dopo l’Ottobre
di Alexander Höbel
Cent’anni dalla grande rivoluzione sovietica: un bilancio storico, un’indicazione per l’oggi
In occasione del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si sta opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato di sé l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla nostra stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale approfondire il significato ma anche i problemi di quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello di sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse, in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917. La consapevolezza di tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza storica.
All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione. Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il pregiudizio assurdo [...] secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...] possono dirigere lo Stato [...].
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Beni Comuni
Oltre il mercato e lo Stato. Oltre il pubblico e il privato
Stefano Rodotà
Pubblichiamo la prefazione all’edizione italiana del libro di Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, 2015
La riflessione sui beni comuni si è diffusa nelle direzioni e nei luoghi più diversi, si insinua in vario modo nel discorso pubblico, si è candidata a divenire l’unica via possibile per una trasformazione rivoluzionaria. La sfida è ardua, come ben si vede, e questo libro ne è la prova. E non poteva essere diversamente, perché attraverso il riferimento ai beni comuni si affronta il nodo di questa fase storica che ha visto il ritorno della proprietà come misura di tutte le cose, nella forma estrema della sua dematerializzazione, della sua astratta inafferrabilità come capitale finanziario. Non è certo un caso che il ritorno dell’attenzione per i beni comuni sia avvenuta all’insegna dell’«opposto della proprietà».
Oltre il mercato e lo Stato, oltre il pubblico e il privato. Oltre, dunque, le categorie costruttive della modernità. Dove si colloca questa dimensione?
Ma come deve essere intesa questa opposizione, quali sono i suoi luoghi, quali le sue forme? Questa è una domanda che rinvia a una molteplicità di situazioni, a forme che sfuggono alla riduzione a denominatori comuni, a una ricchezza di esperienze che mostrano una realtà che deve essere analizzata e intesa nelle sue articolazioni.
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Se Il Capitale fosse stato scritto oggi
di Pietro Basso (*)
Ogni grande opera dell'ingegno umano risente, inevitabilmente, del suo tempo. Questo è vero anche per Das Kapital, un monumento dell'ingegno umano che non perde forza né attualità con il passare del tempo, e semmai, sull'essenziale, ne acquista. E tuttavia chi lo affronta non può non sentire fin da subito, nella forma dell'esposizione anzitutto, l'eco delle dispute scientifiche e culturali di metà Ottocento. Non mi riferisco tanto allo stile della scrittura che ricevette un'impensabile stroncatura senza appello proprio dalla più acuta allieva di Marx, Rosa Luxemburg, che in una lettera del marzo 1917 ebbe a scrivere: "il famosissimo primo volume del Capitale di Marx, con il suo sovraccarico di ornamenti rococo in stile hegeliano, per me adesso è un orrore"1 . Mi riferisco piuttosto alla struttura, alla sequenza della esposizione della materia. E, nello specifico, al modo in cui la materia è organizzata e esposta nel I Libro. Pongo la questione nel modo più chiaro possibile: perché Marx comincia dalla immane raccolta di merci, cioè dal modo di produzione capitalistico già formato, dal capitale-merce come risultato del processo di sviluppo dei rapporti sociali capitalistici, e non invece dalla cosiddetta accumulazione originaria, e cioè dal punto di partenza del modo di produzione capitalistico? Cosa l'ha obbligato a fare questa scelta?
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Podemos non è nato per ricostruire la sinistra
Le Vent Se Lève intervista Juan Carlos Monedero
Traduciamo qui un’intervista di Le Vent Se Lève a Juan Carlos Monedero, cofondatore di Podemos e professore di scienze politiche all’Università di Madrid
Si sente spesso dire che Podemos è nato sulla base di un’«ipotesi populista» costruita a partire dai lavori del teorico argentino Ernesto Laclau e delle esperienze latino-americane. Sei stato uno dei primi fondatori del partito ad opporsi a questa «ipotesi», considerandola una “tattica” più che una “strategia”. In effetti, già in un articolo apparso nel giugno 2015 presentavi le debolezze di questa impostazione. Potresti tornare su queste critiche in merito alla logica populista?
Ernesto Laclau non ha avuto alcuna influenza nella creazione di Podemos: questa è stata un’intellettualizzazione a posteriori. Sapevamo quello che dovevamo fare, non perché un teorico ce l’aveva dettato, ma prima di tutto grazie alle nostre esperienze in Spagna e America Latina: sapevamo che non bisognava più parlare di destra e di sinistra, sapevamo che la vita politica mancava di emozione. Lo sapevamo non per aver letto Spinoza, ma perché potevamo percepirlo grazie alle nostre stesse esperienze.
