Il biolaboratorio mondo
di Costantino Ragusa
“L’ingegneria genetica è una tecnologia tanto radicale quanto quella nucleare, non solo perché entrambe affrontano gli elementi costitutivi “estremi”della materia e della vita, disintegrando ciò che era ritenuto fino ad allora “insecabile”(l’atomo o la cellula), ma anche perché nell’uno e nell’altro caso non si tratta più di vere e proprie prove, dato che non c’è più l’insularità del campo di sperimentazione, e che il laboratorio diviene suscettibile di avere la stessa estensione del globo”.
Enciclopédie des nuisances
Recentemente in Italia, seppur ancora in contesti molto marginali, si è iniziato a discutere dei pericoli legati alle ricerche di ingegneria genetica e più in generale alle ricerche con agenti biologici, soprattutto dopo le recenti mobilitazioni a Pesaro contro l’apertura di un Istituto Zooprofilattico con classificazione di pericolosità biologica di livello 3.
Per forza di cose per comprendere quello che sta effettivamente avvenendo bisogna fare un passo indietro, anche abbastanza lungo, ma fondamentale per non sbagliare pensando che sia stato il clima di emergenza degli ultimi anni ad aver portato questi nuovi Biolaboratori, quando al contrario sono invece sempre i laboratori a creare le emergenze.
Intanto, per cominciare, le ricerche condotte in questi nuovi Biolaboratori non rappresentano certo una novità, sia per l’Italia, ma ancora di più per tanti altri paesi per il mondo.
Sono decenni che, segretamente, poi ufficialmente e poi di nuovo segretamente, vengono effettuate ricerche ed esperimenti senza sosta in questa direzione, ogni paese con le proprie caratteristiche e i propri diritti umani e animali da tenere in considerazione.
Senza girarci tanto intorno, queste ricerche “civili” sono sempre state collegate con applicazioni militari, anche se erroneamente negli anni sono state notevolmente trascurate sia dal movimento ecologista sia da quello pacifista, almeno finché le tragiche vicende della guerra tra Iran e Iraq non le hanno riportate tristemente alla ribalta, mettendo in evidenza la dualità della ricerca scientifica. Eppure certe produzioni chimiche e biotecnologiche rappresentano a tutti gli effetti delle armi di sterminio di massa che vanno a integrare gli arsenali atomici.
Storicamente abbiamo episodi precisi che tracciano un nuovo modo di fare la guerra, con una cura sempre più micidiale nello strumento di morte usato. Nonostante la conferenza dell’Aja del 1899 vietasse l’uso di gas tossici, il comando tedesco fece riversare sulle truppe francesi il 22 Aprile del 1915 ad Ypres 168 tonnellate di cloro. Questa grande nube di cloro che si produsse grazie al vento favorevole sorprese e soffocò 15 000 francesi, uccidendone 5000. A sovrintendere l’attacco dal punto di vista scientifico c’era Fritz Haber, un chimico al quale nel 1918 fu conferito il premio Nobel per il suo fondamentale lavoro sulla sintesi dell’ammoniaca da idrogeno e azoto. Chissà se questo scienziato, a cui se ne aggiungeranno tanti nel tempo, anche lui abbia avuto incubi distopici come più volte ha raccontato Jennifer Douden, premio Nobel per aver ideato il CRISPR/Cas9.
Questi episodi da sempre impregnano la logica più segreta della guerra portando questa ad una incessante e febbrile corsa alla ricerca verso l’offesa e verso la difesa. La corsa all’arma chimica, una volta iniziata, divenne difficilmente arrestabile. La ricerca in ambito militare si impegnò nella produzione di nuovi aggressivi chimici, di munizioni adatte alla loro diffusione e di mezzi adeguati di protezione, che come vedremo con le biotecnologie darà il via ad una spirale senza fine, puntando tutto sulla formula vaccino come antidoto universale.
Verso la fine del 1915 il fosgene salì di importanza come prodotto industriale e sostituì il cloro per la sua maggiore maneggevolezza e soprattutto per la sua forte tossicità. Venne immediatamente adoperato nei campi di battaglia con l’utilizzo di ben 150.000 tonnellate che andarono a riempire speciali munizionamenti, responsabili dell’80% di morti da arma chimica.
