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Quanto lunghe sono le nostre radici?

di Pierluigi Fagan

Riflessioni sulla lettura di  D.L.Smail, Storia profonda, Bollati Boringhieri, Torino, 2017

creazione12Daniel Lord Smail, professore ad Harvard, ha ereditato dal padre (a sua volta professore di storia) una passione istintiva per la -grande storia naturale dell’umanità-. Portata avanti l’indagine nei corsi si è risolto a buttare giù una introduzione per un volume di storia naturale che ne riportasse i contenuti ma poi si è accorto che l’una e l’altra, introduzione e storia, metodo e contenuto, avrebbero dato vita al classico mattone sulle seicento pagine. Ha quindi deciso di scrivere una libro di sola riflessione metodologica sull’ipotesi di “storia profonda”, la riunificazione di tutti i domini della storia (geologia, biologia, paleoantropologia, linguistica e storia dei fatti umani) alla ricerca di quel sfuggente oggetto che è la fenomenologia dell’umano.

Il tempo che prendiamo in esame, la sua durata o estensione, è la condizioni di pensabilità prima della profondità storica. Darwin non avrebbe mai potuto intuire e poi sviluppare la sua teoria, se poco prima i geologi non avessero cominciato a dilatare a dismisura il tempo naturale. Fu in un certo senso, lo sviluppo urbano a portare a quegli scavi da cui affiorarono resti atipici di animali che infiammarono il dibattito sulle classificazioni ai tempi di Cuvier. I paleontologi, forse non ancora consapevoli essi stessi della loro categoria (erano ancora solo “biologi” perché il “paleo” non esisteva come concetto), inizialmente riportarono quei resti a delle anomalie delle specie note ma sia la comparazione inter-specie, sia lo sviluppo delle classificazioni da Linneo in poi, sia proprio i geologi consapevoli che ogni strato scavato corrispondeva ad una fascia di tempo, arrivarono piano piano a capire che il tempo della vita biologica e del pianeta stesso era molto ma molto più lungo del ritenuto, le specie non erano fisse, alcune erano vissute ma poi scomparse, altre erano profondamente cambiate, la Natura aveva un suo motore creativo interno di cui poi Darwin tentò di carpirne i segreti.

Un vincolo fisso dell’immagine di mondo occidentale, vietava questa difficile presa di coscienza dell’estensione temporale che -si ricorda- si sviluppò a partire solo dalla prima metà del XIX secolo, non molto tempo fa. Il vincolo era dato dalla credenza condivisa a paradigma dell’intero mondo occidentale: la Bibbia. Il vescovo Ussher, nel 1650, aveva pubblicato il suo “calcolo scientifico” della nascita del mondo in seguito al conteggio delle varie generazioni che seguono la Genesi dell’Antico Testamento, ed il verdetto collocava l’inizio della settimana creativa di Dio, al mezzodì del 23 ottobre del 4004 a.C. . Altri conteggi sbordarono di un migliaio di anni in più o in meno ma nella sostanza, il tempo percepito come inizio del tempo stesso, era quello, una qualche migliaia di anni prima di Cristo. Del resto, anche a “logica degli eventi”, tra Adamo e Noè poi Mosè, poi Cristo, Dio certo non poteva aver aspettato molto tempo per rivelarsi alla sua creatura per dare senso al mondo ed alla missione umana. Ogni cultura, tende ad iniziare il tempo con la propria ipotesi di origine. L’Isis, come i talebani ma anche il “clero” wahabita, è dedito alla distruzione di quei manufatti storici testimoni di grandi forme di civilizzazione ben precedenti il VII secolo nel quale Maometto ha ricevuto la rivelazione. Lo stesso Smail, testimonia di come negli Stati Uniti d’America, l’insegnamento universitario della storia abbia già quasi completamente eliminato la storia antica, abbia opacizzato la storia medioevale europea e stia addirittura minando lo stesso inizio della storia moderna. Già le facoltà di economics hanno -pare- cancellato da tempo i corsi di storia del fenomeno economico poiché ogni “altro modo”, per quanto passato, mina la vigenza assoluta dei paradigmi contemporanei. Insomma, tra le condizioni di pensabilità, il tempo è la prima coordinata fondamentale.

