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Le distrazioni di Nanni Moretti

di Marco Montanaro

19 agosto 640x420Oggi Nanni Moretti compie 70 anni. A maggio scorso Aprile ne ha compiuti 25. Dalla sua uscita nel 1998 l’avrò rivisto una cinquantina di volte. Qualche giorno fa è stata la terza o quarta su Disney+, cosa che mi fa un effetto ancora un po’ strano (guardare un film di Nanni Moretti su Disney+).

“Nel 1994, un noto regista inizia a raccogliere spunti sulla scena politica italiana: dalla vittoria di Berlusconi e la sua caduta, alla vittoria politica della sinistra. Intanto nasce suo figlio, e continua a raccogliere spunti, ma un giorno decide di fare un giro in Vespa e gettare via tutto.”

Sono le poche righe con cui Aprile viene presentato sulla piattaforma. Una descrizione piuttosto normalizzante per un film che ha molto di straordinario, tanto più se ne consideriamo la breve durata (un’ora e diciotto minuti). Per Disney+, inoltre, Aprile è di genere “drammatico/commedia”, categorie che mi sembrano invece azzeccate, molto più di “documentario” (cosa che Aprile fa solo finta di essere).

Tuttavia, la cosa più strana è stata guardare Aprile dopo la morte di Silvio Berlusconi. Il film si apre proprio con la vittoria del Cavaliere alle elezioni del 1994, con la celebre scena del TG4 di Emilio Fede e della canna. È una di quelle sequenze che hanno contribuito a una sorta di memificazione ante litteram di Nanni Moretti nel corso degli anni. Ad ogni modo, con la scomparsa di Berlusconi è venuta meno una delle ossessioni principali dell’immaginario morettiano. Il che inizia a farci percepire Aprile anche come documento storico, oltre che come puro oggetto filmico.

In apparenza, Aprile si presenta come un instant movie sull’Italia post Tangentopoli, un Paese insieme eccitato e sconvolto dalla discesa in campo di Berlusconi. Ma nel film c’è tutto quello che avrebbe caratterizzato la politica italiana negli anni a venire e che, come si suol dire con un’espressione infelice, racconta molto di quello che siamo ancora oggi. Il berlusconismo, certo, ma anche lo sdoganamento definitivo della destra, l’ascesa della Lega, il discorso vuoto della sinistra e la sua deflagrazione. Ci sono già anche gli sbarchi e le politiche migratorie, con il naufragio della Katër i Radës (28 marzo 1997, governo Prodi), conseguenza di quello che potremmo definire il primo vero blocco navale della storia da parte dello Stato. Ed è proprio su questo drammatico avvenimento che nel finale Moretti spegne la macchina da presa e abbandona definitivamente l’idea del documentario sull’Italia di quegli anni.

Ma mentre abbandona quell’idea, Moretti ha comunque registrato i tratti distintivi di un periodo storico di grandi cambiamenti, sia grandi che piccoli. Le automobili, il cibo e gli oggetti d’uso quotidiano firmati dal designer Giugiaro, l’infinita serie di rotocalchi e riviste da edicola, le copertine de L’Espresso, le pubblicità, i giornalisti che si riposizionano da un giornale all’altro con grande disinvoltura, i nomi dei bambini nati in quegli anni, i programmi televisivi, i film appena usciti al cinema e così via.

Non manca neppure la rappresentazione della classe sociale cui appartiene lo stesso Moretti. È una borghesia di sinistra, o meglio ceto medio intellettuale, che di lì a qualche anno avrebbe perso ogni tipo di interlocuzione con le élite politiche di riferimento, e di riflesso ogni briciolo di rilevanza all’interno del discorso pubblico nazionale. Un segmento di società all’epoca ancora legato a uno stile di vita popolare: ecco quindi gli interni domestici sobri ma ben organizzati, la terrazza con le piante (e la pompa di gomma per innaffiarle), i corredi per i neonati cuciti dalle nonne, le utilitarie, le scuole e le sale cinematografiche da frequentare, eccetera. Utilizzo anch’io l’elenco come Nanni Moretti nel film per dare un senso di concretezza e accumulazione che porta alla vertigine, a un’estatica perdita di senso. Un modo per dire che un tempo andato è davvero esistito per tutto quello che era, anche quando si manifestava attraverso oggetti, esperienze e forme culturali che sembravano non riguardarci in prima persona.