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La crisi della riproduzione e la formazione di un nuovo “proletariato ex lege”
Francesca Coin intervista Silvia Federici
Negli anni Settanta siete state le prime a parlare contro il lavoro domestico mostrando come il processo di accumulazione nelle fabbriche iniziasse sul corpo delle donne. Cosa è cambiato in questi anni?
Il lavoro gratuito è esploso, quello che noi vedevamo allora dall’angolatura specifica del lavoro domestico si è diffuso a tutta la società. In verità, se guardiamo alla storia del capitalismo vediamo che l’uso del lavoro non pagato è stato enorme. Se pensiamo al lavoro degli schiavi, al lavoro di riproduzione, al lavoro agricolo dai campesinos ai peones in condizioni di semi-schiavitù, ci rendiamo conto che il lavoro salariato è stato in realtà una minoranza circondata da un oceano di lavoro non pagato. Oggi questo oceano continua a crescere nelle forme di lavoro tradizionali ma anche in forme nuove, perché ora anche per accedere al lavoro salariato devi fare quantomeno una parte di lavoro non pagato. In Grecia mi hanno detto che ormai è necessario fare sei o sette mesi di lavoro non pagato nella speranza di trovare un lavoro pagato, quindi in varie situazioni si ripete la stessa dinamica: ti assumono a titolo gratuito, lavori sei o sette mesi e poi ti lasciano a casa. La coercizione del lavoro non pagato è ormai una pratica sempre più diffusa.
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Cialtroni e fake news nella guerra al Venezuela
di Fabrizio Casari
MANAGUA. L’aggressione politica, diplomatica e mediatica verso il Venezuela ha ormai oltrepassato i limiti dell’ossessione. A sostegno di una opposizione inguardabile, sostenuta da Washington e dai paramilitari colombiani, sono scese in campo forze e personaggi di ogni ordine e grado. Nell’opera di mistificazione spiccano i media (tra tutti la CNN) che sulla realtà venezuelana spacciano fake news senza pudori, realizzando i loro reportage sotto dettatura dei partiti di opposizione.
A cominciare dal definire una “dittatura” un paese nel quale si è votato 19 volte negli ultimi 15 anni e dove solo in due di queste ha vinto la destra. Stando alla Fondazione di Jimmy Carter - ex presidente USA, non un chavista - il sistema elettorale venezuelano “è il migliore del mondo e vi partecipa l’80% della popolazione avente diritto".
Tra le cose che non vengono raccontate c’è che l’acutizzarsi dello scontro ha origine in un conflitto tra i poteri dello Stato, nato dalla decisione del Tribunale elettorale di non riconoscere la validità dell’elezione di 3 deputati dell’opposizione nella zona amazzonica.
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Di Maio, Almirante e Berlinguer
La post-ideologia “postmoderna” del M5S
Matteo Luca Andriola
Durante una diretta a Porta a Porta Luigi Di Maio, candidato in pectore del MoVimento 5 Stelle a premier e Vicepresidente della Camera, ha detto: “Portiamo avanti i valori di Berlinguer, di Almirante e della Dc”. Detta così, su due piedi, la cosa mi ha fatto francamente ridere. Scomodare i leader di due fra più importanti partiti protagonisti della sinistra e della destra italiana, il PCI e il MSI, uno di sinistra e uno neofascista, e addirittura la Democrazia Cristiana, che ha governato l’Italia ininterrottamente dal dopoguerra al 1992, forse è troppo, ma la scelta non è stata affatto casuale, dato che Il Fatto Quotidiano – che guarda a tale area da quando è diretto da Marco Travaglio – riportava che è stato «Un modo per ribadire che con i Cinquestelle si superano le ideologie del passato.» Perché se da una parte abbiamo la necessità di elaborare in modo distaccato e dialettico la storia del Novecento, un bisogno di analisi storiografiche che apra a nuovi campi d’indagine, qui avviene l’esatto contrario. De Maio non si limita, qualunquisticamente, a mettere sullo stesso piano Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e uno dei più importanti partiti centristi di area cattolica, ma eleva l’oblio della memoria storica a paradigma, usando l’indistinzione come metro di misura per rapportarsi col passato, magari non tutto da buttare.
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Il "Noir" nella Città di Quarzo
di Ubu Re
Tratto dall'affascinante libro di Mike Davis "La Città di Quarzo" (Manifestolibri - 1993), un potente affresco dedicato al "noir" dove si intrecciano politica, letteratura, cinema e vicende umane, sul grandioso sfondo di una dura e "postmoderna" metropoli, che allora era il futuro e oggi, forse, il passato: Los Angeles.