Anche l’Italia conosce un impiego significativo di aggressivi chimici, come quello effettuato dagli austriaci nel 1916, un anno dopo quello di Ypres, tra San Michele e San Martino del Carso, dove una densa nube di cloro e fosgene liberata da 3000 bombole da 50kg penetrò nelle trincee cogliendo buona parte delle truppe nel sonno. Questo disastro fu sicuramente un successo dal punto di vista scientifico e militare perché ben 8000 soldati furono neutralizzati e la metà di questi persero la vita.
Nel 1917 venne per la prima volta utilizzata dai tedeschi l’iprite o gas mostarda (solfuro di etile biclorurato) e l’iniziativa fu ben presto imitata da tutti gli altri belligeranti, che puntarono su ricerche sempre più micidiali di prodotti di morte, con risultati tra l’altro sempre effimeri, visto che ogni progresso raggiunto da una parte veniva presto superato dall’altra, spingendo gli scienziati a darsi da fare nei laboratori per trovare nuove formule sempre più tossiche e assassine.
A tutto questo, almeno formalmente, si cercò di porre rimedio nel 1925, con la Conferenza di Ginevra che bandì l’uso dei gas asfissianti. Il protocollo – da cui gli Stati Uniti successivamente si sfilarono – fu sottoscritto da 32 paesi, ma l’assunzione di questo impegno non impedì all’Italia prima della seconda guerra mondiale di usare il suo gas mostarda contro gli etiopici.
Ovviamente le formalità dei protocolli non hanno fermato le ricerche seppur apparentemente confinate tra le mura dei laboratori. Ben presto si è arrivati ai primi gas neurotossici, scoperti nel 1936 da un chimico della Farben Industrie in Germania, mentre lavorava su nuovi erbicidi. Successivamente quella che sembrava una scoperta occasionale portò ad uno sviluppo di nuovi agenti tossici, che vennero prodotti a livello industriale e presero i nomi tristemente noti di Tabun, Sarin e Soman – tutte sostanze letali e in grado di agire in pochissimi minuti. Nonostante la Germania nazista avesse prodotto fino al 1945 17.000 tonnellate solo di Tabun questo non venne utilizzato, probabilmente per timore della risposta avversaria che poteva essere uguale o ben peggiore, considerato che i laboratori nel mondo erano tutti in piena attività a creare antidoti e quindi a sua volta nuove armi.
Il vero slancio a queste ricerche è stato dato dopo la guerra, in particolare dall’allora Unione Sovietica e dalla Gran Bretagna. Ma nessuno si è tirato indietro e qualche anno dopo il secondo conflitto mondiale scienziati svedesi e americani potevano annunciare con giubilo ai propri rispettivi governi che grazie alla sintesi di nuovi straordinari prodotti, i gas V, una nuova era di pace si stava aprendo. Nel frattempo, il colosso farmaceutico Merck gestiva i suoi affari con i prodotti farmaceutici e al contempo il programma di armi biologiche del Pentagono. I ricercatori della Merck si vantavano di poter produrre agenti di guerra biologica senza grandi spese e senza bisogno di particolare logistica. Ma soprattutto veniva ricordato il grande vantaggio dato dalle armi biologiche: queste potevano essere prodotte sotto le sembianze di una legittima ricerca medica.
La maggior parte degli storici fa risalire l’avvento del moderno “programma di biosicurezza” con gli attacchi all’antrace nel 2001, realizzati tra l’altro da scienziati interni al sistema biotecnologico di punta della ricerca. Ma già anni prima alcuni pianificatori del complesso militare-industriale e medico stavano già contestualizzando la biosicurezza come potente strategia volta a sfruttare potenziali pandemie o atti di bioterrorismo per fomentare un’enorme crescita di finanziamenti, e come strumento per compiere la metamorfosi non solo dell’America, ma del mondo intero. Dopo quegli attacchi all’antrace, “vaccini” divenne improvvisamente un eufemismo per armi biologiche, nonché un’ancora di salvezza per un’industria delle armi biologiche in alto mare.
