Il tabù della lotta aperta e il genocidio inarrestabile dei palestinesi
di Davide Gatto
L’esperienza più significativa che noi elaboriamo del mondo è mediata dal linguaggio: parole che definiscono le cose, legami sintattici che le mettono in relazione. Sono di conseguenza ben radicate nel linguaggio anche le nostre azioni, persino quelle più istintive: una “guerra” – come quella che per i media occidentali Israele combatte a Gaza – non può che protrarsi fino a che non siamo venute meno le ragioni che l’hanno innescata, e pazienza per le vittime civili e le distruzioni che - si sa - sono effetti collaterali e necessari di qualunque conflitto.
Credo che vada ricercato anche in quest’ambito il motivo per cui il mondo non riesce a fermare il genocidio dei palestinesi di Gaza. Se è vero infatti che dall’ottobre 2023 si sono via via moltiplicati gli appelli, le raccolte firma, le manifestazioni di piazza, fino all’attuale ondata di indignazione che vediamo montare sui social, pure si avverte in queste prese di posizione finalmente larghe una sorta di vischiosità che non consente loro di affrancarsi dalla consueta inerzia: come se la nuova consapevolezza e la protesta restassero tuttavia chiuse entro un recinto che le rende inoffensive, inefficaci.
È fatto delle parole con cui siamo abituati a sentire raccontare e a raccontarci il mondo questo recinto, è fatto della trama di un linguaggio che reca ben impresse le impronte di chi detiene il potere, di un linguaggio che disegna nella mente di chi lo usa reti concettuali che possono essere vere e proprie gabbie, di un linguaggio al cui successo contribuiscono fortemente la pigrizia mentale e il vile opportunismo dell’uomo qualunque.
Al netto di tutte le differenze, è bene ricordare che contro Francisco Franco in Spagna si formarono Brigate internazionali di volontari combattenti; che molti dei nostri padri costituenti hanno imbracciato il mitra e fatto ricorso ad atti che oggi definiremmo terroristici pur di cacciare l’occupante straniero e i fascisti al suo servizio; che infine i movimenti nazionali della decolonizzazione hanno dovuto risolversi alla lotta armata per spezzare le catene dell’occupante europeo e realizzare finalmente quella autodeterminazione che le leggi internazionali riconoscono come diritto fondamentale di ogni popolo (ma che Israele e gli Stati Uniti negano ancora oggi ai palestinesi).
E a proposito di colonialismo e di decolonizzazione fa un certo effetto rileggere oggi quanto osservava Frantz Fanon nel suo I dannati della terra (1961): “Che cos’è, dunque, in realtà, questa violenza (scil. quella dei movimenti di liberazione nazionale)? […] è l’intuizione che hanno le masse colonizzate che la loro liberazione deve farsi, e non può farsi, se non con la forza”.
Quello che però maggiormente è pertinente nell’analisi di Fanon alla tesi qui sostenuta, cioè che un certo tipo di linguaggio, con tutto il suo corredo di parole-dogma e di parole “oscene”, ha l’effetto di modellare e di delimitare il campo del possibile a tutto vantaggio dei gruppi dominanti, è quando sottolinea che la borghesia colonialista, spaventata della reazione violenta degli sfruttati, “introduce una nuova nozione che è, a rigor di termini, una creazione della situazione coloniale: la nonviolenza”.
Il verbo della nonviolenza e del pacifismo segna dunque una specie di limite invalicabile che impedisce agli oppressi di combattere ad armi pari con i loro oppressori, di rispondere con la forza e con la violenza alla loro violenza.
Primo Moroni, storico fondatore della Libreria Calusca che nella Milano degli anni Settanta fu un punto di riferimento per la galassia della sinistra extraparlamentare, osservava che al disimpegno progressivo dei giovani protagonisti delle lotte di quegli anni aveva corrisposto il passaggio dalla lettura di Marcuse a quella dei poeti simbolisti francesi: dalla parola che motiva allo scontro, alla parola che educa all’evasione sognante, a una dimensione edenica di pace universale.
Espunte dunque dal vocabolario e dall’immaginario le parole dello scontro e della lotta, il manovratore ha potuto finalmente condurre il mondo a suo proprio ed esclusivo vantaggio senza essere più disturbato, ed esibendo anzi una tolleranza compiaciuta verso quei giovani che al pugno chiuso e alla bandiera rossa avevano sostituito il drappo arcobaleno e le danze disarmate dei gay pride.
Per tornare ora al genocidio dei palestinesi, bisogna innanzitutto essere chiari: sulla pelle del popolo di Palestina si sta svolgendo una guerra – una guerra a pieno titolo, questa volta – tra la parte giusta del mondo, cioè quella della Dichiarazione universale dei diritti umani, del diritto internazionale e della autodeterminazione dei popoli, e la parte del nazionalismo suprematista (America first) e del colonialismo di insediamento e di espulsione (Israele). La parte giusta, lungamente addomesticata al linguaggio della pace, non sa opporre altro che la sua retorica vagamente paternalistica agli altri che cinicamente avanzano sul terreno con gli stivali e con i cingoli delle loro macchine di morte ben affondati nel sangue dei malcapitati palestinesi.
E dato che il campo dell’agibile, di ciò che può essere fatto, è strettamente dipendente dal campo del dicibile e, quindi, del pensabile, è impossibile non cogliere nell’attuale inerzia parolaia della parte giusta il corrispettivo di un cedimento progressivo sul fronte del linguaggio: di fatto una guerra sottesa alla guerra.
Ne è dimostrazione il corpo a corpo ingaggiato per liberare la parola genocidio dallo spazio angusto in cui era stata confinata, quello esclusivo della Shoah ebraica, ed estendere così il dominio della sua applicabilità alla strage dei gazawi.
Che fare, dunque?
Bisogna rispondere alla guerra e all’oppressione coloniale - che oltre che del popolo palestinese stanno facendo scempio di un ordine mondiale fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pari dignità di popoli e individui - con la disponibilità a una nuova guerra di liberazione su entrambi i fronti.
Sul primo fronte, la lotta per liberare le parole e l’immaginario dai significati angusti, fuorvianti, sempre abusivi in cui le forze dell’arbitrio e dell’oppressione li hanno confinati non potrà che essere feroce perché - come dice Sartre nella sua prefazione al libro di Fanon - così “si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi”: il colono, il complice che per quieto vivere siamo diventati.
Quanto al secondo fronte, gli stati della parte giusta, quelli dotati della forza di deterrenza nucleare in testa, dovranno concordare e lanciare un vero e proprio ultimatum militare a Israele perché rientri nell’alveo del diritto internazionale violato fin dalla Risoluzione ONU del 1947 che definiva i confini del futuro stato di Palestina, pena una dichiarazione di guerra in piena regola.
La posta in gioco è così alta che merita il coraggio di rischiare una altamente improbabile guerra guerreggiata; e se anche fosse, sarebbe comunque per i paesi e per i cittadini della parte giusta una guerra nobile e necessaria, non diversamente da quella che eserciti regolari e brigate partigiane ingaggiarono contro l’occupante nazifascista.