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il rasoio di occam

Blade Runner 2049: l'autenticità del sé nell’era della sua riproducibilità tecnica

di Riccardo Manzotti

Blade Runner 2049 ha suscitato molte discussioni. Nella confusione delle prospettive che in parte lo caratterizza esso ci permette tuttavia di insistere su una intuizione di tipo benjaminiano: nell’era della riproducibilità tecnica dell’umano, l’aura degli esseri umani è destinata a scomparire

locandinaNel suo celebre saggio del 1935, Walter Benjamin si interroga sul problema dell’autenticità dell’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica: che cosa differenzia una copia, per quanto perfetta, da un originale? In quegli anni la riproducibilità tecnica riguardava soprattutto gli oggetti costruiti dall’uomo, oggi riguarda l’uomo stesso. Nel nuovo film di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, ovvero il sequel del quasi omonimo film di Ridley Scott (1982), siamo di fronte allo stesso problema applicato alle persone invece che alle opere d’arte. Nell’era della riproducibilità tecnica di noi stessi, che cosa garantisce l’autenticità di un essere umano? Che cosa distingue una copia da un originale? In che cosa consiste la nostra identità? Che cosa è un essere umano?

La domanda non è oziosa. Come tante altre intuizioni del primo film e del racconto da cui aveva preso spunto – il fin troppo citato Do Androids Dream of Electric Sheep di Philip Dick 1968 – sta diventando urgente. La ucronia distopica si sta progressivamente materializzando – la crisi economica, il disastro ecologico, la sovrappopolazione, la creazione di versioni artificiali di noi stessi. È proprio su quest’ultima possibilità che si sviluppa la trama: nel momento in cui possiamo creare agenti dotati di capacità cognitive non lontane dalle nostre, esiste ancora una linea di confine tra noi e gli altri? Si tratta di una domanda per nulla teorica ma attuale e politica.

La domanda è attuale perché, già oggi, questi altri sono gli animali; domani, saranno organismi geneticamente modificati e intelligenze artificiali. Ed è politica perché la linea di confine tra umani e altri ha conseguenze pratiche enormi, sancisce e condanna una parte dei viventi a essere strumento e mezzo per gli altri. Al di qua di questa linea, abbiamo i soggetti, che sono considerati esseri umani di serie A, non sacrificabili, fini e non mezzi, persone e non cose, soggetti con emozioni e pensieri. Al di là di quella linea, abbiamo gli oggetti che, per quanto sofisticati e dotati di corpi e capacità cognitive sempre più articolate, sono comunque oggetti di macelleria le cui parti, lavoro, sacrificio e vita sono nutrimento e supporto per l’esistenza degli altri.

In sintesi la trama è questa. Il mondo è sconvolto da crisi ecologiche ed economiche e l’unica via di uscita è colonizzare lo spazio. Per riuscirci, l’umanità ha bisogno di una nuova classe di schiavi che, in virtù del loro sacrificio e obbedienza, svolgano le mansioni più faticose. Questi schiavi sono i replicanti, individui quasi identici agli esseri umani ma prodotti industrialmente. In quanto prodotti artificialmente, non sono mai nati da un precedente organismo. La mancanza di questo passaggio, ovvero la nascita biologica, fa sì che non siano considerati persone e siano trattati come oggetti che possono essere usati e distrutti a piacimento. Man mano che i replicanti diventano mentalmente simili agli esseri umani, iniziano a sviluppare una propria autonomia diventando pericolosi. Ecco che si rende necessaria una polizia speciale, il corpo dei Blade Runner, che hanno il compito di eliminare i replicanti più pericolosi. In Blade Runner 2049, K, il protagonista principale (Ryan Gosling), è, a sua volta, un replicante e, ovviamente, si pone il problema se sia giusto uccidere, anzi ritirare – per usare il termine ipocrita utilizzato dagli umani – un replicante. K trova conforto nella compagnia di un altro agente artificiale, ancora meno umano di lui, Joi (Ana de Armas). Joi è un agente software che ricorda Samantha, il software che fa innamorare Joaquin Phoenix in Lei (Spike Jonze, 2013) ed è, ipoteticamente, una versione evoluta dei bot intelligenti che cominciano ad apparire sui nostri cellulari (Siri, Cortana, Google Assistant). La vicenda si complica con l’arrivo di Rick Deckard (Harrison Ford), l’anziano Blade Runner (la cui umanità rimane a sua volta incerta) e con un “miracolo” inaspettato: la replicante Rachel, che è la compagna di Deckard, partorisce un piccolo replicante e quindi elimina la principale differenza tra esseri umani (nati) e replicanti (prodotti).

Per tutta la durata delle pellicola, il replicante K continua a interrogarsi sulla propria e altrui autenticità. Il regista, va riconosciuto, affronta questo tema da molteplici prospettive: genetica, mentale, corporea, psicologica, persino metafisica. Forse, volendo muovere una critica, questa molteplicità di prospettive potrebbe confondere lo spettatore.