Da quel momento tutto l’apparato militare del Pentagono con tutti i suoi pianificatori – come il ben noto DARPA che in Italia finanziava gli esperimenti sulle zanzare OGM a Crisanti – cominciò a far confluire fiumi di denaro e a far pressione con le sue lobby verso gli esperimenti sul “guadagno di funzione”. La ricerca “a duplice uso” era ormai pienamente lanciata.
Nel tempo tutti i vari possibili “incidenti” non sono da considerarsi come eventi casuali, ma sono insiti nella logica perversa che sta dietro la ricerca scientifica, al profitto e a precise ideologie scientiste che sostengono questi processi qualsiasi siano le possibili conseguenze, quando queste vengono ipotizzate. Se si sovrappone una cartina geografica dove sono presenti i laboratori chimici e di biotecnologia con livelli sicurezza 3,4 (almeno quelli noti) con una cartina degli incidenti degli ultimi anni, si vedrà come la geografia della morte non menta e faccia coincidere i centri di ricerca con i territori colpiti.
In questi settori parlare di incidenti è puro eufemismo. Ad esempio, la base navale Namru3 di livello 3 trasferitasi nel 2020 dall’Egitto a Sigonella in Sicilia dopo oltre 80 anni di attività non si porta dietro bei ricordi, considerato le cause legali aperte dallo Stato Egiziano che accusa i militari americani di aver fatto esperimenti incontrollati e di aver utilizzato la popolazione come cavia. Significativo è quello che pensano di fare qui in Italia se proprio ad inaugurare la stagione dei Biolaboratori sia stato proprio un centro con una simile storia.
Se nella diffusione delle bombe atomiche, di cui sappiamo avere anche in Italia un bel campionario, si è giustamente insistito molto sulla mistificazione insita nella distinzione tra bombe e reattori nucleari per produrre energia elettrica, dal momento che sempre il processo di produzione da vita al plutonio, elemento esplosivo base per realizzare ordigni atomici. Lo stesso processo lo si può ritrovare nelle armi chimiche batteriologiche, come ci hanno ricordato in modo drammatico le vicende di Bophal, ma era già emerso anche in casa nostra con Seveso e Avenza. Nel giornale l’Unità del 20 Dicembre 1984 si esprimevano dubbi che il gas sprigionato dalla Union Carbide “non fosse di metile, ma il ben più pericoloso fosgene, probabilmente destinato ad uso militare”. E se Assochimica si era affrettata a dichiarare che in Italia non vi erano produzioni di Isocianato di metile, dimenticava non solo che nel Dicembre del 1984 vi era stata una perdita di fosgene dall’impianto della Montedison di Brindisi, ma anche che il fosgene veniva prodotto alla Montedison di Porto Marghera e che l’Isocianato di metile era regolarmente in circolazione commerciale. Questo evidenzia come la “guerra sporca” da molto tempo è in fase di lavorazione, potremmo dire anzi, per maggiore chiarezza, che è parte integrante dei processi di armamento militare, dove gli obiettivi sono sempre gli stessi: avere armi sempre più efficaci dai bassi costi economici e dagli alti costi in vite umane.
Restando ancora nella chimica industriale il comparto militare con i suoi aggressivi nervini ha sempre preso dai cicli di produzione dei pesticidi, ben di poco si differenziano e solo negli stadi finali delle reazioni chimiche, prestandosi a semplici e rapide riconversioni degli uni negli altri e rendendo assai dubbia qualsiasi forma di controllo.
Parallelamente agli studi sull’arma chimica presero avvio quelli sull’arma biologica, si potrebbe dire che i gas nervini sono figli dei pesticidi come la guerra batteriologica è figlia della biotecnologia.
L’idea di usare armi biologiche risale all’esperienza di infezioni e di epidemie che hanno rappresentato un serio problema militare nel corso delle passate guerre. Con lo sviluppo della microbiologia, l’acquisizione di nuove conoscenze sulla fisiologia batterica e virale e la possibilità di effettuare colture di microrganismi su vasta scala, l’idea di usare la malattia come arma è diventata possibile.
