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sbilanciamoci

L’economia digitale e la concorrenza tra Cina e Usa

di Vincenzo Comito

Guardando oltre i dazi imposti da Trump a Pechino, sono molti gli intrecci di interessi tra i due Paesi, anche nei settori dell’economia digitale. Soprattutto finanziario, con l’arrivo di fondi d’investimento pubblici e privati a finanziare lo sviluppo delle più grandi compagnie del settore

Premessa

Appare da tempo evidente come un certo numero di grandi gruppi statunitensi e cinesi, da una parte in particolare Apple, Amazon, Facebook, Google, dall’altra Tencent, Alibaba, Baidu, seguiti da una nutrita schiera di altre imprese solo di poco meno importanti, stiano diventando i protagonisti quasi assoluti dell’attuale quadro economico e finanziario a livello imprenditoriale mondiale, mentre l’Europa, intanto, non può che guardare impotente allo sviluppo degli avvenimenti, mentre le sue imprese non cercano neanche più di combattere contro una collocazione che le vede relegate molto indietro.

Per fare riferimento soltanto a pochi numeri, basta ricordare che le prime cinque imprese Usa avevano un valore di mercato, a metà 2017, di 3 trilioni di dollari e le loro liquidità ammontavano a circa 330 miliardi.

In queste note vogliamo mettere in rilievo alcuni aspetti dell’espansione dei giganti del web di cui si parla forse in minor misura: ci riferiamo alle questioni finanziarie.

Non ci occupiamo tanto del fatto che almeno diverse tra le imprese citate, con lo sviluppo di quello che viene chiamato fintech, stanno invadendo anche il settore bancario e finanziario, cercando di dislocarlo e di sostituirsi sostanzialmente ad esso, sia pure inserendosi nelle attività più redditive e tralasciando il resto. Vogliamo invece toccare le questioni relative dall’impiego dei flussi di cassa delle imprese da una parte, del finanziamento del loro sviluppo dall’altra.

 

L’impiego dei flussi di cassa e un nuovo modello conglomerale

Le grandi imprese dell’economia digitale possiedono una grande forza finanziaria, data in particolare in molti casi dai flussi di cassa interni generati ogni anno dalla gestione, che presenta spesso ampi margini, anche se non sempre è così. Si veda a questo ultimo proposito il caso di Uber che ancora nel 2017, secondo una fonte, ha fatturato circa 10 miliardi di dollari ma ne ha persi 4,5, mentre secondo un’altra avrebbe ottenuto una cifra d’affari di 7,5 miliardi perdendone 3,3 (non esistono dati ufficiali).

Un altro fattore finanziario da prendere in considerazione riguarda la disponibilità degli investitori a puntare anche grosse somme su tali imprese (su questo si veda meglio più avanti).

Terzo elemento da ricordare, collegato al precedente, è l’aumento vertiginoso dei valori di tali imprese in Borsa, ciò che può permettere, tra l’altro, di attingere ad abbondanti risorse vendendo qualche azione e/o aumentando il capitale sociale; e si ritorna al punto precedente.

Alla fine, dei flussi di cassa quasi illimitati permettono di investire non solo nel business originario, ma anche, quasi a volontà, in varie attività, anche molto distanti da quelle iniziali. Si stanno così creando dei nuovi gruppi conglomerali, un modello di impresa che si supponeva sepolto da molti decenni.

Ricordiamo a questo proposito, tra i molti, solo due casi tra i più noti, l’uno statunitense, l’altro cinese.

La Amazon ha iniziato la sua attività vendendo libri on-line; ma presto si sono aggiunti al catalogo i dischi, i videogiochi, i prodotti elettronici per la casa, l’abbigliamento, ecc.. Ha poi sviluppato diverse nuove attività, dalla consegna a domicilio di generi di drogheria a quella dei pacchi, introducendo nel 2015 la consegna anche con i droni. Essa è poi entrata nel settore del cloud computing, di cui oggi è leader mondiale; è diventato produttore di video, film, spettacoli vari e si è anche rivelato un attore importante nel campo dell’intelligenza artificiale, mentre ha poi penetrato il settore della grande distribuzione tradizionale e successivamente quello delle catene farmaceutiche.

Dal canto suo Tencent opera oggi contemporaneamente nelle reti sociali, nella messaggeria, nei portali web, nei giochi on-line, di cui è oggi il leader mondiale, nella pubblicità e nella musica on-line, negli acquisti e nei pagamenti elettronici, nei media, nei fondi monetari, nel cloud computing, mentre sta investendo nell’auto elettrica e nella realtà virtuale. E’ entrato infine nel settore del bike-sharing e nella grande distribuzione classica.

 

Il confronto con i conglomerati classici

Questo processo di grande diversificazione, apparentemente senza una logica che non sia puramente finanziaria, sembra per il momento dare i suoi frutti anche economici.

Quello della creazione di grandi conglomerati fu una moda che prese fortemente piede nel mondo anglosassone negli anni sessanta del Novecento. Ma di fronte all’evidenza che il modello incontrava forti ostacoli “politici”, provocati dal vecchio establishment che si sentiva minacciato, mentre i risultati economici e finanziari non risultavano esaltanti, gli anni settanta ed ottanta passarono nel cercare di liquidare tali raggruppamenti di imprese.

Quelle che si vanno ora creando negli Stati Uniti ed in Cina funzioneranno meglio (Dorkin 2017) ? E’ difficile dare una risposta precisa. Comunque le condizioni sono molto cambiate. Oggi le grandi conglomerate non devono venire faticosamente a contrasto con l’establishment finanziario preesistente, dal momento che sono sempre più loro stessi l’establishment. D’altro canto, il mondo rigurgita di risorse finanziarie disposte quasi a qualsiasi avventura.