L’intera auto percezione delle società complesse occidentali, ha teso a contemplare il tempo storico come originato dalla rivoluzione agricola che, guarda un po’, ha la stessa tempistica del racconto biblico. E poiché di questa auto comprensione ha fatto parte lo sviluppo della conoscenza scientifica e la scienza si applica non in via ipotetica ma su dati certi, ecco che i dati sono stati solo quelli riportati dalla scrittura la cui origine -di nuovo- si pensa coincidente col pacchetto Bibbia + società complesse figlie-della-rivoluzione-agricola. Infine, tutto ciò che è tempo, incrocia l’altra coordinata della mente trascendentale (avrebbe detto Kant, la sua “estetica”) occidentale che in quanto spazio, come culla dell’origine, prevede il Medio Oriente (sempre per l’intero pacchetto Bibbia + società complesse + scrittura = Civiltà occidentale) ovvero la culla da cui nasce l’Europa e da qui, il nostro ostinato occidetal-centrismo.

Come accadde ieri con i geologi, oggi gli archeologi, i paleoantropologi, l’analisi di reperti materiali che testimoniano reti di scambio ad incredibile distanza e per tempi molto remoti, l’antropologia e l’etnologia comparate, i biologi molecolari, la linguistica con la ricerca su i ceppi originari delle lingue ancestrali, la nostra miglior comprensione sulla storia del cervello quale ad esempio abbiamo citato nell’articolo sul lavoro di Jaak Panksepp (qui), hanno ormai forzato i rigidi limiti della storia iniziata seimila anni fa. Paleolitico, neolitico, postlitico sono ormai da intendere frazioni di un’unica storia, l’Africa è da considerare la nostra madrepatria di genere e specie, l’interdisciplinarietà è da considerare l’unico approccio che può consentire di elaborare una vera conoscenza realistica ed umana del senso del nostro tempo trascorso dalle origini, origini collocate nel tempo profondo che Smail vuol cominciare a raccontare come “storia profonda”. Smail insegna Storia del Mediterraneo soprattutto il tardo medioevo. Egli quindi è andato senz’altro a lezione di “lunga durata” da F. Braudel e credo voglia prendere quella lunghezza ed estenderla ancora di più, almeno fin dove le nostre attuali conoscenze lo rendono possibile.

In gioco c’è molto. I più antichi lettori di questo blog forse ricorderanno che uno dei primi articoli pubblicati (qui) era proprio sul tempo storico e prendeva a caso da meglio indagare l’ormai noto sito archeologico di Gobekli tepe, una incredibile serie di circoli megalitici costruiti chissà da chi, chissà come e soprattutto perché, ben dodicimila anni fa. Gobekli tepe potrebbe testimoniare una precoce facoltà umana di collaborazione inter-tribale al fine di far ruotare un vasto areale frazionato in piccole società autonome ma tutte gravitanti intorno ad una credenza condivisa, uno spazio delle idee comune. Così per il Cimitero 117, un sito di sepolture nel sud Sudan di un paio di millenni antecedente Gobekli tepe che è l’unica testimonianza che abbiamo di una possibile strage dovuta a conflitto inter-tribale. In questo caso, non è il sito a dirci qualcosa ma il fatto che molti ritengono che queste stragi da conflitto siano state lo standard dell’umana storia profonda quando questa è solo una credenza senza prove proprio perché l’unica vera prova che abbiamo è “solo” di quattordici mila anni fa. Ne potrebbe conseguire l’ipotesi che i conflitti appaiono sistematicamente molto tardi ed andrebbero forse messi in relazione ad una intensificazione della densità abitativa di una certa area, alla demografia irritata magari da qualche rovescio ambientale, non alla genetica. Così per le ormai numerose prove di villaggi paleolitici con centinaia di abitanti che vivevano di caccia e raccolta che falsificano la convinzione che stanzialità e quindi complessità sociale siano derivati del modo di produzione agricolo, evidente proiezione dell’economicismo moderno.