Ma come dicevo in Aprile c’è molto altro. Con il classico meccanismo ricorsivo del film nel film, Nanni Moretti accompagna il documentario con le riprese dei primi mesi di vita del figlio Pietro e con l’idea di realizzare un musical su un pasticcere trozkista (già menzionato in Caro diario). Tuttavia il girato di queste opere non viene mai mostrato: i film nel film sono solo immaginati o messi in scena all’interno dello stesso Aprile. È come se la realtà filmica di Aprile, che aspira ad essere la stessa degli spettatori, avesse sempre la meglio, creando una continuità, un terreno comune in cui tutte queste opere sono possibili e convivono tra loro (e con le immagini televisive), ma non sono del tutto realizzabili. Mentre Aprile è il centro, il microfilm familiare, il documentario e il musical rappresentano di volta in volta l’ennesimo motivo di distrazione per il personaggio Moretti. Una scusa per voltare le spalle, sorseggiando un latte macchiato, al comizio della Lega in cui viene proclamata l’indipendenza della Padania, o per fuggire da Botteghe Oscure e rifugiarsi in ospedale da Silvia, stavolta per la montata del latte di Pietro.

In Aprile, non solo col latte, troviamo un rimando continuo al gioco e all’infanzia (“Ma perché devo diventare adulto? Non ce n’è motivo!”). È la possibilità di rivendicare il cinema come divertimento e quindi rifugio, fuga, escapismo. Sicuramente divagazione, distrazione appunto dalle immagini “che non mi piacciono”. Infatti è solo quando Moretti trova il coraggio – contro il pensiero della brevità della vita – di indossare la lunga mantella nera sulla Vespa come Zorro, che si decide a girare Il pasticcere trozkista.

Ma poi lo gira davvero? Oppure il musical è solo il modo più appropriato per chiudere Aprile? È davvero importante saperlo?

Forse Aprile è un film sulla confusione (non solo politica) del nostro Paese più di quanto non intendesse esserlo alla sua uscita. Una confusione che deriva in parte dal profluvio di immagini televisive che ha definitivamente soppiantato la parola: ma questa è un’affermazione un po’ troppo presuntuosa e roboante. Diciamo allora che Aprile è un film sull’incapacità di concentrarsi e sull’insofferenza che ne deriva. Come spesso accade nelle pellicole di Moretti, quest’insofferenza si manifesta con una grande fisicità, con lo stesso Moretti che si dimena, gesticola, canta e balla imprigionato nelle gabbie di inquadrature fisse, meticolosamente composte a partire dal colore. Il talento del personaggio Moretti in Aprile è tutto nel trasformare quest’insofferenza in movimento filmico, in distrazione produttiva, se così si può dire. Per “distrazione produttiva” intendo la capacità di ingannare la propria mancanza di concentrazione dirigendola con più o meno consapevolezza verso temi e oggetti di volta in volta diversi, e riuscire in questo modo a raccontare comunque qualcosa, sia pure per frammenti, spezzoni, tentativi e progetti abortiti. Così seguiamo il personaggio Moretti da un punto all’altro del Paese, da una possibilità espressiva all’altra, e Aprile non può che rimbalzare continuamente dalla fiction alla nonfiction, dal film al finto documentario.

Come insegna Werner Herzog, maestro della contraffazione, è inutile fissare i confini tra queste possibilità artistiche, come tra verità e finzione: il rischio è di confondere la prima, cioè la verità estatica del cinema, col semplice dato di fatto, con quella che il regista tedesco chiama “la verità dei contabili”, espressione che suppongo non abbia bisogno di spiegazioni. Quali parti di Aprile sono pura messinscena, quali no? L’intervista fallita a Corrado Stajano sulla sinistra italiana è forse più “vera” di quella, riuscita nel suo fallimento, alle famiglie albanesi sopravvissute al naufragio?

