Attraversando il continente nero. Letture di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Tra il novembre 2024 e il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una serie notevole di letture di testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire una finestra su un enorme e storico dibattito legato alle trasformazioni del ciclo di lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte che oggi potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione nell’era multipolare che si sta aprendo. Ciò a patto di comprendere gli errori, le compromissioni e le dimenticanze che si sono date.
Apre la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente, come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di Cedric Robinson[6]. Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams, Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali, influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali) che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica (circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’ (in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve).
Una dialettica (in termini del lessico marxiano, tra “critica critica”[8] e “pensiero della prassi”[9]), che si radica in una “falsa coscienza necessaria”[10] strettamente connessa con i meccanismi di riproduzione sociali e del potere nell’accademia e nella società, in particolare anglosassone. Abbiamo quindi sia una condizione materiale, che influenza la piega del pensiero e dell’azione, come un paradosso politico. Nelle condizioni materiali delle università occidentali di alto e altissimo rango (Harvard, Columbia, NYU, Yale, etc.) molti teorici postcoloniali scrivono per un pubblico già convertito, e di nicchia, usando per necessità un linguaggio specializzato che esclude di fatto i subalterni di cui parlano; per paradosso, dunque, la loro critica al potere resta funzionale al sistema che denunciano, anche perché di fatto legittima l’Occidente come spazio di “libera discussione”[11].
Se si può anche concedere, tutti noi ci siamo passati, che nel contesto della mondializzazione ascendente e nella fase della “fine della storia” e dell’unipolarismo trionfante, il postmoderno apparisse come unico e residuale, al contempo più profondo, spazio di resistenza almeno culturale (esemplare, come vedremo, la posizione di Stuart Hall), oggi la storia si è rimessa in moto. Allora si era in un contesto nel quale i riflussi erano nel pieno della loro forza, entro e fuori le società occidentali, e le ripetute sconfitte dei movimenti del terzo mondo, seguiti al crollo sovietico ed alla conversione cinese determinavano il tono appropriato. Oggi, invece, nel contesto del tramonto dell’Occidente, e della sfida multipolare ascendente, si riapre lo spazio per una critica che conservi il rigore e la radicalità culturale, ma guardi all’azione. La sfida torna quella indicata dall’ultimo Said: leggere il mondo per trasformarlo, sapendo che il potere imperiale è anche fuori dei testi e ruggisce nel mondo.
Quel che oggi serve è, in altre parole, un “pensiero nell'azione” che è quello che si forma e si sviluppa all'interno dei movimenti sociali e politici. Un pensiero che nasca con l'obiettivo esplicito di mobilitare, connettere e suscitare nuovi soggetti e nuove forme sociali. Questo approccio, che valorizza la concretezza degli effetti e si concepisce come una vera e propria arma per il cambiamento, si deve contrapporre alla mera analisi discorsiva, radicandosi invece nella vita e nelle esperienze. Bisogna, con una sola mossa, rifiutare quindi sia l’eurocentrismo sia le derive essenzialiste o estetizzanti. Questa divergenza abita talvolta i medesimi soggetti, e per certo il loro campo discorsivo. Ma attiene nella sua essenza alla posizione di enunciazione, alle condizioni materiali della formazione teorica, attiene a chi parla, soprattutto per chi e per cosa, e da dove.