In ballo ci sono almeno due cose importanti. La prima è l’informazione su cui basare i nostri tentativi di risposta alla domanda chi siamo? Quante variazioni e di che tipo fanno l’umano? Come si sono comportati i paleo-antichi e modulando i comportamenti rispetto a quali variabili? La seconda è la scoperta ancora non debitamente trattata e codificata di quanto è complessa la mentalità che muove il comportamento umano. Quante “teorie fantasma” abbiamo nella mente quando esprimiamo una analisi o un giudizio? Quali condizioni ambientali e non certo bio-genetiche giocano nella differenza tra la strage sudanese e la possibile anfizionia anatolica? Quali strutture mentali proprie di una credenza religiosa o politica o epistemologica, ordinano il flusso delle nostre immagini di mondo che si vorrebbero rispecchiamento di una realtà che vediamo e percepiamo a sua volta solo dopo averla filtrata con i vincoli nascosti di quelle credenze, magari credenze che singolarmente non abbiamo neanche a livello individuale ma che agiscono come “spirito dei tempi” o mainstream o verità dai più ritenute tali o sentieri obbligati da metafore condivise che “pensano al nostro posto”. E non parlo solo delle informazioni in quanto tali ma delle logiche, degli improvvisi sensi vietati o dei flussi autostradali per i quali ripetiamo assunti infondati che accettiamo in forma irriflessa, quelle “condizioni di pensabilità” che impediscono di andare da una parte e ti portano irrimediabilmente da un’altra parte, magari proprio quando stai cercando una via alternativa al consueto modo di pensare le cose. Kant ci aveva ammonito sull’apriori della ragion pura ma ora dovremmo andare avanti e cominciare ad indagare l’apriori della ragione impura e storica, immagine di mondo, mentalità, epistème, dominio paradigmatico che di dir si voglia.

Su questo secondo aspetto della faccenda, Smail basa l’intero secondo capitolo, una analisi di come gli stessi storici si siano auto assoggettati alla convinzione ombra dei tempi biblici anche quando questo paradigma non era invero più vigente in forma esplicita. E’ un capitolo di epistemologia storica che da Vico a Ranke, da Langlois a Seignobos, da Labberton a Guizot, con pesanti influenze anche dei filosofi, Hegel più di ogni altro, ripercorre le ragioni razionali avanzate per una irrazionale difesa dell’invisibile assunto di partenza. Contorsioni dell’immagine di mondo o mentalità, che mostrano con quale finezza e creatività, con quanto spreco logico ed arguzia delle motivazioni, gli esseri umani siano in grado di giustificare l’ingiustificabile. Il Diluvio cancellò ogni elemento intelligibile del passato, la storia è solo la storia delle testimonianze scritte (quando le testimonianze scritte sono sempre imbevute di ideologie, “cariche di teorie”), “una società può essere oggetto di scrutinio storico solo quando quella società possiede una coscienza storica”, la storia può essere solo storia della civiltà, la storia è solo storia documentata dei grandi uomini, le tradizioni orali non sono affidabili, la storia paleolitica è impossibile perché l’uomo era un anima individuale che non esprimeva socialità (?). Tutte ragioni utili per problematizzare l’epistemologia storica del passato profondo ma che in sé, non possono sostituire il punto dove il punto è: ci sono radici lunghe dell’umanità e tocca scoprire fin dove arrivano ed in cosa sono piantate.