A sottolineare e a rafforzare l’intento e la verità estatica di queste sequenze in particolare sono altre due scene: l’inquadratura stretta sull’infinità di ombrelli in mesto cammino sotto la pioggia alla manifestazione del 25 aprile 1994 a Milano, e poi quella con la moltitudine di profughi ammassati sulla nave in arrivo nel porto di Brindisi nell’assenza delle istituzioni italiane nel 1997. Sono inquadrature totali, che riempiono lo schermo per lunghi secondi muti al di là del commento della voce fuori campo di Moretti (non ricordo neppure se c’è). Proprio per questo riescono a raccontare la verità intima ed estrema di un periodo storico e politico più di quanto possa fare il semplice documentario – in altri termini senza smettere di essere cinema, e ben oltre il semplice dato di cronaca. Non so come dirlo meglio, ma è lo stesso effetto che fanno le estati nei film di Nanni Moretti: sono più estati delle estati reali, sono estati assolute in cui c’è più luce, più mare e più asfalto che in quelle reali.

Ovviamente c’è pure molta ingenuità, in Aprile, quel tipo di ingenuità che oggi non si perdona a nessuno. Ingenuità è spesso il modo in cui chiamiamo a posteriori la tenerezza che non sopravvive allo spirito del tempo. E infatti a qualcuno, oggi, quello di Aprile può apparire come un insopportabile esercizio di autoindulgenza verso sé stessi, verso le proprie categorie mentali: il che è comprensibile. Ma a ben guardare quest’ingenuità non si fa mai nostalgia né retorica. Rispetto al suo passato di polemista incallito, Moretti scivola nel delirio autoironico delle lettere mai spedite e dei monologhi urlati a Hyde Park. Di fronte alla scuola e alla piscina della sua infanzia, invece, non si commuove né cede alla tentazione di “scrivere una brutta poesia”. Come abbiamo detto, con addosso la mantella nera Moretti sta semplicemente allontanando il pensiero della morte: per farlo non può che rivolgersi nuovamente al cinema di finzione, di evasione, per realizzare un film che prende a pretesto dei vaghi riferimenti storici per immaginare balli, coreografie e colori che sembrano quasi presagire il Wes Anderson della stilizzazione cartoonesca di Grand Budapest Hotel.

Per questo potremmo dire che c’è ancora un altro tipo di ingenuità, in Aprile: un’ingenuità tipica del suo autore, che come spettatori non possiamo che condividere (altrimenti non andremmo al cinema). È l’idea che la messinscena della realtà possa rendere più tollerabile la realtà stessa anche nelle sue manifestazioni più triviali, e persino guarire tutte o quasi le ferite della nostra vita con gli altri. L’idea, più di ogni altra cosa, che dalla messinscena della propria biografia si possa trarre qualcosa di universale o quantomeno di rilevante per gli altri, senza per questo appiattirsi sui modi e sui registri del discorso pubblico corrente o essere tacciati di mancanza di fantasia o immaginazione.

“Noi dobbiamo fare questo film”, ripete come un imperativo morale Moretti quando pensa al documentario sull’Italia di quegli anni (che tuttavia sembra interessare più ai francesi che agli italiani), ma nel frattempo il suo cinema continua a tenere un piede di qua, nella realtà, e un altro nel più candido “What If?” della storia fatta coi se, coi ma, e soprattutto col “sé”. Proprio come succede con Il sol dell’avvenire, suo ultimo film uscito quest’anno, quest’anno in cui Nanni Moretti ha compiuto 70 anni ed è incredibilmente sopravvissuto non solo a Silvio Berlusconi ma soprattutto a sé stesso, al cappio della scelta obbligata tra realtà e finzione, tra impegno e divertimento.

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Comments

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Mario M
Thursday, 24 August 2023 14:56
La glorificazione di Nanni Moretti rivela la mancanza di gusto del nostro giornalismo. Moretti è stato un genio della cinematografia fino a Palombella Rossa, girato circa trent'anni fa; poi si è normalizzato, con una cinematografia scialba senza acuti, spettacolarità, senza quelle battute entrate nella storia, con quella sua recitazione stralunata, coi dialoghi surreali...

O forse siamo di fronte a una glorificazione postuma, come per Pasolini, che però non era un genio della letteratura, tanto meno della cinematografia.
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