Ho inserito, naturalmente, musica per i pazienti: Swans, Dead Kennedys, X e Art Pepper
Noirs!
Nel 1935, il famoso scrittore radical Lewis Corey (il cui vero nome era Louis Fraina) annunciò nel suo Crisis of the Middle Class che il «Sogno Jeffersoniano» era moribondo: «Quell’ideale middle class è finita, e non la si può far risorgere. Oggi gli Stati Uniti sono una nazione di lavoratori dipendenti e di diseredati». In un momento in cui contabili senza lavoro e agenti di borsa in rovina stavano in coda per un piatto di minestra a fianco di camionisti e di operai delle acciaierie, il bigottismo middle class degli anni ’20 era ormai costretto a nutrirsi solo di un obsoleto orgoglio di classe. Corey avvertiva che una classe media in caduta verso il basso, «in guerra con se stessa», stava avvicinandosi a grandi passi a un crocevia radicale, dal quale si sarebbe diretta o verso il socialismo o verso il fascismo.
L’evocazione del duplice fenomeno di pauperizzazione e di radicalizzazione della classe media trovava un riscontro letterale e appropriato a Los Angeles nei primi anni ’30, più che in qualsiasi altra parte del paese.
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Appropriazione indebita teorica
di Peter Samol
La strana versione del concetto di "lavoro improduttivo" in Robert Kurz e come la sua risposta alle critiche aumenti la confusione
Presentazione
Uno dei dibatti più importanti sull'opera marxiana è quello che tratta della definizione di lavoro produttivo. Fondamentale, ai fini della comprensione più profonda dei significati della critica dell'economia politica, questo dibattito non si è mai trovato ad essere in primo piano fra gli epigoni, gli interpreti o i detrattori di Marx, diversamente da quel che è avvenuto con le polemiche intorno agli schemi della riproduzione, o della trasformazione dei valori in prezzi. Tuttavia, dal punto di vista categoriale, il problema del lavoro produttivo precede dal punto di vista logico: non sarebbe possibile comprendere gli schemi allargati di riproduzione, senza una distinzione rigorosa fra il "lavoro che aggiunge valore" ed il "dispendio improduttivo di forza lavoro" (Marx), così come non ha senso discutere su come il valore si manifesta sotto forma monetaria se non si mette al centro la "sostanza" del valore e, di conseguenza, senza conoscere la differenza fra valorizzazione e capitalizzazione.
Nel corso del XX secolo, alcuni autori hanno affrontato questo tema, come è avvenuto per quel che riguarda Isaak Rubin, nel 1923 (La teoria marxista del valore) ed Ernest Mandel, nel 1967 (Il capitale: cento anni di polemiche sull'opera di Marx), ma entrambe le riflessioni hanno naufragato.
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L’età del turismo
Un'industria basata sull'empatia del divertimento
Marco Dotti
Che cosa cerca, che cosa trova, che cosa, al più, spera di trovare o s’impone di cercare il turista impegnato a farsi un selfie davanti a una di quelle cattedrali della simulazione imperfetta che sono le varie “venezie” in replica sparse per il globo?
Prendiamo The World, il parco a tema vicino a Pechino.
Le Piramidi, il Partenone, i moai dell’Isola di Pasqua. Tutte riproduzioni, certamente. Ma, in scala o meno che siano, queste riproduzioni giocano un ruolo nella costruzione di un immaginario, così come i turisti giocano una parte in qualcosa che eccede questo immaginario sfondando in un campo, il “turismo”, che stentiamo a elaborare a pieno. Tutto suona inautentico, in questo gioco fra ruolo e parte, non fosse che per il fatto che una parte di quel tutto, in qualche modo, resiste e sfugge al circolo, fin troppo vizioso, del “post-”.
Anche del turismo odierno si è parlato in termini di post-turismo, forse perché nel fenomeno del turismo di massa e della nozione di “città turistica” che vi si connette si è tardato a cogliere la valenza epocale e il “post”, in questo come in molti altri casi, è valso da esorcismo.
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MicroMega, l’economia con spirito critico
di Carlo Clericetti
Ha ragione Pier Luigi Ciocca, sul fatto che l’uscita dall’euro sarebbe per l’Italia una scelta disastrosa da tutti i punti di vista? O ha ragione Alberto Bagnai, secondo cui queste catastrofi annunciate sono dello stesso tipo di quelle pronosticate per la Brexit, per il referendum costituzionale italiano, per l’elezione di Donald Trump, che non si sono poi verificate? Rispetto a queste posizioni gli economisti si schierano in modo trasversale rispetto sia alle scuole accademiche che alle aree politiche. Una chiara esposizione dell’una e dell’altra tesi si può trovare nell’Almanacco di MicroMega in edicola da questa settimana, con un titolo che è già un programma: “Solo l’uguaglianza ci può salvare”. Per chi si interessa di queste tematiche è una vera miniera di idee e di analisi, con contributi di numerosi studiosi anche di diversi orientamenti.