Si tenga anche conto di quanto peso ha l’intera massa di questa produzione e tradizione, quanto le tonnellate di scritti che si rimandano l’un l’altro, un intero sistema di credenze puntellate da paradigmi astrusi di cui i professori e gli accademici sono i sacerdoti, impedisce anche solo di prendere in esame l’inquietante lunga galleria di Chauvet con i suoi 500 metri con più di 500 diverse opere di pittura rupestre datate a 32.000 anni fa. Il bellissimo documentario di Werner Herzog Cave of Forgotten Dreams, tra l’altro, mostra la geografia del posto e pone subito la domanda su quale fosse il contesto realizzativo e l’uso di un sito che bisogna raggiungere con molta fatica e forse anche qualche pericolo, segno di una intenzionalità molto complessa, sia da parte degli autori, sia dei fruitori. Non certo l’improvvisata domenicale vena pittorica di un manipolo di Cro Magnon che volevano far colpo sulle rispettive fidanzate. O a proposito della scrittura, si veda il volume “Origini della scrittura” a cura di G. Bocchi e M. Ceruti (Bruno Mondadori, Milano, 2002) che raccoglie quei molti studiosi il cui contributo racconta una storia meno improvvisa delle tavolette sumeriche, un lungo processo che inizia forse addirittura 10.000 anni fa. O nell’archeologia linguistica, l’ipotesi nostratica che pone una lingua originaria da cui poi sarebbero discese le varie forme di indoeuropeo ma anche le uralo-altaiche, dravidiche e lo stesso sumero, una superfamiglia derivata da una lingua originaria parlata nella Russia di 12.000 anni fa. Per non parlare delle eterodosse tesi continuiste del grande Mario Alinei che retrocedono appunto a 40.000 anni fa i ceppi linguistici originari, ipotesi corroborata da solido metodo interdisciplinare che attinge alla genetica delle popolazioni, all’archeologia, all’etnologia e paleoantropologia. Ipotesi certo, ma non meno ipotetiche di quelle che reggono le nostre attuali credenze condivise ma aprenti però, tutt’altre euristiche.

Veniamo allora al quarto capitolo, l’ipotesi sia possibile ricostruire una neuro storia. Il capitolo è una sorta di riepilogo ben informato su i raggiungimenti di tutte le discipline che dalla biologia alla psicologia, ruotano intorno alla mente umana. Impossibile e comunque poco utile, riassumere qui i termini del problema, ci limiteremo quindi alle questioni di cornice. La faccenda potrebbe essere compendiata come una sorta evoluzione dell’evoluzionismo in direzione dell’adattamentismo. L’adattamentismo è -secondo noi- il vero paradigma interno alla teoria di Darwin ovvero il presentarsi del fuori di noi come perno problematico della nostra esistenza di genere (umana), specie (sapiens), sociale ed individuale. A questo fuori di noi, a volte ambientale e naturale, a volte sociale e culturale, rispondiamo con una complessa stratificazione di sistemi che ci compongono, sistemi biologici quindi ereditari, culturali e sociali quindi storici, spesso del tutto casuali. L’adattamentismo a differenza dell’evoluzionismo non prevede alcuna verità precisa dato che l’adattamento al fuori noi dipende dall’estrema variabilità di questo “fuori di noi”. Se quindi il concetto di “evoluzione” è relativo, lo è anche il concetto di “progresso”. Inoltre, più l’analisi entra con attenzione dentro un comportamento umano, più scopriamo che questo è la somma non precisa di tanti segmenti creati dalle retroazioni tra biologia e cultura ma anche condizionati in un certo senso dalla logica dell’intero sistema che dal genotipo deve portare al fenotipo. L’epigenetica, ad esempio, sta presentando quel modello ricorrente in natura per il quale se il codice ereditato propone varie soluzioni è la relazione a contatto con il qui ed ora a determinare l’espressione genetica. Processi senza oggetto, ricchi di ridondanza ed imprecisione ma comunque dotati di tendenza, determinanti una certa abitudine chimica, una certa architettura dei cablaggi per altro molto variabile, riutilizzo e bricolage di materiali altrimenti finalizzati. Nel complesso, tutto ciò “funziona” in molti casi, in molti altri molto meno, in alcuni punti forse per niente. Soprattutto, le nostre immagini di mondo ipostatizzano dicotomie e notano contraddizioni a posteriori ma la nostra storia amalgama con ben più ampia tolleranza il nostro essere maschile ma anche un po’ femminile, socializzante ma anche un po’ individualistico, etico-morale ma anche un po’ furfante, altruista ma anche tanto egoista. Le immagini di mondo allora forzino i caratteri, estremizzino i giudizi ma non si sostituiscano alla onesta e realistica lettura della nostra intricata complessità di partenza.

