L’ottavo fronte
di Enrico Tomaselli
Il giornalista statunitense Max Blumenthal ha felicemente definito così la guerra ibrida che Israele sta conducendo negli Stati Uniti, e che – per il momento – è essenzialmente incentrata sulla propaganda, ovvero sul controllo dei media. Gli USA sono l’insostituibile retrovia dello stato ebraico, senza il cui appoggio – economico, militare, politico e diplomatico – semplicemente scomparirebbe entro pochi mesi. Il controllo di questa retrovia, pertanto, è una questione vitale per Israele. Sino a ora, era stato possibile esercitarlo essenzialmente attraverso le lobbies sioniste in nord America – che sono due: una, quella rappresentata principalmente dall’AIPAC, costituita dai maggiori rappresentanti della comunità ebraica, ed un’altra, costituita da quelle chiese evangeliche che vedono in Israele una tappa fondamentale verso l’avvento di una nuova era di dio. E la seconda, da tempo, è non meno importante della prima. Queste due lobbies hanno sinora agito fondamentalmente su due livelli, il foraggiamento delle campagne elettorali (a qualsiasi livello) di esponenti politici decisamente schierati per Israele, e la diffusione di una narrativa che accomunerebbe i due paesi non solo per via di una comune radice culturale (quella giudaico-cristiana, che tanto piace anche a molti politici europei), ma anche per una presunta sovrapponibilità dei reciproci interessi strategici.
Questo schema, però, ultimamente ha cominciato a scricchiolare e, soprattutto da quando Netanyahu ha precipitato il suo paese in una spirale di guerra infinita e di infinita crudeltà, il processo ha subito una accelerazione. Ciò ha pertanto reso necessario un nuovo, significativo impegno per porre freno a questa deriva, che a Tel Aviv avvertono come estremamente pericolosa. E sta avvenendo principalmente attraverso l’uso di strumenti diversi. Innanzitutto, le maggiori società proprietarie di social media sono state largamente ‘infiltrate’ – si fa per dire – da ex agenti dei servizi di sicurezza, statunitensi ma anche israeliani, molti dei quali provenienti dalla famigerata unità 8200, con il compito di esercitare un controllo stringente sulle notizie, anche attraverso un progressivo addomesticamento degli algoritmi. Lo stesso governo israeliano ha poi concluso un mega-contratto milionario con Google, sostanzialmente al medesimo scopo.
I grandi capitali statunitensi, controllati da alcuni esponenti della Israel Lobby, si stanno poi concentrando in un processo di acquisizioni nel campo dei media tradizionali, soprattutto televisivi, con il chiaro disegno di creare dei conglomerati mediatici in grado di contrastare la crescente ‘disaffezione’ verso Israele. E da ultimo, la mobilitazione degli esponenti politici legati a queste lobbies, affinché mettano in campo una dura azione repressiva verso qualsivoglia manifestazione di dissenso verso la politica statunitense nei confronti di Israele e, ancor più, verso chi sostenga la causa palestinese. Azione che abbiamo già visto all’opera nelle università, che stiamo cominciando a vedere nei media – utilizzando abilmente l’omicidio Kirk – e che si delinea ancor più chiaramente con la ventilata intenzione di classificare il movimento Antifa come organizzazione terrorista. Cosa che, ad esempio, è già stata fatta nel Regno Unito, contro Palestine Action.
A questo punto, però, si rende necessaria una precisazione. Per ragioni sin troppo ovvie, l’azione israeliana volta a contrastare qualsiasi critica alla propria politica bellicosa e genocida, si rivolge principalmente al mondo anglosassone, poiché USA ed UK sono i paesi che danno il maggior sostegno a Tel Aviv. Non sarà sfuggito, ad esempio, che dopo la dichiarazione contemporanea di Australia, Canada, Portogallo e Regno Unito, in riconoscimento dello stato di Palestina, la risposta piccata e polemica di Israele ha citato soltanto Londra, ignorando del tutto Canberra, Ottawa e Lisbona…
Essendo questi appunto i paesi fondamentali per la sicurezza israeliana, la crescita di una opinione pubblica sempre meno favorevole, quando non apertamente ostile, anche e soprattutto perché si riscontra in ambienti giovanili, e tra le forze tradizionalmente invece più vicine, ha reso necessaria – agli occhi del governo israeliano – l’apertura di questo ottavo fronte di guerra.