 

La proprietà del capitale

Degli sviluppi di un certo interesse si registrano anche a livello di proprietà del capitale di questi grandi gruppi (Schumpeter, 2017).

In generale, sia sul versante cinese che su quello occidentale essi sono nati per volontà di uno o più fondatori, che all’inizio ne controllavano in tutto o in gran parte il capitale.

Ma con il tempo la situazione ha teso a cambiare e oggi si registrano due linee di sviluppo differenti: da una parte i gruppi di comando stanno cercando di estrarre cassa dalle loro società vendendo una parte delle azioni, mentre d’altra le imprese hanno spesso bisogno di risorse aggiuntive per perseguire i loro piani di sviluppo. Così in diverse società la percentuale di proprietà da parte del socio o dei soci principali tende a declinare sino a che si può anche arrivare ad una perdita di controllo.

D’altro canto, invece, in altre imprese i gruppi di comando cercano di mantenere la presa attraverso vari meccanismi, quali l’uso di due classi distinte di azioni con diritti di voto differenti. Così i proprietari di Google hanno ormai l’11% delle azioni, ma controllano il 51% dei diritti di voto. Più o meno la stessa situazione si registra in Facebook. Alibaba ha, d’altro canto, stretto un accordo con altri azionisti che li obbliga a votare come lui; poi per statuto una maggioranza dei membri del consiglio sono nominati sostanzialmente dal capo; infine, il proprietario possiede la maggioranza del capitale in molte sussidiarie strategiche.

 

Softbank, Tencent, Alibaba e gli altri

A fronte di questa parziale ritirata di molti tra i vecchi fondatori e di necessità finanziarie che di frequente risultano molto ingenti, si verifica da qualche anno l’ingresso massiccio nel capitale delle imprese del settore dei grandi fondi pubblici e privati di vari paesi (Morozov, 2018), in particolare, ma non solo, asiatici e del Medio Oriente da una parte, delle cinesi Tencent e Alibaba dall’altra, soprattutto in quest’ultimo caso in Asia (Sender, 2018).

Quello che appare al momento il più impegnato in questa strategia è indubbiamente il fondo giapponese SoftBank. Esso ha, tra l’altro, creato il primo Vision Fund (ne dovrebbero seguire degli altri), che attualmente possiede una dote di circa 100 miliardi di dollari e al cui capitale partecipano diversi fondi, dell’Arabia Saudita, di Abu Dhabi, ecc. e poi la Apple, Qualcomm, ecc.

Così la SoftBank domina la filiera della sharing economy partecipando al capitale di Uber e contemporaneamente della cinese Didi Chuxing, i due principali attori del settore, ma poi anche alla Grab di Singapore e alla Ola indiana; inoltre possiede partecipazioni rilevanti in società molto eterogenee come Alibaba, Nvidia, WeWork, e così via.

SoftBank, attraverso il lancio futuro di altri fondi, programma di investire nel settore, nei prossimi dieci anni, 880 miliardi di dollari.

Operano nello stesso campo anche altri importanti fondi, quale quello sovrano norvegese, il CIC cinese, il Temasek di Singapore. Ma bisogna soprattutto sottolineare che Tencent e Alibaba si pongono, insieme a SoftBank, come i veri padroni degli investimenti in nuove tecnologie sostanzialmente in tutto il continente asiatico. I tre gruppi, in effetti, messi insieme, possono investire in qualsiasi istante anche diverse decine di miliardi di dollari, decidendo quindi chi deve andare avanti e chi deve essere fermato (Sender, 2018).

 

C’è vera lotta tra gruppi cinesi e statunitensi?

Apparentemente dovrebbe essere in atto una lotta accanita per il dominio del mondo tecnologico tra i gruppi cinesi e quelli statunitensi. Certo gli Usa sono partiti prima, ma ora la Cina sta cercando di darsi da fare anch’essa sui vari mercati mondiali.

L’apparente attuale durezza di Trump verso il paese asiatico sul fronte economico dovrebbe aggiungere ancora del fuoco a tale lotta.

Bisogna dire che in Cina tra Tencent e Alibaba c’è in effetti un’aspra concorrenza su molti fronti, così come negli Stati Uniti sembra facile rintracciare i segni della concorrenza tra i vari protagonisti del paese.

Per altro verso, va peraltro anche registrato un fitto incrocio di partecipazioni azionarie tra le imprese cinesi del settore e quelle statunitensi. Un simbolo di questo intreccio è rappresentato dalla cinese Didi Chuxing, oggi la più grande impresa della sharing economy. Al suo capitale partecipano, oltre alla giapponese SoftBank, le statunitensi Uber e Apple, nonché le cinesi Alibaba e Tencent. Ma il caso della Didi non è certo isolato e gli intrecci di partecipazioni tra Stati Uniti e Cina sono ormai numerosi e alcuni consigli di amministrazione sono diventati dei club dei potenti dei due paesi.

Questo farebbe pensare che, almeno per un certo periodo, si possa assistere ad un sostanziale accordo complessivo tra le imprese tecnologiche cinesi ed Usa per la spartizione dei mercati. Dopo si vedrà.


Testi citati nell’articolo
-Dorkin A.R., The new conglomerates, The New York Times International, 21 giugno 2017
-Morozov E., Billion-dollar debts control the future of tech industry, www.theguardian.com, 11 marzo 2018
-Schumpeter, Control freaks, The Economist, 25 novembre 2017
-Sender H., How Alibaba and Tencent became Asia’s biggest deal makers, www.ft.com, 26 marzo 2018

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