Ne consegue la sparizione della dicotomia natura-cultura, la crescita di interesse per la microevoluzione piuttosto che per quella macro, la selezione delle popolazioni più che degli individui, l’imprecisione comunque funzionale di quelli che Paul Ehrlich chiama “strascichi evolutivi”, l’effetto Baldwin, la conta degli adattamenti positivi che assomma a pacchetto anche quelli negativi e quelli neutri, la loro stessa variabilità nel tempo dato che quello che era adattativo cinquecentomila anni fa (e dove poi, in zone forestali, di costa, di montagna, con picchi di temperatura alta o bassa? etc.) potrebbe non esserlo oggi o viceversa, gli exattamenti (il riciclo a nuovi usi e scopi di strutture selezionate con originarie diverse ragioni), il superamento dell’altra dicotomia tra continuismo ed equilibri punteggiati (dato che esistono, pare, entrambe le modalità), la sovrabbondanza di produzione della natura al fine di tenere larghe certe condizioni di possibilità che essa stessa vuole non precisare ex-ante dato che il gioco si sa che sarà complesso e dinamico e quindi non pre-vedibile con precisione, l’estrema complessità che denota il passaggio tra genotipo e fenotipo che ci siamo immaginati un po’ tropo semplice, lo scetticismo per l’approccio di “reverse engineering” dato che la stessa metafora di riferimento ovvero il fatto che si abbia a che fare con un prodotto ingegneristico è fallace. Di base, c’è un mondo complesso bio-culturale dentro ogni individuo, gli individui umani si sono viepiù dovuti adattare ai gruppi umani (le società) che non alla natura, erano proprio i gruppi umani nel loro complesso ad avere questo compito e quindi vana è la sola ricerca di linee corte e dirette tra essere individuale e natura. Quale natura poi, di quali luoghi e di quali tempi ? Siamo cresciuti scavando tuberi, raccogliendo bacche e cozze, inseguendo conigli o organizzando complesse battute di caccia coordinata alla megafauna? L’impressione è che ci sia troppa fretta a mettere il coperchio su una pentola che ha appena cominciato a bollire e che la norma sia retro imporre categorie attuali su fenomeni altrimenti ordinati. Sarebbe meglio, forse, una fase anarchica tipo “anything goes”, à la Feyerabend per riaprire una euristica interpretativa che non pensi al prima con le categorie del dopo.