Panafricanismo e oltre
La linea di faglia che attraversa questi scritti è quindi sintetizzabile come opposizione tra due progetti: il “panafricanismo”, da una parte, e la critica culturale allo sviluppo ed all’Occidentalismo in esso implicato, dall’altro. Il “Panafricanismo” è un ben specifico progetto geopolitico, che si ancora alla intuizione dei W.E.B. Du Bois degli Stati Uniti d’Africa. Durante gli anni Sessanta, nel contesto della decolonizzazione, viene portato avanti ad esempio da Kwame Nkrumah, presidente del Ghana, incontrando la gelosia e gli scontri tra il Gruppo di Casablanca e quello di alcuni leader gelosi delle speciali relazioni con i paesi ex colonizzatori. Nel 1963 il movimento ripiega sulla Organizzazione della Unità Africana (OAU), fondata ad Adis Abeba da 31 paesi africani. Dal 2002 l’organizzazione viene sostituita dalla Unione Africana. Fino alla morte del presidente del Burkina Faso Thomas Sankara[12], l’organizzazione si impegna nella prospettiva panafricanista e la lotta, quindi alle forme di dominazione anche monetarie (al Franco CFA[13]). Seguiranno i tentativi della Guinea di Ahmed Sékou Touré, il Mali di Modibo Keita, il Togo di Sylvanus Olympio, tutti deposti o uccisi. Finì per unire nel comune destino continentale, anche movimenti regionali, come quelli di Nasser (Gamāl ʿAbd al-Nāṣir Ḥusayn[14]), Ben Bella[15] e Gheddafi[16]. Durante questo processo di aggregazione nel comune progetto di liberazione e indipendenza dal dominio Occidentale, panafricanismo e socialismo svilupparono una certa tendenza a fondersi. Il movimento aveva, quindi, un orientamento tendente a forme africane di socialismo anticoloniale e venne preso nella polarità tra il “movimento dei paesi non allineati” e la fedeltà sovietica ed al marxismo. Nasser, ad esempio, fu sempre ostile al marxismo ed ebbe quali principali oppositori, da una parte, la sinistra comunista, dall’altro il fondamentalismo religioso rappresentato dai Fratelli Mussulmani[17].
La reazione a questo progetto interna al movimento anticoloniale passa per la denuncia del socialismo stesso come “eurocentrico”, mentre, quella esterna, passa dall’eliminazione dei movimenti stessi e dei loro leader da parte delle potenze europee e degli Stati Uniti. Si passò dall’omicidio di Lumumba a quello di Cabral, a strategie di potenziamento dell’indipendenza economica, tramite l’indebitamento e istituzioni come il Franco CFA, o tramite la fomentazione di lotte interne.
Said Boumama, contro l’essenzialismo
Said Boumama, nato nel 1958, appartiene al primo polo della divaricazione. Autore di alcuni libri in francese sul panafricanesimo rivoluzionario e marxista[18], l’autore francese di origine magrebina spende una prima parte della sua opera per contrastare le retoriche di copertura delle guerre coloniali. Tra queste spicca quella per la quale l’Africa (insieme, di volta in volta, all’India, la Cina, il Sud e Centro America) sarebbe un “continente senza storia”, caratterizzato in particolare dall’essere solo l’area geografica di insediamento di società “primitive”, non strutturate politicamente e senza stato, ancora allo stadio dei clan familiari e delle tribù. Una visione che, come noterà Formenti, è stata rispecchiata per reazione in una linea di critica vernacolare e comunitaria, essenzialista, la quale reagisce ai fallimenti e le distorsioni dei tentativi di costruzione nazionale post-indipendenza, tuttavia in sostanza prestandosi ad indebolirli e disarmarli. Questa tesi è contrastata vigorosamente da Boumama il quale ha facile gioco a ricordare come nell’immenso continente Africano (trenta milioni di chilometri quadrati, tre volte l’Europa, e inferiore solo all’Asia, che ne misura quarantaquattro, e alle Americhe, che ne misurano quarantadue) sono stati presenti grandi realtà statuali e anche imperi, sia in Africa Settentrionale (basti ricordare l’Egitto) come in quella Subsahariana[19]. Casomai si dovrebbe parlare quindi di interruzione violenta della storia. Né si può contrabbandare la colonizzazione francese dei popoli berberi come “liberazione” dagli arabi, o, paradossalmente e crudelmente, dallo schiavismo endemico centroafricano. Esiste una cruciale differenza tra le forme di sfruttamento, anche comunitarie e articolate, e di tratta, precapitaliste e autoctone e quella che la sete di manodopera servile delle colonie d’oltremare ‘aspira’ per circa due secoli dal continente: l’illimitatezza della pulsione all’arricchimento personale, e l’agency del capitale stesso, votato al suo autoaccrescimento. Questo spirito pervade le élite locali e le corrompe, contribuendo alla destrutturazione dall’interno delle società locali, anche molto ricche e strutturate.