Ciocca si basa sull’analisi dei comportamenti dei mercati e degli investitori. Le aspettative di svalutazione e inflazione, afferma, farebbero schizzare in alto i tassi d’interesse e crollare i valori patrimoniali; si renderebbe necessaria una politica che darebbe luogo alla terza recessione dal 2007, e questo probabilmente darebbe il colpo di grazia a un sistema bancario già duramente provato. “Le tensioni da economiche diverrebbero sociali, politiche, istituzionali fino a porre a repentaglio le stesse basi democratiche del vivere”.
Bagnai esamina invece ciò che è accaduto in passato in casi assimilabili, e ne trae la conclusione che nulla di tutto questo dovrebbe avvenire. Non una forte inflazione, perché l’esperienza dimostra che la svalutazione del cambio – che non avviene di colpo, ma in un lasso di tempo di alcuni mesi - non si trasferisce sui prezzi: semmai in piccola parte, ma non è neanche detto: dopo la forte svalutazione del ’92, per esempio, l’inflazione scese.
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Ius soli. Calcoli elettorali di breve periodo e "prospettiva Elysium"
di Quarantotto
1. Mi perdonerete se nell'affrontare il problema dello ius soli svolgerò alcune premesse, traendole da argomenti già trattati.
Il problema, come vedremo, è complesso.
Non di meno, se avrete la pazienza di seguire fino in fondo, si tratta di una questione che può essere assunta in una prospettiva diversa da quella che suscita oggi le più grandi (e peraltro legittime) resistenze. E questa prospettiva si può riassumere in un detto: "il diavolo fa le pentole ma non i coperchi".
Tutto, abbastanza naturalmente, parte dalla crisi demografica del nostro Bel Paese...
Ma prima di affrontare un "richiamo" su questo aspetto, mi piace rammentare le parole di Mortati, (per chi si fosse messo "in ascolto" da poche puntate, si tratta del maggior costituzionalista italiano del dopoguerra) il cui senso, vi parrà chiaro leggendo il seguito del post (dalle "Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, pagg.125-126):
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Shakespeare e Il mercante di Venezia
di Enrico Galavotti
Ancora oggi c'è chi sostiene che Shakespeare sia soltanto un nome fittizio dietro cui si celano altri autori. In particolare si pensa a Michelangelo Florio, frate ed erudito fiorentino, di origine ebraica e siciliana, rifugiatosi a Londra dopo una serie di peregrinazioni in varie parti d'Italia per cercare di sottrarsi alle persecuzioni dell'Inquisizione, dal momento che aveva aderito al calvinismo. A Treviso abitò nel palazzo di Otello, un nobile veneziano che, accecato dalla gelosia, aveva ucciso anni prima la moglie Desdemona. A Milano s'innamorò di una contessina, Giulietta, che, dopo essere stata rapita dal governatore spagnolo, decise di suicidarsi.
Ma si pensa anche al figlio di Michelangelo, Giovanni, nato nel 1553, destinato a diventare un grande linguista e traduttore (conosceva perfettamente italiano, francese, tedesco, spagnolo, inglese, latino, greco ed ebraico, oltre alla lingua toscana e napoletana). Shakespeare sarebbe stato, al massimo, un attore-prestanome, senza talento per la scrittura. La moglie del primo Florio aveva come cognome Crolla- o Scrolla - Lanza, che, tradotto in inglese suona proprio come "shake the speare" (scrolla la lancia).
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Natura, lavoro e ascesa del capitalismo
di Martin Empson
Il capitalismo intrattiene un rapporto peculiare, per usare un eufemismo, col mondo naturale. (1) Karl Marx lo ha riassunto al meglio neiGrundrisse, dove ha scritto che con l’ascesa del modo di produzione capitalistico, “la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione”. (2) Nella stessa sezione, egli nota come “il capitale crea dunque la società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società”.
Questo rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale, estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo. Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria immagine:
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Anselm Jappe, “Contro il denaro”
di Alessandro Visalli
Il libricino di Anselm Jappe, un filosofo che insegna in Italia, è del 2013. Appena una cinquantina di pagine, e pure piccole. In pratica come uno dei post più lunghi di questo blog. Tuttavia solleva in modo tutto sommato interessante dei temi centrali anche se lo fa con un linguaggio che per molti può essere desueto, ma in effetti parla di cose che interessano più o meno tutti.