L’ultimo capitolo, Smail lo dedica ai rapporti tra le civiltà e la manipolazione della chimica corporea, mentale e quindi psichica nello specifico, indotte ed autoindotte da determinate pratiche o sostanze psicotrope. Canti, balli, preghiere, riti di vario tipo, gossip ovvero la versione umana del grooming dei primati, addirittura lo shopping, sesso ma anche le gerarchie di dominanza hanno un corrispettivo stato neurochimico, in qualche modo fissato nella nostra neurofisiologia. Pratiche attese ma che poi rinforzano determinato sentieri neurali tanto da arrivare a stati di dipendenza. La modernità, col suo carico di spezie e coloniali esotici, portò prima alle élite, poi al mercato di massa, una gran quantità di stimolanti e calmanti che, secondo l’autore, avrebbero anche svolto il ruolo di compensatori della mancanza di una vita religiosa quale quella che ordinò il medioevo. Le droghe propriamente dette e l’alcool sono poi le sostanze più direttamente usate per questa auto manipolazione dello stato d’animo mentre il grande mondo delle sostanze farmacologiche, nella sua vistosa inflazione, denota abitudini ormai di massa nel giocare al piccolo chimico con la propria anima. Anche la continua masturbazione dell’attenzione col cellulare, l’esibizione del proprio corpo e del desiderio, i social network, il porno on line, i videogiochi, gli stati perduranti di autostimolazione continua che hanno poi il contraltare dell’apatia e della noia esistenziale, inducono a pensare a quel “mondo nuovo” di Huxley (1932) in cui tutti sono dipendenti, nel senso di “addicted”, di qualcosa. La piramide di Maslow andrebbe così aggiornata con questo bisogno di auto-manipolazione chimica su cui prospera l’attuale sistema ordinato dal fatto economico che chiamiamo “capitalismo” ma che il capitalismo si è limitato a sfruttare, non a creare. L’argomento ha un suo interesse, senz’altro nel renderci maggiormente consapevoli del corrispettivo chimico di tanti comportamenti che poi diventano fenomeni macroscopici, economici, culturali e financo politici, nonché come possibile taglio di analisi storica, ad esempio al pari delle malattie virali e delle grandi epidemie del world historian McNeill ma francamente, non ci sembra poi così decisivo per perorare la causa della storia profonda.

Smail trae, alla fine, le conclusioni della sua indagine sulle condizioni di pensabilità di una storia profonda. Invoca la necessaria multidisciplinarietà per ricostruire l’immagine del passato, indebolisce a priori i risultati ipotetici che si possono ottenere sostituendo le leggi di natura che nell’umano vengono ad amalgamarsi coi fatti di cultura, determinando al massimo “pattern” o tendenze, schemi indicativi la cui interpretazione ne dà la variabilità. Di contro, qualcosa di questa natura umana emerge se a distanza di luogo e di tempo, tante “invenzioni” (dall’agricoltura alla scrittura, dalle classi sacerdotali alla gerarchia sociale) sembrano seguire pattern ricorsivi comparendo qui e lì ed al netto di prestiti e possibili influenze quali postulati dal diffusionismo. L’agente storico, l’uomo, è crogiuolo di cultura e biologia e questa invocazione a superare la dicotomia delle due culture è forse il messaggio metodologico più forte che ci lascia Smail.

Confesso di essermi immaginato altro nel desiderare la lettura di questo libro. Forse se Smail avesse corredato la sua indagine di qualche esempio fattivo di questa storia profonda, qualcuno dei tanti fatti fuori teoria come lo sforzo templare di Gobekli tepe in assenza di società centralizzata o la mancanza di prove di quella antropologia che ci vorrebbe intrinsecamente violenti e competitivi o l’irragionevole grandezza della Cappella Sistina paleolitica di Chauvet, per non dire di molto altro quale anche la citazione che fa nelle conclusioni del lavoro di Marshall Shalins che demistifica l’avvento dell’agricoltura come un triste ripiego su una dieta povera, non meno incerta della caccia e raccolta ma soprattutto molto ma molto più dispendiosa da produrre, la sua perorazione avrebbe acquistato maggior concretezza.

Sta di fatto che alcuni di noi, soprattutto quando i tempi mostrano il cedimento vasto e profondo dei piloni delle credenze condivise che sostengono un certo modo di stare al mondo, volgono lo sguardo all’indietro per tornare ad indagare l’Origine. Quella Origine che ogni immagine di mondo ricostruisce a modo suo per dare fondamento a ciò che si è e che invece sarebbe -proprio ora che non sappiamo più chi siamo- il caso di indagare cercando di strappare al tempo profondo le sue pur vaghe e sempre provvisorie verità. La ricerca continua, per seguire le nostre lunghe radici occorrerà continuare a scavare sempre più a fondo, fuori e dentro di noi …

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