Già fin dal 1936 la Germania aveva intrapreso importanti ricerche in questa direzione, nel 1940 installò un centro di ricerca a Porton, il Canada fondò in quegli anni il suo centro a Suffield e tra il 1930 e il 1940 il Giappone aveva dedicato importantissimi indirizzi di ricerca e sperimentazione verso la guerra biologica. Nel 1942 gli Stati Uniti costituirono il Servizio per la ricerca sulla guerra biologica, aprendo l’anno successivo quello che sarebbe diventato il centro più tristemente famoso della biologia bellica, Fort Detrick. Un rapporto stilato durante la seconda guerra mondiale descrive la ricerca sulle armi biologiche degli Stati Uniti come superiore di quella dei nazisti.
Dopo la seconda guerra mondiale le grandi potenze USA e URSS diffusero informazioni circa i miglioramenti apportati alle armi chimiche e biologiche, ma la “trasparenza” durò poco, successivamente tornarono a nascondere le proprie ricerche. Questo avvenne soprattutto dopo che l’opinione pubblica cominciò ad interessarsi di queste questioni, in particolare riportando precise denunce da parte della Russia nei confronti degli Stati Uniti accusati quest’ultimi non solo di effettuare esperimenti di guerra biologica, ma avvalendosi dei migliori scienziati nazisti e giapponesi, ben presto ricollocati a servire altri criminali che evidentemente come i nazisti consideravano gli esperimenti effettuati su esseri umani nei lager come un’occasione irripetibile per trarre il maggior vantaggio ovviamente ai fini della scienza.
Nel 1955 una rivista di Tokio il “Bungei Shunju ” riportò la testimonianza oculare di atroci esperimenti fatti dai giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale, dove si calcola che morirono tra le 1500 e le 2000 persone trasformate in cavie, ma l’informazione più significativa fu che tutto quel personale scientifico e altamente preparato fu trasferito negli Stati Uniti. Tutto quel prezioso personale venne quindi riadattato per i laboratori del vincitore che non solo voleva fare altrettanto, ma farlo meglio. Quel prezioso sapere scientifico quindi non solo non andava disperso, ma andava salvaguardato e, come si è visto negli anni successivi, incrementato per preparare nuove e più ricombinanti armi biologiche.
Questi pezzi storici, dove evidentemente la vita umana valeva meno di zero se equiparata agli “interessi superiori” della scienza e oggi delle tecno scienze, sono utili per ricordare ai critici di oggi quando ancora una volta abbiamo visto calpestare la dignità e la vita stessa degli esseri umani con il Programma Covid che forse non era da augurare nuove Norimberga per i nuovi assassini in camice bianco e mimetica. Il potere è pronto a sacrificare qualcosa, ma soprattutto è pronto a salvaguardarsi e gli scienziati nazisti e non di ogni risma e credo hanno continuato a fare il loro lavoro indisturbati negli anni successivi non come cosa straordinaria e marginale, ma sempre nei settori di punta della ricerca in grado di cambiare il corso di una guerra. Quella stessa ricerca che oggi facendo tesoro di quella eredità ha potuto attuare tecnologie di ingegneria genetica su milioni di persone con un controllo zootecnico di massa.
Ben lontani dall’abbandonare l’utilizzo di armi biologiche anche durante la guerra di Corea, gli Stati Uniti vennero accusati di aver sganciato bombe batteriologiche nel territorio nord coreano, accuse poi confermate da ricerche specifiche effettuate sul campo. L’interesse per gli agenti biologici da parte degli Stati e soprattutto dei loro apparati militari ha molteplici spiegazioni, ma le ragioni vanno da ricercarsi soprattutto nella loro ampia possibilità di intervento e modalità di sviluppo. Tanti singoli agenti per uno spettro enorme di situazioni legate alla biologia umana, ma più in generale alla vita in generale. A seconda del microrganismo usato, alcuni vettori biologici possono interessare il sistema respiratorio, altri le mucose dell’occhio e del naso, altri ancora vengono assorbiti attraverso il cibo o qualsiasi sostanza contaminata. E non bisogna dimenticare che prima delle armi atomiche sganciate sul Giappone, la ricerca militare statunitense aveva valutato interventi massicci di armi batteriologiche per distruggere l’economia del paese.