L’universalismo ‘occidentale’ nasconde tali effetti corrosivi tramite due linee retoriche: da una parte afferma che non ci sono ‘civilizzazioni’ oltre a quella europea; dall’altra pretende l’autosufficienza di questa. Criticando entrambe, che assimila a linee di sottomissione, Boumama si sforza di porre in evidenza come il mito di società precoloniali armoniose, integrate nella natura e senza conflitti interni di classe, non sono altro che una delle forme dell’assorbimento inconsapevole della narrazione coloniale. Assorbimento tradotto in un “essenzialismo”, di cui fu campione Leopold Senghor, e spesso tradotto nella formula di “negritudine”. Con esso si finisce per vedere il nero come “uomo della natura”, in comunione con terra e cosmo. I neri sarebbero per propria natura caratterizzati da un modello di razionalità “intuitivo-partecipativo” (e non logico-discorsivo) e non antagonistico. Questa reazione identitaria, anche utile in una primissima fase per sollecitare una sorta di orgoglio comune, si presta tuttavia a frammentare e isolare le rivendicazioni, (divise in “negritudine”, “arabitudine” e “berberitunine”) le une contro le altre.
Dunque, per Boumama, questo identitarismo essenzialista deve essere contrastato sulla base della riaffermazione del progetto “panafricano” che si riconosce e fonda nell’esperienza opposta dello sradicamento e nella comune esperienza della dominazione razzistica e coloniale. In definitiva la proposta di Boumama è di rilanciare un panafricanismo politico ed economico, volto alla valorizzazione della lezione di Samir Amin[20], per economie più interconnesse internamente all’Africa e più autonome, con istituzioni anche statuali forti, le quali si ancorino in élite capaci di federarsi e creare stati plurinazionali unitari, sulla base del modello bolivariano. La questione posta da Samir Amin, nel suo testo del 1973, Lo sviluppo ineguale[21], individua i tipi ideali di cinque “modi di produzione” che si intrecciano e in parte sovrappongono o sostituiscono nella storia africana, cinque: la forma comunitaria primitiva[22]; la forma tributaria[23]; il modo schiavistico di produzione[24]; il modo mercantile semplice[25]; il modo di produzione capitalista[26]. La maggior parte delle società precapitaliste sono delle formazioni “tributarie” in cui persistono ambiti “comunitari” e “mercantili”. Il punto è sempre di comprendere quale forma è dominante e quindi di che surplus vive la società. In particolare, se il surplus che rende possibile la forma sociale sia proprio o trasferito. Quindi, prima della piena affermazione del capitalismo si può dire sia un surplus generato in proprio nelle società “tributarie” ricche, ovvero fondate su un’economia interna ricca (come l’Egitto, la Cina), è invece trasferito nelle società fondamentalmente “commerciali” (come il mondo arabo o in parte greco) o “schiaviste” (come il mondo romano). La questione diviene capire quale forma di alienazione rende possibile il prelievo del surplus senza fare esclusivo riferimento alla violenza, dato che nessuna società può essere ridotta alla sua infrastruttura. Nella forma di società capitalista, fondata sulla produzione industriale e gli scambi a lunga catena di dipendenze, la razionalità è, per Amin, limitata “dal rapporto sociale fondamentale che definisce il saggio del plusvalore, cioè il saggio dello sfruttamento del lavoro; per un altro verso, dai rapporti sociali secondari che definiscono le relazioni fra la borghesia e i proprietari fondiari che controllano l’accesso a talune ricchezze naturali”[27]. In conseguenza, la risultante del calcolo economico è “irrazionale dal punto di vista sociale”, in quanto resiste alla necessità che il livello di sviluppo delle forze produttive (enormemente elevato) sia posto a servizio dell’intera società. Ne consegue, e qui trova senso la “sostituzione delle importazioni” (che è un altro modo di dire “delinking”), che un diverso calcolo economico deve prendere a orizzonte il tempo lungo, deve ricercare sistematicamente le soluzioni che riducono al minimo il tempo di lavoro socialmente necessario ed essere orientato alla produzione utile per i bisogni della società. Il fine del sistema non deve essere più la massimizzazione del plusvalore, ma del prodotto effettivamente utile e tale da conservare le risorse sociali e naturali[28]. Per Amin la teoria della specializzazione internazionale (la teoria dello sviluppo) nasconde semplicemente il fatto che l’interesse superiore di un paese è sviluppare centri produttivi che possano innescare una crescita autosostenuta e sfuggire allo “sviluppo ineguale”[29]. E questa dipende essenzialmente dalla crescita dei redditi reali per una quota maggioritaria della popolazione, in conseguenza dall’espansione della domanda interna.