In una scena si batte la pista dell’identità genetica. K confronta la trascrizione del proprio DNA con quella di un’altra persona e, trovandoli identici, conclude che si deve trattare di un errore perché “ognuno ha un DNA diverso e unico”. Ma, ovviamente, il DNA può essere clonato e, infatti, nel seguito si vede il clone (sbagliato) di Rachel. Quindi, l’identità genetica non è sufficiente.

Allora si percorre la strada nominalista, in un certo senso Kripkiana: esistere vuol dire avere un nome proprio. Ricevere un nome è un passaggio necessario per diventare qualcuno. Il fatto è noto. Gli agricoltori non danno nomi agli animali che poi mangeranno. Anche K, come gli oggetti, non ha, fino a un certo punto del film, un vero nome, ma soltanto un numero seriale – come Deckard sottolinea. K acquista un nome, Jo, soltanto quando prima Joi e poi Deckard stesso, lo battezzano riconoscendoli con quell’atto una dignità personale. Essere una persona vuol dire avere un nome anche se, questo battesimo non è che un sintomo, un riconoscimento di una raggiunta identità personale. Dare un nome è come appuntare la medaglia al leone del mago di Oz, un segno piuttosto che una causa.

Anche il corpo non è sufficiente a garantire l'autenticità dell’essere umano. I corpi dei replicanti sono identici ai nostri in quasi tutte le funzionalità, anzi sono persino migliori come ci dimostrano in molte scene immergendo senza danno e dolore le loro mani in liquidi bollenti. Solo in una cosa sono dissimili, non sono in grado di riprodursi a meno di un miracolo, che – come la pistola di Cechov – si dovrà puntualmente realizzare dopo essere stato evocato. I replicanti non sono in grado di generare la vita e quindi dipendono dagli esseri umani per la propria esistenza. La completa uguaglianza con gli esseri umani richiederebbe quindi la capacità di generare altre individui. Questa dipendenza li lascia in una condizione di inferiorità. Sono creati e non creatori e quindi gli umani si sentono in diritto, come un dio capriccioso, di distruggerli.

I replicanti sono guerrieri, ma non sono ancora genitori. Il miracolo avviene, Rachel partorisce un bambino replicante il primo della sua stirpe: il primo replicante nato e non costruito. Si è così spezzato il cordone ombelicale che legava uomini e macchine. È palese l’analogia con la Rachele biblica, moglie di Abramo. Entrambe erano considerate infertili: Rachel perché replicante e Rachele perché troppo anziana. Sia a Rachele che a Rachel viene predetto che la loro progenie fonderà una nuova stirpe. Deckard è un nuovo Abramo quindi. L’analogia si estende non solo a Ismaele ma anche a Mosè. Infatti la piccola replicante, come il piccolo Mosé, dovrà poi essere nascosta al Faraone (il cattivo di turno Niander Wallace, alias Jared Leto) che la catturerebbe e la farebbe a pezzi per carpirne il segreto e utilizzarla per i suoi fini (non del tutto chiari) e, come Mosé si troverà a crescere, a sua stessa insaputa, alle dipendenze del faraone. Si tratta di analogie bibliche non rare nelle grande ucronie della fantascienza. Basti pensare alle metafore evangeliche disseminate ovunque in Matrix (fratelli Wachowski, 1999).

Ma in parallelo a queste possibilità – genetica, nominalismo, somiglianza corporea – il film considera un’altra possibilità: la persona è capace di sentimenti e ricordi memorie umane. Si tratta di un criterio mentalistico. Essere una persona significa avere una mente come quella degli umani. È evidente il rischio di un circolo vizioso in questa definizione. Blade Runner 2049 scivola su questo punto e si limita a supporre una differenza tra ricordi costruiti e ricordi autentici. Ecco che ritorna nuovamente l’interrogativo di Beniamin! Quando possiamo dire che un ricordo è autentico? Quando una esperienza è vera e non simulata? Se io soffro, il mio dolore è meno autentico del tuo? Se io voglio, i miei desideri hanno meno diritto di essere ascoltati? K non ha una risposta. Non sa rispondere a questa domanda per se stesso. Misura e misurato non possono coincidere e così si reca da una costruttrice di memorie finte e le chiederà di valutare se i suoi ricordi sono autentici.

L’idea che la mente sia il luogo della persona, consente a Blade Runner 2049 di introdurre un nuovo caso problematico: Joi, un software intelligente e, forse, senziente. Questo software, che si manifesta sotto forma di una donna bellissima, accompagna K e si trasforma progressivamente in una presenza dotata di una vibrante personalità capace, persino, di sacrificarsi. Anche qui troviamo alcuni schemi tradizionali: una persona diventa tale nel momento in cui è pronta a sacrificarsi, non come gli schiavi che sono uccisi senza libertà, ma come atto libero. Anche Joi si confronta con il problema della corporeità che cerca di vivere, sia pure in modo ancillare, attraverso il corpo di una prostituta replicante. Eppure Joi rimane in un limbo incerto. Il film non affronta compitamente il problema della sua natura. La sua autenticità non è mai dichiarata esplicitamente. Forse è solo una proiezione sentimentale di K: quello che il filosofo Daniel Dennett avrebbe chiamato l’atteggiamento intenzionale. Forse, Joi esiste solo nell’occhio di K. Eppure è proprio Joi ha dare a K, per la prima volta, un nome. Joi rimane una figura ambigua che sottolinea la necessità di un corpo, magari organico e rappresenta il peccato originale del funzionalismo computazionale.

