Print Friendly, PDF & Email

dinamopress

Può esistere un «colonialismo solidale»?

di Gabriele Salvatori

Nella guerra delle parole che si combatte quotidianamente è stata segnata una nuova tappa. Qualcuno ha proposto un «colonialismo solidale» come «utopia per l'Africa». Cancellando così milioni di morti e decine di anni di furti e violenze, semplicemente accostando due parole

L’oppressione è una questione di lingua. Da dove partire per raccontare la storia di quello che si può o non si può dire? Dal fatto che la lingua di un impero, per esempio, è di gran lunga più importante di quella degli Stati e dei cittadini sudditi? La parola è problematica perché appartiene al genere umano ed è lo spazio più difficile da controllare: è punto di accesso alle intenzioni, rivelazione involontaria, programma di azione, prima forma del mondo, necessario campo di battaglia. L’oppressore dà per scontato che l’oppresso non sappia usarla o non capisca il ruolo della stessa nella creazione e riscrittura della realtà. Come fosse una legge naturale, che sancisce il più forte e il più debole e di cui ogni eventuale crisi va esorcizzata. Il diritto di solito elabora formule adeguate a farlo! È per questo George Walker Bush trasecolò nel sentire gli immigrati cantare l’inno americano in spagnolo, nelle proteste californiane del 2006. Gli illegali davano l’impressione di potere riscrivere il concetto di nazione, ma in realtà stavano soltanto smontando un dispositivo violento che governava escludendo: fu dichiarato illegale cantare in un'altra lingua che non fosse l’inglese. Era in gioco lo stesso dispositivo che lo schiavo Calibano, mostro subalterno, eludeva rispondendo a Prospero e rinunciando al nome che gli era stato dato (nella rilettura di Aimé Césaire de La Tempesta di Shakespeare).

Chi domina nomina, diremmo. E cataloga e archivia e gestisce. E in base a questo lavoro minuzioso esclude e ridimensiona, soprattutto “gli altri”. Ed è in base a questo processo di accumulazione e selezione che poi scrive le storie e attraverso di esse la storia. Un processo violento e inesorabile che fa supporre a Dipesh Chakrabarty che ancora oggi tutte le storie non sono altro che una variazione, forse più semplicemente un’appendice della più generale “storia dell’Europa”. Europa immaginata, reificata, celebrata nel mondo concreto delle relazioni di potere: un’Europa centrata su di sé, che esiste a prescindere e contro le proprie eterogeneità. Un’Europa che governa le fantasie, insieme alla sua volontà di potenza.

È come per l’orientalismo, scrive Chakrabarty, il fatto che alcuni di noi sappiano di cosa stiamo parlando, non lo ridimensiona: l’orientalismo è un costrutto che ancora oggi governa la fantasia di molti. E questi molti sono quelli a cui si rivolge il discorso dominante per sentirsi dare ragione. Perché non esiste una prospettiva politica di dominio che non curi attentamente le parole con le quali deve raccontarsi, allenando le orecchie di chi deve intendere. Secondo l’orientalismo se l’occidente è razionale e sviluppato, vetta del percorso dell’umanità, l’oriente non può non essere il suo contrario. Diciamo di più: deve essere il suo contrario, affinché l’occidente si riconosca come tale. Che questa opposizione sia falsa ce lo ha spiegato Edward Said, nel 1979, esattamente tanti anni fa. Troppi anni fa. In realtà un tempo che non può essere valutato, per via di quegli stessi scarti che fanno convivere oggi le bidonville dietro i quartieri residenziali.

Non sto insinuando che il tempo sia un inganno, ma che esistano varchi che portano avanti e indietro, accessi improvvisi che si aprono dietro l’angolo per via di una parola messa al punto giusto, pur non volendo. Sto affermando che il concetto operazione di cleaning, del prefetto di Roma Paola Basilone, descrivendo la repressione degli occupanti di via Curtatone, e associando la pulizia alla repressione di esseri umani, si situa dentro lo stesso orizzonte del nazismo. Che è lo stesso orizzonte della volontà di potenza europea, che non ha mai esitato a essere al contempo classista e razzista. Non sto dicendo che Basilone sia nazista, ma che il suo linguaggio reca tracce, o forse fa riemergere: la parola è esattamente un varco nello spazio e nel tempo. La pulizia del povero, la pulizia dell’ultimo traduce l’idrante sulla faccia, almeno per ora. Sappiamo però che se il cleaning si sposta sulle coste meridionali del Mediterraneo l’idrante serve a pulire il sangue dei torturati e insabbiati nelle fosse comuni.