L’impiego di microrganismi a scopo di arma biologica ha il vantaggio per i suoi produttori che questi hanno un’enorme facilità di riproduzione, rendendo semplice ed estremamente economica la realizzazione di una catena di infezioni partendo da un singolo individuo infetto. La diffusione del morbo sarà ancora più efficace se il contagio si diffonde per via aerea durante il periodo di incubazione della malattia, quando essa, non essendosi ancora presentata nella sua forma conclamata, non è né riconoscibile, né curabile. Alcuni batteri e virus inoltre presentano un’elevata resistenza nei confronti di condizioni ambientali avverse, soprattutto quelli che hanno la possibilità di formare spore che possono mantenersi infettive anche per alcuni anni.
Già negli anni ‘60 su riviste militari si poteva leggere come queste armi si prestassero a essere “modulate” opportunamente e intercambiate o miscelate tra loro per ottenere il massimo rendimento.
Il generale delle forze armate americane Rotschild, che a metà degli anni ‘50 fu incaricato di dirigere le ricerche inerenti al programma di guerra chimico biologica, scriveva in Tomorrow Weapons che le armi biologiche potevano essere un ottimo deterrente per la Cina che, avendo una situazione geografica particolare con correnti d’aria che la battono in tutte le direzioni, avrebbe dovuto sentirsi disincentivata dall’iniziare una guerra, considerando che ciascuna di queste correnti avrebbe potuto essere infettata da germi.
Al tempo veniva considerato come un grande problema per le armi biologiche l’aspetto meteorologico, per l’ovvia ragione di sbagliare il colpo o di vederselo restituire con i propri agenti biologici. Oggi, grazie alle manipolazioni del clima e alla possibilità che hanno i militari di intervenire sui processi atmosferici, questi problemi non sussistono più, anzi, potremmo dire che questi sono ancora più micidiali e invitanti per un uso sistematico e selettivo.
Tra i requisiti delle armi biologiche bisogna ricordare che la difesa da queste non è per niente agevole, proprio perché spesso è complessa l’identificazione dell’agente responsabile e quindi di un antidoto adeguato. Quando esplose la fabbrica chimica di Bhopal i morti furono tantissimi anche perché la multinazionale non dette indicazioni precise sulle effettive sostanze prodotte nell’impianto, rendendo le possibili cure meri tentativi frutto di ipotesi. Ancora una volta un “incidente” permetteva di vedere in vivo e su vasta scala, sui corpi della poverissima popolazione indiana, gli effetti della guerra chimica.
Le biotecnologie al servizio della guerra cambiano completamente la situazione e per guerra non è da intendersi solo quella scatenata da un paese ad un altro, ma anche quella che la tecno-scienza sferra quotidianamente sui corpi. Della frontiera di cui non si parla mai è quella tra il laboratorio e il resto del mondo: la ragione è molto semplice, non esiste più. Nella vasta estensione di un ambiente artificiale che ormai ci circonda è in corso una grande sperimentazione volta a estirpare ciò che rimane di imprevedibile e incontrollabile non con scosse violente e traumi, ma con continue manipolazioni, volte a stravolgere la natura e tutto ciò che può rappresentare spontaneità e autonomia.
Anche con la dichiarata pandemia da Sars-Cov 2 l’attesa è stata lunga prima di intervenire, ma poi si è intervenuto in modo sbagliato, sapendo di sbagliare, apparentemente senza un senso logico. La biotecnologia attuale permette di intervenire sulla vita nascondendo anche il proprio operato, la formula dell’artifizio tecnologico è in mano esclusivamente ai suoi creatori e sviluppatori che potrebbero essere stati così originali o spregiudicati per le tecniche utilizzate da aver realizzato una novità. Come spesso accade nella ricerca scientifica, un risultato arrivato per caso mentre si cercava altro. Successivamente vengono date formule, nomi e si prepara la catalogazione, ma non si lavora su qualcosa di concreto, si imbriglia qualcosa che non si conosce nelle varie ricombinazioni e conseguenze ultime, soprattutto se il campo di intervento è la moderna biotecnologia. Nonostante questo vediamo classificare laboratori BSL1, 2, 3, 4, ecc… dando all’esterno un’impressione di sicurezza, non tanto della struttura, ma dei suoi emissari in camice bianco: il messaggio è sempre lo stesso, che costoro sanno in ogni caso quel che fanno, sia nello scoprire qualcosa di nuovo andando a frugare fin nei processi più intimi della vita, sia nel rimediare a un disastro figlio della biotecnologia stessa.