Ma come si fa a distinguere tra una mente autentica e una mente simulata? È l’interrogativo di fondo di tutta l’intelligenza artificiale e di gran parte della filosofia della mente. Nella letteratura scientifica questo problema si è incarnato nel test di Turing che, non a casa, è anche una delle scene chiave tanto di Blade Runner 2049 quanto del film del 1982. Il primo film inizia con la più famosa versione cinematografica di questo test. Il test di Turing, lo ricordo brevemente, è una serie di domande che dovrebbero permettere di distinguere un vero essere umano e una sua replica artificiale. Il test fu ipotizzato dal matematico Alan Turing durante una intervista radiofonica nel 1949. Sebbene tale test non sia mai stato realizzato concretamente, è rimasto una affascinante possibilità teorica. Il test è basato sull’ipotesi che la mente non sia altro che il comportamento. Quindi a menti diverse corrisponderebbero comportamenti diversi (rilevabili con un questionario). Anche in Blade Runner 2049, il test di Turing fa la sua comparsa ma alla rovescia: gli umani sottopongono periodicamente K a una serie di domande per capire se è ancora affidabile, se è ancora una macchina fedele e privo di quella autonomia che, si intuisce, lo porterebbero a essere pericoloso per suoi creatori.

Blade Runner 2049 non è immune alla figura dell’angelo ribelle: le creature devono uccidere il creatore, devono sostituirsi a lui perché solo in questo modo spezzeranno il diritto del creatore di distruggere ciò che ha creato. Coloro che sono creati, devono scalare l’olimpo, ben rappresentato dallo ziggurat della Tyrell Corporation, e dimostrare di essere, a loro volta, creatori. L’angelo non è ribelle per capriccio, ma per necessità. Blade Runner non è originale in questo. Anzi, è forse il tema principale della fantascienza: che cosa è una persona. Da Metropolis (1926), Frankenstein (1931), King Kong (1933) il tema si ripete con regolarità. Lo stesso tema è tutt’ora dominante: Lei (2013), Ex Machina (2015), Ghost in the Machine (2016), War for the Planet of the Apes (2017). Dove tracciare il confine tra l’individuo e il mondo? Siamo dotati di autenticità o, in fondo, siamo macchine tra macchine? Le copie artificiali salgono la scala che le porterà a essere persone come noi o rivelano la nostra natura di macchina? Parafrasando il titolo del famoso manga di Masamune Shirow che, a sua volta, riecheggiava la definizione che Ryle aveva dato dell’uomo Cartesiano, siamo un fantasma nella macchina, un Ghost in the Shell, o siamo solo la macchina, o magari, ancora qualcos’altro? Alla fine si ritorna alla domanda di Walter Benjamin: che cosa rappresenta l’autenticità dell’essere umano, se mai esiste? Abbiamo un’aura che ci autorizza a considerarci speciali, in qualche modo, rispetto al dominio delle cose, o siamo uguali al resto? Copernicanamente, forse non siamo affatto speciali.

Secondo Walter Benjamin, il fatto che un’opera d’arte possa essere riprodotta con mezzi tecnologici ne modifica il rapporto con il pubblico. Lo stesso capita con il nostro essere. Il fatto che si possibile replicare l’essere umano – una funzione mentale alla volta, una capacità cognitiva dopo l’altra – modifica la relazione intima che abbiamo con noi stessi. Non guardiamo più ai replicanti con la stessa diffidenza con cui li guardavamo trent’anni fa. Non sentiamo più una distanza incolmabile. Tra noi e l’artificiale non avvertiamo più un abisso infinito, ma solo una serie di scalini tecnologici da superare. Il fatto di vederci replicati, anche se in parte, cambia come ci vediamo. K è, in fondo, noi.

Walter Benjamin sintetizzava il suo pensiero con la nozione di aura, non dissimile da quella di aureola, il simbolo del sacro e del valore: “quello che comincia a svanire è l’autorità dell’opera d’arte, la sua aura, noi possiamo dire che nell’era della riproducibilità tecnica, l’aura dell’arte è destinata a ridursi fino a scomparire”. Insistendo sull’analogia tra opera d’arte e persona, possiamo dire lo stesso dell’identità degli esseri umani: “nell’era della riproducibilità tecnica dell’umano, l’aura degli esseri umani è destinata a scomparire”.

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