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Note sui risultati dell’ultima tornata elettorale

Voto, crisi della democrazia rappresentativa e prospettive

di Franco Piperno

1) La globalizzazione e la crisi della democrazia rappresentativa.

Le elezioni politiche italiane hanno confermato, e certo non si può dire che ve ne fosse bisogno, l’impotenza fatale nella quale versa il sistema della rappresentanza, sistema chiamato, per abuso lessicale, “democrazia rappresentativa”. Il fenomeno che si svolge sotto i nostri occhi ha un aspetto, nel breve medio periodo, propriamente epocale – investe contemporaneamente pressoché tutto l’Occidente e non solo; ed in questo senso, è la più grande crisi che la rappresentanza abbia conosciuto nella storia della modernità.

Come tutti sanno, non è certo la prima volta che la rappresentanza si inceppa e precipita nella crisi. Quel che v’è di inedito è la vastità spaziale – riguarda oltre un miliardo di esseri umani – e la concentrazione temporale – tutti i paesi sono coinvolti ad un tempo.

Questo avviene perché, caduto il sistema del socialismo di stato, ovvero l’Unione Sovietica, la globalizzazione ha proceduto in fretta, troppo in fretta; e l’unificazione del mercato mondiale, come profeticamente aveva notato Rosa Luxemburg già all’inizio del secolo appena trascorso, consegna il sistema capitalistico ai suoi limiti intriseci ed insuperabili: non vi può essere sviluppo economico stabile – proprio per questa crescita della ricchezza senza fine, che, viceversa, costituisce il fascino esclusivo del modo di produzione capitalistico – senza l’esistenza di mercati al di fuori di quello capitalistico, estranei, vergini, da invadere.

In Italia, i dolorosi travagli della rappresentanza non derivano dalla pochezza dei rappresentanti ma dal venir meno di quel sentimento di massa, quel senso comune fondato sulla possibilità di migliorare la condizioni di vita – dell’arricchirsi insomma – che la democrazia rappresentativa prometteva e sembrava garantire; in ogni caso con maggiore credibilità che il socialismo di stato.

Detto altrimenti – correndo il rischio di una eccessiva semplificazione – a far data dal secondo dopoguerra, l’abitudine di misurare, introdotta dall’amministrazione Truman, attraverso il PIL (prodotto interno lordo) il grado di sviluppo economico-sociale di un paese; questa abitudine fonda e rivela la legittimità della rappresentanza: nel senso che la democrazia rappresentativa assicura, almeno tendenzialmente, un benessere crescente.

La crisi della rappresentanza in Occidente, quindi, è, in primo luogo, il riverbero politico dei limiti dello sviluppo capitalistico. Sviluppo che, contrariamente a quel che accadeva prima, si basa ora sull’automazione; il che comporta un divorzio tra investimenti industriali e posti di lavoro creati; ovvero le innovazioni sono quasi tutte a risparmio di lavoro.

La globalizzazione ha bisogno di una fase intensa d’accumulazione originaria; il che, se da una parte favorisce il segmento finanziario del capitale – i ricchi diventano sempre di meno ma sempre più ricchi – dall’altra comporta un angoscioso trasalimento lungo che attraversa l’anima delle moltitudini: in conseguenza, nel senso comune, nidifica l’ostilità verso l’altro, massimamente il migrante.

 

2) Il successo grillino e la rappresentanza come “governo del caso” – ovvero Di Maio ha vinto alla lotteria, è incespicato nel numero vincente.

Del resto, in Italia, il rigetto elettorale dell’esangue mito del Super Stato Europeo appare del tutto in sintonia con il generale rifiuto della globalizzazione da parte delle moltitudini del mondo intero; ovvero con la Grande Crisi dell’Occidente – crisi che abbiamo la fortuna di vivere in presa diretta, a chilometro zero per dir così.

Per altro, i nostri guai, come paese europeo, non sono forse i più gravi ma solo i più coloriti – si pensi che la parola seriosa, che sembra guidare i grillini, il ceto politico emergente, è appunto quella di un comico.

I pentastellati più che richiamare il fenomeno populista – di ben altra profondità e consistenza teorica – ricordano da vicino la vicenda tutta italiana, nota come “Uomo Qualunque”, esperienza dalla quale deriva l’epiteto di “qualunquista”. Nel secondo dopoguerra il movimento dell’Uomo Qualunque, al grido rauco di “onestà, onestà”, divenne, in pochi anni, contrapponendosi ai partiti ideologici (cattolici e socialcomunisti, destra e sinistra) una forza parlamentare di tutto rispetto; per poi sgonfiarsi e sparire nel giro di qualche stagione; sommerso, come suole accadere, dalla sua stessa attività parlamentare, segnata da una imbarazzante assenza di pensiero politico.

Per mettere in rilievo la parabola descritta dal M5S, giova notare che tra i due filoni che avevano caratterizzato la nascita di quel movimento – ovvero il reddito di cittadinanza e la democrazia diretta – la propaganda elettorale ha insistito sul primo mentre ha lasciato cadere di fatto il secondo. E questo non a caso; si tratta infatti del segnale di compimento della normalizzazione del movimento, la prova provata che un movimento radicale, nella misura in cui concentra la sua lotta per il potere sul piano elettorale, viene assorbito da quello stesso potere di cui pure intendeva impadronirsi. Le elezioni hanno suggellato la domesticazione del M5S – in effetti ora questo movimento è divenuto un partito, dotato per di più non solo di un Capo Politico ma perfino di un Garante – figure bizzarre, non propriamente roussouiane diciamo.