L’uso della lingua è un esercizio quotidiano, una pratica di gestione e controllo. Come l’Africa: l’esercizio di dominazione più infame che il genere umano abbia mai creato. Specchio dell’anima nera dell’Europa, mette alla prova il nostro vocabolario ormai ogni giorno invitando ad affinare concetti e termini per catalogare esseri umani, prima, regioni geografiche poi, affinché la sintassi del dominio organizzi percorsi di senso in conformità con il proprio orizzonte di attesa. Per questo l’Egitto è un partner – come il soggetto con cui condividiamo la quotidianità – mentre la “battaglia sulle Ong era dunque un cerotto”, cioè una prima forma di medicazione, per un male che evidentemente deve essere curato altrimenti. Come?

Ce lo spiega Goffredo Buccini dalle pagine del Corriere della Sera, oggi sette settembre 2017. In un pezzo catalogato come migranti, riassume gli ultimi mesi estivi con numeri precisi. Ricorda che i corpi degli africani continuano a scappare da tutte le parti, adesso tocca alla Spagna, e sa che le soluzioni, non facili, non potranno non essere anche militari. E in virtù di questo che guarda al futuro proponendo una cura al nostro mal d’Africa. E la cura è, come per quelle formule omeopatiche di certi stregoni, una dose minima, quotidiana del male: appena un po’ più dolce, per evitare di soccombere. E così prescrive “il colonialismo solidale”: lo prescrive all’Africa, perché ha bisogno di aiuto; lo prescrive a noi per evitare di dimenticarci i nostri compiti nel mondo. E così Buccini ci riporta con un colpo di penna – un ossimoro tremendo tanto quanto la “solidarietà legalitaria” del sindaco di Firenze – nel cuore dell’epoca moderna, o forse al principio del suo sorgere.

E però, al di là dell’imbarazzo provocato dalla lettura del concetto virgolettato, elaborato, non ho alcun dubbio, con estrema bontà, è d’obbligo prendere atto che le politiche avviate in Africa rispondevano, rispondono e risponderanno esattamente a questi criteri. Non è svegliarsi con una doccia fredda, è sapere che – sbornie postmoderne a parte – siamo ancora lì, dentro la modernità, su uno dei suoi vertici. Pertanto ai razionali, organizzati, propositivi occidentali – individuabili più esattamente come promotori della razionalità neoliberista – spetta il compito di ridefinire confini e piani di azione. E quindi declinare ogni forma di aiuto e di repressione dentro questa prospettiva. Tanto in Africa, quanto nelle nostre città.

È per questo stesso motivo che le forme di opposizione e resistenza – al dominio della razionalità del profitto sulla vita – la solidarietà senza aggettivi, la costituzione di relazione comunitarie fondate sul bisogno e non sul riconoscimento etnico, e le pratiche di riappropriazione e costruzione del comune possono e devono essere lette e definite come processi di decolonizzazione. Una liberazione ostinata e quotidiana, che è lenta ma deve essere inesorabile, che ci permetta di riconoscere come e quando un campo semantico corrisponda a una gabbia. È necessario decolonizzare tutto! Perché un “colonialismo solidale” è ancora, esattamente destinato a gestire, amministrare o risolvere “il fardello dell’uomo bianco”: questo è nero, è povero, è subalterno, ma potrebbe essere allo stesso modo il “sesso debole” o un soggetto “irrequieto”.

Di fronte la tristezza di un’utopia africana dettata da una scrivania bianca, dobbiamo avere la consapevolezza che negli spazi pur marginali delle nostre azioni quotidiane, singolari e collettive, stiamo andando nella direzione opposta.

Add comment

Submit