Ma – e qui vengo alla precisazione suaccennata – bisogna capire due cose, fondamentali. La prima è che questa azione si dispiega ‘primariamente’ nei due paesi anglosassoni, ma inevitabilmente seguirà in tutti i paesi europei. La seconda è che questa azione si sposa perfettamente con gli interessi delle classi dominanti, di qua e di là dell’Atlantico, a mettere in atto una stretta repressiva, che porti a una progressiva ‘militarizzazione’ della società – sia a fini di controllo interno, soprattutto in USA, che in funzione della preparazione a un conflitto esterno, in Europa.
La chiave ideologica che caratterizza – e lo farà sempre più – questo processo di criminalizzazione del dissenso, la si può rintracciare in un pensiero reazionario-conservatore che, ovviamente proprio a partire dalla leadership israeliana, identifica la minaccia primaria in una (ipotetica) alleanza tra sinistra radicale e islamismo. Questa saldatura, che vista da Tel Aviv equivale all’apoteosi dell’antisemitismo, trova ovviamente nella solidarietà alla causa palestinese il suo momento topico. Al tempo stesso, e per ragioni diverse, anche le leadership europee e statunitensi tendono a vedere in questi due filoni l’embrione di una minaccia, anche a prescindere dalla questione israeliana. Questa comunanza di interessi, quindi, spingerà entrambe a inasprire la stretta securitaria, utilizzando questa ipotetica alleanza come lo spauracchio giustificativo. Quanto stiamo già vedendo in Germania, nel Regno Unito, ma anche in Olanda – che si appresta a dichiarare a sua volta Antifa come terrorista – non è che l’avvisaglia dei tempi a venire.
In Europa, un po’ per memoria storica, un po’ perché la competizione elettorale arriva soprattutto da destra (Refome UK, AfD, Rassemblement National…), è possibile che questa svolta si manifesti anche contro alcune frange della destra. Ma l’asse principale rimane quello contro il nemico ‘naturale’, la sinistra.
Naturalmente, ogni paese ha la sua storia, e quindi le modalità, e l’intensità, con cui questo disegno verrà messo in atto possono essere diverse. Sicuramente Italia e Spagna, ad esempio, sono assai diverse dalla Germania. Ma non bisogna sottovalutare gli elementi meno appariscenti, ma non meno significativi. L’Italia, ad esempio, ha non solo una infausta storia passata di controllo clandestino da parte delle forze più reazionarie legate alla NATO (Stay Behind, P2), ma anche un attuale – e largamente misconosciuto – legame con i servizi segreti israeliani. Sono ben lontani i tempi in cui, in virtù del famoso ‘lodo Moro’, l’Italia aveva stabilito non solo una politica estera quasi filo-araba, ma una vera e propria ‘tregua’ con le formazioni della Resistenza palestinese (l’FPLP in particolare), riassumibile in uno scambio tra la garanzia che l’Italia non sarebbe stata teatro di attentati, in cambio di una sorta di ‘franchigia’ per le formazioni palestinesi. Oggi, la contrario, l’Italia è un porto franco per i servizi segreti stranieri. Ricordiamo il caso Abu Omar, sequestrato in pieno centro a Milano da agenti della CIA – poi condannati per quella ‘extraordinary rendition’, e successivamente graziati da Mattarella. Ricordiamo il caso della barca Gooduria, rovesciatasi nel lago Maggiore, sulla quale si trovavano agenti italiani ed israeliani che dovevano portare a termine una ‘operazione segreta’ (i sopravvissuti israeliani furono rimpatriati con un volo militare prima di essere interrogati). Ricordiamo il misterioso affondamento dello yacht Bayesian, vicino Palermo, il cui relitto fu ispezionato in fondo al mare dagli agenti segreti britannici prima che dagli inquirenti italiani…
Il nostro paese, che è pur sempre una portaerei naturale proiettata sul Mediterraneo, resta insomma al centro degli interessi strategici statunitensi, britannici e israeliani. I quali a loro volta sono legati da un patto di ferro. Quindi non c’è da far conto su una ‘diversità’ italiana. Se c’è, è tutta a loro vantaggio. Occorre quindi tenere alta la guardia.