Si badi: non siamo in presenza di tradimento e men che mai di corruzione personale; semmai è qualcosa di più nefasto, una prova della cattiva potenza del sistema della rappresentanza. Del resto, le convulsioni, di Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, costituiscono una evidenza empirica di questa capacità d’integrazione normalizzante.

 

3) M5S e l’accidia del Meridione.

Passando poi al successo plebiscitario del M5S nel Mezzogiorno appare evidente che è la registrazione di una rottura tra il sistema della rappresentanza e gli elettori meridionali; i quali, per ragioni storiche, non menano alcuna avversione per una politica assistenziale; tanto è vero che il reddito di cittadinanza – sia pure nella forma raccapricciante, aggrovigliata ed imprevedibile dell’assistenza governativa, cioè in quanto sussidio alla disoccupazione – nel Sud esiste da tempo; e i pentastellati si limitano a promettere furbescamente di estenderlo.

Così il plebiscito stravinto nel Sud dai grillini dipende in gran parte dall’incontro tra il protagonismo mediatico M5S – improvvisato ed adolescenziale – e l’anima plebea, anzi propriamente qualunquista, che sonnecchia accidiosa nel Sud; quella che vive di rancorosa speranza; anima destinata alla coazione a ripetere, alla illusione che attende solo d’essere puntualmente delusa. A riprova di questo giudizio, basterà qui ricordare che i pentastellati non hanno mai elaborato una qualche inchiesta etico-politica sul Mezzogiorno e tanto meno proposto politiche specifiche di intervento nella economia meridionale.

Il partito grillino ha fatto propria la rappresentazione mediatica, quella della così detta opinione pubblica, che fa delle comunità criminali solo un problema di polizia; e quindi, rimuove la qualità culturale – che non è l’istruzione ma il legame associativo fondato sul luogo, la “Bildung” per dirla in tedesco – e così facendo ignora il consenso sociale che circonda e protegge queste stesse comunità.

Così, M5S ha introiettato, in un silenzio quasi inconsapevole, la legislazione speciale antimafia nonché le pratiche liberticide che essa autorizza: il 41 bis, il carcere speciale, ovvero la pratica sistematica della tortura per costringere i detenuti alla delazione; l’uso di un reato, indefinito e quindi arbitrariamente configurabile, come quello di “associazione esterna”; la sottrazione giudiziaria dei minori alla patria potestà e via enumerando.

In realtà bisogna costatare che dopo un secolo e mezzo di repressione sabauda e leggi eccezionali, le comunità criminali nel Sud non solo continuano ad esistere ma stanno diventando borghesia criminale, nel senso che usano il crimine per assicurarsi una sorta di accumulazione originaria; per poi investire, localmente come nei mercati esteri, con una capacità imprenditoriale sorprendente.

Detto altrimenti, le mafie sono le uniche comunità meridionali che creano posti di lavoro stabili – e di una questione così drammaticamente singolare, non v’è stata alcuna traccia nella campagna elettorale M5S, come in quella dei partiti tradizionali.

 

4) L’evaporazione della sinistra, moderata ed antifascista.

Quanto alla sinistra italiana, intesa come ceto politico, non ha semplicemente perduto: si è perduta, quasi che, frantumandosi, abbia finito con l’evaporare.

Essa non c’è più; il che, a ben guardare, può considerarsi l’unica buona notizia di questa tornata elettorale.

Un malinteso di massa, che viene dritto dritto dalla fine dall’Ottocento, è stato per il momento almeno, chiarito. Ed il ricorso tartufesco all’antifascismo, una sorta di fibrillazione fuori tempo massimo per l’attività cardiaca della sinistra, non ha sortito alcun esito – fatta salva la conferma del giudizio impietosamente lucido di Amadeo Bordiga, che, elencando i mali che il nostro paese ha ricevuto in eredità dall’epoca fascista, poneva, tra i più subdoli, proprio l’ideologia antifascista.

 

5) Un breviario del “Che fare?”.

La prima cosa è sottrarsi alla seduzione del giovanilismo innovatore per uscire dalla crisi: i giovani sono tali solo perché hanno tanto tempo per sbagliare.

In secondo luogo, lasciarsi inebriare dalla profondità abissale della crisi – come quando, in un pomeriggio assolato, beviamo un vino forte.

Ancora, privilegiare la dimensione dell’agire politico comune: praticato come esodo dalla rappresentanza e dalla tradizione sindacal-rivendicativa.

E poi, rievocare i miti dell’autonomia produttiva e della democrazia diretta, queste antiche divinità delle città libere.

Rovesciare la noia provocata dalla disoccupazione in occasione d’autorealizzazione, di ricerca del proprio demone, di una attività attrattiva.

Fondare uno, due, cento comitati di quartiere come anticipazione dell’autogoverno.

Convocare entro l’anno gli Stati Generali Continentali delle comunità elettive e dei comitati di quartiere – e questo per consentire, allo Spettro del Comunismo, di riprendere ad aggirarsi per l’Europa.

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