La logica della preparazione della guerra biologica segue esattamente quella della cosiddetta guerra tradizionale, dove in campo viene messo un armamentario più “normale”, dove l’immaginario già tante volte si è posato e ha fantasticato. Se la ricerca militare è una continua innovazione tecnologica e strategica – per essere sempre più avanti verso nemici veri, immaginari o possibilmente futuri – sullo stesso piano viaggia quella ricerca militare interessata alla biologia degli organismi viventi che costantemente scandaglia l’innovazione degli sviluppi della biotecnologia per progredire. Così abbiamo da un lato più di mezzo mondo nel pieno di una dichiarata pandemia da Sars-Cov2 in cui si elogiano i vaccini come prodotti salvifici necessari per evitare una catastrofe sanitaria con numeri incalcolabili di morti, e dall’altro lato il Pentagono che definisce i vaccini come armi biologiche e di distruzione di massa. La spirale in questo senso non ha mai fine perché si lavorano nei laboratori con gli agenti più patogeni al mondo, non contenti della loro tossicità si producono ceppi ancora più virulenti, ufficialmente per proteggere gli stessi militari sul campo in teatri di guerra da minacce che vengono create costantemente e in continuo crescendo e aggiornamento. Così quello che resta alla fine è un intero sistema di armi biologiche, un organismo potenzialmente infetto, un siero genico contro di esso e il suo sistema di diffusione.
Le nuove tecnologie di ingegneria genetica contemplano una versatile forma di armamenti che possono essere usati per un’ampia varietà di scopi militari, dal terrorismo alle operazioni contro insurrezionali fino a guerre su larga scala per distruggere intere popolazioni.
Le buone intenzioni sbandierate dai governi nel tentativo di camuffare le possibilità dell’apparato farmacologico e biotecnologico fanno acqua da tutte le parti. A differenza delle tecnologie nucleari, l’ingegneria genetica può essere prodotta e sviluppata a buon mercato, richiedendo meno infrastrutture e abilità scientifiche e apre la possibilità a vasti impieghi, rendendo impossibile distinguo tra quello che può essere difesa o attacco. In tutto questo un ruolo fondamentale l’avranno quelli che sono chiamati vaccini, avendo forme di produzione molto vicine a quelle delle armi biologiche. Come abbiamo già visto con la chimica e i pesticidi, il passaggio è breve a fare altro da quanto dichiarato e possiamo essere certi che quell’ultimo tratto non solo è stato fatto, ma lo si vuole anche ufficializzare e normalizzare nell’indistinto della nuova neolingua e perdita di senso, facendo della tecnologia genetica una nuova arma del futuro da usare anche contro i popoli come abbiamo visto nella dichiarata pandemia.
Abbiamo intorno una pletora di gran scienziati, opinionisti, politici, ambientalisti, intellettuali di ogni sorta che si interrogano sul prossimo futuro, su dove potrà andare la scienza e se potrà mai superare delle soglie critiche. Lo stesso avveniva subito dopo la scissione dell’atomo che ci ha regalato le bombe atomiche. Adesso siamo in piena era biotecnologica, dove la legislazione europea ha autorizzato che gli esseri umani possono essere OGM con le terapie geniche prima di approvare gli OGM in agricoltura, rendendoci quindi di fatto una sottospecie sperimentale della zootecnia agricola.
Il lento ma inesorabile proliferare di nuovi biolaboratori (BSL3) anche in Italia ha sicuramente implicazioni molto diverse tra loro. Se da una parte è fuori di dubbio che questi centri si apprestano a fare da luoghi di stoccaggio e ricerca dopo la chiusura di tanti laboratori della stessa natura prima in Egitto con il Manru3 e adesso con quelli ucraini sotto la supervisione americana, quello che si vuole far passare è una nuova convivenza.