Nel secondo libro[30] Boumama si occupa della Francia, con riferimento all’esperienza migratoria, sottolineando la funzione stabilizzatrice dell’importazione di forza lavoro debole funzionale alla riproduzione capitalista. In esso viene ricostruita una storia delle diverse ondate migratorie, sia interne (tra le regioni depresse e quelle dinamiche, ad esempio quella dei bretoni) sia esterne (europee in un primo momento, quindi africane). In questo contesto il razzismo assume una veste funzionale specifica. È, in effetti, una modalità essenziale di classificazione sociale, che si nutre della tesi per la quale le eredità culturali sono reciprocamente intraducibili, per cui nelle Banlieu, ad esempio, francesi di seconda e terza generazione continuano ad essere osservati e considerati in fondo stranieri. È la “linea del colore” che attraversa la società francese. In base a questa tesi influente la società, prima di disgregarsi, potrebbe accettare solo una piccola parte di immigrazione culturalmente diversa.
Okoth, lottare per l’internazionalismo nero
Nel secondo post[31] Formenti illustra la figura di Kevin Ochieng Okoth che aggiunge a questa prospettiva, in un libro di prossima pubblicazione per Meltemi[32], il rafforzamento del rifiuto a rigettare integralmente il marxismo solo perché “Eurocentrico” (una frettolosa liquidazione molto comune nel contesto dei “cultural studies” postcoloniali[33]) e un inquadramento delle lotte nel continente come fattore determinante per l’affermazione di uno spirito ‘panafricanista’. Il focus dell’autore è l’internazionalismo nero che, una cinquantina di anni fa, a partire dal lascito delle mobilitazioni degli anni Sessanta e quindi Settanta, determinò una stagione di grandi speranze sulle due sponde dell’atlantico. Ciò che si chiede Okoth è se questa stagione, e quel che ha seguito (si pensi, da ultimo, al movimento Black Live Matter, “Le vite nere sono importanti”), sia specifica della “blackness”, o possa dialogare con le altre lotte anticoloniali e antimperialiste, reciprocamente traducibili; in secondo luogo, se la teoria marxista resti in grado di interpretare l’insieme delle rivendicazioni (economiche, razziali e coloniali, di genere) o sia inficiata da una “whitness” (come dice Robinson) che alla fine la inficia; in terzo luogo, se i residui comunitari rivendicati, da parte del movimento dei “cultural studies” in Africa, siano da considerare regressivi o possano essere ritenuti portatori di un potenziale anticapitalistico utile e mobilitabile; in quarto, se la nascita di stati-nazione in Africa sia da considerare a sua volta una parte del retaggio eurocentrico e coloniale, e quindi un “dono avvelenato” dei dominatori – come sosteneva Toni Negri[34] – oppure sia una tappa ineludibile sulla via dell’indipendenza.
Si tratta di domande cruciali e centrali. Okoth ricorda il cruciale periodo che intercorre tra il secondo decennio del dopoguerra, al termine della Guerra di Corea, nella quale gli Stati Uniti sono arrestati dalla lotta congiunta del popolo coreano del Nord e cinese, e la Conferenza di Bandung[35] del 1955 e la crisi petrolifera, avvio della ristrutturazione capitalista degli anni Settanta e della crisi sovietica. Un periodo nel quale prende corpo il tentativo dei molti movimenti anticoloniali e nazionalisti di mettere in campo un “Movimento dei paesi non allineati”[36] che si fondasse sulla solidarietà anticoloniale, anziché su inesistenti affinità razziali e culturali. Ovvero, su una lotta politica e non essenzialista (né in senso razziale, né culturale o ideologica). Si oppose allora a questo progetto una sorta di doppio movimento: l’arretramento combattendo del vecchio colonialismo europeo e l’avanzata di una forma di dominio indiretto e mediato dalle grandi aziende multinazionali del nuovo neo-colonialismo statunitense. Un neo-colonialismo fatto di basi, dinastie compiacenti, classi ‘compradore’ premiate dai flussi estrattivi, esportazione della ‘cosmotecnica’ occidentale. Nel laboratorio di questo ventennio troviamo quindi contaminazioni positive, come Malcom X[37] che viaggia per l’Africa attraversata dai fermenti di liberazione e riporta un nuovo spirito nelle lotte antirazziste che lo vedono impegnato in patria (azione che gli costerà, di lì a poco, la vita). Oppure come il Black Campus Movement[38] del decennio 1965-75 in cui un originale miscuglio di marxismo, nazionalismo e panafricanismo preoccupa l’establishment statunitense. Ancora, i Black Studies[39], che negli anni Ottanta si sforzano di formare intellettuali organici a questo clima di lotta.