Quando pone la questione, chiaramente marxiana, del valore ‘astratto’ e di quello ‘concreto’ (o connesso con il lavoro “vivo”, quello che facciamo nel tempo reale, appunto, della vita), e della riduzione di questo ultimo nella piattaforma produttiva del nuovo capitalismo, sta ponendo la questione che il lavoro coinvolge in posizione realmente utile, quindi produttiva, sempre meno e gli attribuisce sempre meno valore, dal momento che sempre più è catturato dal capitale (valore “astratto”) e dalle “macchine” (ovvero dall’insieme tecnico che rende possibile l’inserimento di input di lavoro nel circuito che lo rende scambiabile).
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L’ultimo pugno di dollari
Seconda parte. Il Fedcoin
di Alberto Micalizzi
Nella prima parte di questo articolo abbiamo dimostrato che le bolle speculative originate sequenzialmente da precise scelte di politica monetaria hanno consentito di finanziare il deficit commerciale USA ed espandere il PIL americano.
Tuttavia, soprattutto l’ultima di queste bolle, quella “monetaria” iniziata nel 2008, ha prodotto quasi $7.000 miliardi di liquidità in 8 anni che è finita in parte nelle maglie dei mercati finanziari e del sistema bancario, in parte in mano a sottoscrittori esteri (Cina e Giappone in primis) ed in parte ha alimentato una straordinaria impennata del debito privato USA (famiglie, imprese e banche) che nel 2016 ha raggiunto il 250% del PIL.
Tutto ciò pone la FED di fronte al maggiore dilemma di sempre: da un lato non può più abbassare i tassi ed espandere così la massa monetaria; dall’altro, non può aumentare i tassi ed evitare la fuga dal dollaro (già in atto per Cina e Giappone) perché questo provocherebbe costi immensi per interessi passivi alla sfera privata e pubblica dell’economia.
Quindi, il dollaro come strumento supremo di politica monetaria è inutilizzabile! Cosa fare?
L’unica possibilità praticabile è quella di un cambio di valuta, dove la vecchia va pian piano ad estinguersi tramite accordi bilaterali soprattutto con i Paesi creditori e la nuova subentra gradualmente secondo regole e termini che consentano alla FED di riacquisire controllo sul sistema monetario.
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La (ir)rilevanza della teoria economica sull’uscita dall’euro
di Guglielmo Forges Davanzati
Una coscienza culturale europea esiste ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo (Antonio Gramsci, 1931)
A partire dallo scoppio della crisi, non pochi economisti si sono interrogati sui costi e i benefici dell’abbandono dell’euro da parte dell’Italia. Gli argomenti a favore dell’exit sono piuttosto deboli, soprattutto a ragione della impossibilità di prevedere cosa potrebbe accadere. Più in generale, l’intera discussione appare di scarsa rilevanza se si considera che il problema è intrinsecamente politico.
Non vi sono dubbi sul fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’eurozona e le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni siano assolutamente irrazionali.
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Adorno e Marx
di Stefano Petrucciani
Il confronto di Theodor W. Adorno con il pensiero di Marx è un elemento costante della sua riflessione. Ne parla Stefano Petrucciani nel suo appena uscito "A lezione da Adorno" (manifestolibri), una raccolta dei suoi studi più significativi come interprete di Adorno. Ringraziamo l'autore e l'editore per averci autorizzato a pubblicare il seguente estratto
Un punto d’arrivo molto interessante di questo “corpo a corpo” è un testo che Adorno scrive nel 1968; esso viene presentato dal filosofo francofortese prima come relazione introduttiva al XVI congresso della Società tedesca di sociologia che, per ricordare il centocinquantesimo anniversario della nascita di Marx, aveva scelto di mettere a tema la domanda: Tardo capitalismo o società industriale?[1]. Successivamente il testo viene letto nel grande simposio su Marx che si tiene a Parigi dall’8 al 10 maggio 1968 (mentre la rivolta studentesca è in pieno svolgimento) per essere poi pubblicato negli atti del suddetto convegno col titolo È superato Marx?[2]
[…] Nel modo in cui la interpreta Adorno, invece, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione è vista principalmente sotto l’angolo visuale della questione della tecnica. Le forze produttive non entrano in contraddizione con i rapporti perché gli sviluppi della tecnica sono determinati dai rapporti capitalistici in cui si inscrivono, e non possono dunque costituire una minaccia per tali rapporti. Già il Marx del Capitale segnalava come lo sviluppo di nuove tecniche di produzione non fosse solo funzionale a una maggiore efficienza, ma ancor più al controllo sul lavoro.
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