Gli ultimi anni hanno visto il nome di Wuhan associato al suo laboratorio (BSL4), sede di misteriosi e sicuramente pericolosi esperimenti, con informazioni concesse neanche troppo velatamente dai media occidentali. La vetrinizzazione della scienza ha portato a una ricerca biotecnologica che non è stata per niente sommersa o marginalizzata – pensando alle ricombinazioni pandemiche e ai nuovi sieri a mRNA che facevano notizia tra entusiasmi e pentimenti come quello di Robert Malone – e si è presentato il nuovo paradigma che parte proprio dalla biotecnologia, dal CRISPR/Cas9 e dalle tecnologie mRNA. Il messaggio è molto chiaro o forse è talmente chiaro che non è compreso dai più: queste saranno le nuove basi di partenza legate alle cosiddette Scienze della vita. Non è un caso che in Italia nei laboratori di Trieste e in quello che si vuole costruire a Pesaro si parla espressamente di ricerca sulle biotecnologie e sui vaccini. Questi centri puntano su una ricerca d’emergenza, diventata ovviamente la normalità, perché quello che si crea e che si mette a punto per una guerra non torna mai indietro, soprattutto quando nel suo cammino questa ricerca va a toccare nel profondo gli organismi viventi. Nella sua propaganda divulgativa la scienza continua ancora a parlare di ricerca sul cancro, malattie rare, malattie genetiche, ma tutto è sempre subordinato al nuovo paradigma che parte dalla biotecnologia e si applicherà con presunte terapie vaccinali che ormai sappiamo bene non hanno niente a che fare con quelle stesse malattie. Parlare di vaccino rimanda a qualcosa che previene, che immunizza da qualche malattia, magari grave e mortale anche se ormai ci siamo abituati pure a quella farsa del vaccino influenzale pensato per gli anziani, fascia di persone che sappiamo stare molto a cuore ai neo malthusiani.
Quello che si vuole far passare e far introiettare prima nel linguaggio comune, e poi come senso generale, è un nuovo modo di affrontare qualsiasi questione legata alla salute. Un nuovo ed unico paradigma darà la traccia al modo con cui si sta a questo mondo, ovviamente anche in sintonia con la nuova era verde e ambientalista. Una costante opera preventiva di ricerca che deve andare oltre a quelle che possono essere le minacce presenti, perché il nuovo paradigma guarda in avanti, con il particolare non da poco di stravolgere però il presente. Così la biotecnologia con le ricerche di guadagno di funzione aggrava agenti poco patogeni e banali virus rendendoli terribili e catastrofici; la geoingegneria si prepara all’emergenza climatica intervenendo sul clima per modificarlo; la biologia sintetica si appresta alle minacce ambientali e alla scarsità di cibo sviluppando alimenti artificiali sostenibili nei confronti degli altri animali tanto da far cantare la prossima liberazione animale agli animalisti. Questo è ovviamente solo l’inizio di quello che si prospetta all’orizzonte nel breve tratto. Faremo l’abitudine ai biolaboratori e si vuole che siano guardati con timore, ma allo stesso tempo con spirito di riconoscimento, perché l’emergenza è sempre dietro l’angolo. La particolarità delle ricerche ivi condotte è che queste non sono neutrali, ma sono pienamente in assetto con la grande Trasformazione, pensare che ci sia o ci possa essere un possibile argine o appiglio al loro procedere è semplicemente ridicolo o tragico. La ricerca è già tutta in quella direzione, il resto poco per volta viene marginalizzato fino a farlo sparire del tutto. Il modo è molto semplice, i grandi capitali messi a disposizione dagli organismi internazionali, dalla finanza e dai grandi filantropi sono disponibili unicamente per determinate direzioni e sappiamo che i tecno-scienziati sono avidi di finanziamenti, possibilità di pubblicare e magari potere decisionale e politico nelle varie accademie e istituzioni.
Quello che ci resta da fare è non far realizzare questi centri dove vengono proposti, ma questo non è assolutamente sufficiente, è necessario comprendere che la logica che vuole normalizzare quei particolari centri è la stessa che da tempo ci ha costretto ad un’esistenza in un biolaboratorio. Questa consapevolezza potrà farci comprendere il programma in corso e da questo trarne le giuste considerazioni su come organizzarsi e intervenire. Perché è ormai evidente che pestilenze, carestie e diffusione di nuove forme di malattie in tutto il mondo prima sconosciute potrebbero trasformarsi nell’atto finale del copione preparato dai vari potentati transnazionali e dei loro accoliti per questo secolo della biotecnologia.
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