Malgrado questi fermenti le due reazioni che Okoth descrive, sul transito tra gli anni Settanta e Ottanta, sono svolte sul piano della sistematica neutralizzazione della leadership militante (in parte incarcerata, in parte uccisa dentro e fuori le carceri), in parte marginalizzando gli intellettuali più radicali e sostituendoli con moderati. Le coordinate culturali di questa restaurazione sono, per Okoth, gli Studi decoloniali e un clima pessimistico che chiama “Afropessimismo 2.0”. Frank Widerson e Jared Sexton, che ne sono gli alfieri, mettendo in campo una tesi apparentemente radicalissima, ma come quella di Michel Foucault con implicazioni disattivanti: la soggezione dei neri non è dovuta a meccanismi economici o politici, bensì ad una necessità intrinseca ed ineliminabile della modernità stessa. Una ‘necessità ontologica’.
Studi decoloniali, lottare per il linguaggio
Invece gli Studi decoloniali sono espressione del coevo clima postmoderno, non per caso emersi negli anni Novanta e nei Dipartimenti di Letteratura, sulla base di una critica per radicalizzazione ai Black Studies e agli Studi Post-Coloniali, giudicati ancora troppo eurocentrici; per essi, la lotta deve andare più in profondità e radicarsi nel linguaggio e nella cultura, anziché nel politico e nell’economia. Ciò da cui bisogna sconnettersi non sono tanto le banche o le imprese occidentali, quanto il suo episteme occidentale (a partire dalla nozione di “sviluppo”. Walter Mignolo, un intellettuale argentino che insegna, come in pratica tutti (e non per caso[40]) nelle università statunitensi, parte dal presupposto, dominante negli anni del riflusso, che il movimento anticoloniale ha fallito, in parte in quanto riassorbito ed in parte tradottosi in governi nazionalisti e corrotti. Quello da cui bisogna liberarsi non è dunque il controllo dell’economico occidentale, creando proprie traiettorie di “decollo”, quanto la concettualità della “cosmotecnica” occidentale, e dunque, tra l’altro dalla stessa nozione di economia e di sviluppo. Gli esponenti di queste scuole, che, come detto, proliferano in particolare nei dipartimenti di letteratura tendono a liquidare il marxismo ed ogni forma di statualità (accusata di ‘statalismo’). Per essi la colonia è costruita essenzialmente nel linguaggio e nell’immaginario (come sostengono Said[41], Bhabha[42] e Spivak[43]), occorre dunque rifiutare dell’occidente il suo episteme e recuperare i saperi degli “Altri” (Mignolo e Quijano), valorizzare le ibridazioni diasporiche (Stuart Hall[44], Achille Mbembe[45] e Mudimbe). Le accuse a questa influente ed interessante (piena di intuizioni importanti) corrente, è di astrazione ed accademismo, negare il marxismo, anarchismo e disancoramento dalle lotte. Secondo una immagine nota, rischiano di “gettare il bambino con l’acqua sporca”.
Contro la “negritudine”
L’effetto, per Formenti e per Okoth, di questa egemonia, che vede il marxismo come irrimediabilmente eurocentrico e con esso tutte le teorie critiche dell’Occidente collettivo (ed arriva a rigettare in toto anche momenti di autocoscienza come quello rappresentato da Bartolomeo de Las Casas, chiedendogli di pensarsi fuori del suo tempo) contribuisce, nel suo funzionamento materiale e al di là delle lodevoli intenzioni, a rafforzare l’egemonia delle neoborghesie postcoloniali.
In Africa viene particolarmente sottolineata la posizione di Senghor e della sua “negritudine”, che sulla base delle intuizioni di Aimée Césaire ed altri, di fatto ha rappresento una via di fuga dal socialismo e dal marxismo verso non ben chiare specificità “africane” ed un comunitarismo presunto e radicalmente Altro. D’altra parte, si è trattato di una linea di conflitto interna anche al campo socialista: leader come Kenyatta, Touré e Nyerere si sforzarono di “africanizzare” il socialismo, non per caso sincronicamente alla perdita di influenza sovietica, e finirono per respingere in toto il marxismo come ideologia contaminata dall’eurocentrismo.
