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contropiano2

La “guerra dei dazi” è solo la superficie

di Claudio Conti

La guerra dei dazi, aperta dagli Stati Uniti, è il segnale che quel modello sociale e produttivo non tiene più. La stampa neoliberista italica se la prende con Trump, bersaglio fin troppo facile per enfatizzare la dabbenaggine di un leader più che dimezzato dal momento dell’elezione (la sua squadra di governo viene rivista di continuo, e molti degli uomini allontanati erano tra i suoi fedelissimi, a cominciare da Steve Bannon).

Se fosse davvero solo questo, Trump sarebbe stato destituito o eliminato da un pezzo. Ma andiamo con ordine.

La Cina ha ufficialmente reagito all’imposizione di dazi sulle proprie esportazioni di acciaio e alluminio verso gli Usa, imponendo analoghe misure su 128 prodotti statunitensi importati in Cina. Totale del valore: appena 3 miliardi, esattamente corrispondenti alle perdite cinesi su quelle due metalli. Una cifra minima (l’interscambio tra i due paesi supera i 600 miliardi), ma è solo la prima risposta.

Trump ha infatti già annunciato identiche misure su (+25%) su 1.300 prodotti cinesi dell’hi-tech, delle telecomunicazioni e dall’aerospazio, penalizzando così esportazioni per 50 (forse 60) miliardi di dollari. Si tratta del 10% dell’export cinese negli Usa (lo 0,4% del Pil).

La cosa più interessante, in effetti, è vedere su quali prodotti si verifica questo scontro deciso dagli Usa. Pechino, fin qui, ha reagito colpendo merci assai poco “strategiche” (carne di maiale, vino, mele, uva, mandorle, ecc), ma che vengono prodotte dalla “base sociale” che più di tutte ha scelto Trump come leader. Sono rimaste fuori merci altrettanto “mature” come sorgo e soia (di cui però i cinesi hanno grande bisogno), così come gli aerei Boeing. Al contrario, la seconda tranche di dazi Usa è esplicitamente diretta contro l’hi tech cinese.

C’è dunque un senso – non economico, ma geopolitico – in questa escalation statunitense contro la Cina. Senso confermato dall’incarico attribuito al segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, che dovrà sfornare entro metà maggio «restrizioni sugli investimenti delle aziende cinesi negli Stati Uniti».

Lo scopo non dichiarato è insomma quello di bloccare o quanto meno ostacolare e rallentare la corsa cinese verso la leadership tecnologica globale, fermando in primo luogo le acquisizioni di aziende hi tech statunitensi. Un tentativo che arriva forse troppo tardi, visto che – come ricorda a Trump uno studio condotto da Deutsche Bank, il numero di i-phone circolanti in Cina è il doppio di quello attivo negli Usa, così come anche le auto Gm vendute ai cinesi sono molte di più di quelle piazzate in patria.

Tutta roba che non figura nella bilancia commerciale tra i due paesi perché prodotta direttamente nel Celeste Impero da multinazionali Usa. Un “dettaglio” che complica maledettamente il calcolo dei vantaggi/svantaggi di una guerra commerciale più estesa.

Una drastica riduzione delle tecnologie Usa acquistabili da aziende cinesi non resterebbe senza conseguenze e molti fanno notare come, nonostante una lenta ma continua riduzione nei volumi, la Cina resta pur sempre il principale detentore di titoli di Stati americani: quasi 1.200 miliardi di dollari. Un eventuale arresto negli acquisti cinesi farebbe schizzare i rendimenti dei Treasury – gli interessi che i contribuenti Usa devono pagare a chi finanzia il debito statale – a livelli pericolosi. Non parliamo poi dell’”arma fine di mondo”, ossia una Cine che si mette a vendere quei titoli sul lercato globale, facendone crollare il prezzo…

La scelta Usa appare insomma un po’ troppo azzardata e soprattutto “vecchio stile”, elaborata ai tempi in cui le industrie erano molto “fisiche”, solidamente piantate sul territorio nazionale (al massimo in qualche colonia), con separazione proprietaria e produttiva assai netta tra “indigeni” e investitori stranieri.

E’ la conferma di quale “blocco sociale” abbia selezionato Trump e il presidente sembra non rendersi conto dei potenziali danni che rischia di creare al suo stesso paese – ad esempio – attaccando Amazon e altre imprese tecnologiche, social network, ecc, che già di loro vanno soffrendo una crisi. Di credibilità, e quindi di valore borsistico.

Quest’altro tipo di “imprese” ha certo goduto molto dall’essere basate negli Stati Uniti – quando si vanno a imporre contratti in giro per il mondo il passaporto conta, eccome – e sono ben attente a mantenere lì l’hardware principale; ma il loro business le porta naturalmente a guardare alla “patria” come uno dei tanti luoghi in cui si estrae profitto. La multinazionalità e il respiro “globale” ne aveva fatto il cuore dell’establishment industriale e finanziario Usa dagli anni ‘80 ad oggi.

Nonostante la crisi apertasi nel 2007.

Ma questo tipo di impresa, come tutto il settore dell’automazione (qui pudicamente chiamato “industria 4.0”), verticalizza la concentrazione di potere e ricchezze, mentre desertifica gran parte della piramide sociale tipica dell’Occidente nel secondo dopoguerra.

I 100 milioni di disoccupati americani, e i milioni di sottoccupati in lavoretti precari e sottopagati, non riceve nulla dall’asserito primato globale statunitense. E insieme ai settori più maturi dell’imprenditoria Usa – acciaio e simili, non a caso, oltre all’immensa distesa agricola del paese – hanno impresso una svolta, destabilizzando l’establishment.

E’ una svolta demente, ovviamente. Con lo sguardo girato all’indietro, verso impossibili recuperi di centralità nazionali ed imperiali.

Ma è proprio questa divaricazione tra “bisogno” e “risposta possibile” che descrive l’implosione del modello di sviluppo che ha dominato la storia del secondo dopoguerra. Tornare indietro non è possibile, andare avanti è una follia – socialmente parlando – che provocherà più danni quanto più si andrà avanti.

La “guerra mondiale a pezzetti” di cui ogni tanto parla persino il Papa è già tra noi. Sarebbe il caso di ragionare – anche di “politica” – a partire da qui, anziché ripetere vecchi rituali già polverizzati dalla realtà.

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