Okoth ha una tesi drastica su questo movimento, come rileva Formenti, “liquida questo approccio accusandolo senza mezzi termini di essere una mascheratura ideologica delle borghesie nazionali per giustificare la propria resa agli interessi imperialisti occidentali, come dimostra il fatto che tutti questi regimi hanno represso le opposizioni di sinistra”[46]. Al contrario, i movimenti delle ex colonie portoghesi, Guinea Bissau, Capoverde e Mozambico, che chiama “Red Africa”, influenzate dalla loro composizione di classe e dal “Movimento dei Garofani” che nel 1974 rovesciò il fascista Salazar in patria, conservarono una lettura marxista e sulla spinta di leader come Amìlcar Cabral cercarono di sperimentare forme di democrazia diretta e partecipativa avanzate.
In definitiva Formenti estrae dalla critica di Okoth al nesso tra transizione socialista e culture tradizionali il difficile quesito se il valore universale di un’esperienza rivoluzionaria si possa misurare “in relazione alla sua approssimazione a un qualche dogma teorico”, anziché per i suoi risultati. Ovvero se sia possibile individuare “un criterio universale di giudizio che non sia il prodotto ‘locale’ della razionalità occidentale”. Sulla questione dello stato-nazione, una delle cartine di tornasole di questa domanda, Okoth, ad esempio, da una parte critica l’esaltazione neo-anarchica dei “maroons” e delle loro comunità autosufficienti e autogestite (tutte troppo deboli per resistere alle offensive coloniali e statuali, e quindi distrutte, prima o poi) valorizzate da Robinson, dall’altra non sembra allontanarsi dalla posizione negriana sul punto[47], arrivando al punto di esaltare Andrée Blouin[48], una femminista nera che sostiene che, se avessero comandato le donne, la rivoluzione anticoloniale avrebbe avuto tutt’altro esito. Come sostenevo altrove[49], riemerge quella tendenza al messianismo, ovvero ad una sorta di trasfigurazione secolarizzata della pressione per il riscatto completo ed immediato, quindi per la purezza. Come scrivevo:
“Quello che il messianismo, spinta naturale e perfettamente comprensibile in chi dalla vita ha avuto sempre e solo sconfitte, promette è, niente di meno, che il nuovo mondo non assomiglierà in nulla a quello passato. In esso si avrà un ‘totalmente altro’. Alcuni esempi propri della tradizione comunista sono rappresentati dall’eterno ritorno del mito della dissoluzione dello Stato. Quello Stato di cui i ceti popolari vedono normalmente solo la faccia matrigna e del quale quindi non comprendono il funzionamento complesso. Chi ha spesso subìto tende spontaneamente a essere antiautoritario (senza fare distinzione tra autorità, autorevolezza, oppressione e potere), ma in questo modo, se ha successo, spinge senza volere verso un rovesciamento. Dopo aver vinto rende impossibile qualsiasi decisione secondo regole generali, fondata sul consenso e le ragioni appropriate, quindi sul controllo democratico, e, con ciò, finisce di fatto con il favorire l’esercizio del potere arbitrario di una stretta minoranza. Quello che si identifica come ‘anti-autoritarismo’ si rovescia quindi spesso nel ‘comunismo di caserma’. Questa attesa del ‘totalmente altro’, ovvero di ciò che, per dirla con Benjamin, fa saltare il continuum della storia, torna sempre a galla”[50].
Antonio Negri, e la corrente post-operaista che rappresenta, ma anche buona parte della Nuova Sinistra Radicale nella prima fase, quindi, quando le rivolte anticoloniali stanno prendendo il potere, ma sono nella fase eroica (anni Cinquanta e primi Sessanta), appoggiavano romanticamente ogni lotta. Ma quando il potere è preso e va gestito, allora il marxismo diventa “eurocentrico”, lo “sviluppo” pure, e la “tecnica” coincide con l’Europa, come la “modernità”. Allora si passa a dire che “dall’India all’Algeria, da Cuba al Vietnam, lo Stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale”[51]. Evidenziando unilateralmente questo rischio e dilemma reale[52], gli autori concludono che: “il nazionalismo delle lotte anticoloniali e antimperialiste funziona effettivamente al contrario e i paesi liberatesi dal dominio coloniale si ritrovano infine sottomessi all’ordine economico mondiale”. Dunque, per Negri il concetto di sovranità è ambiguo, “se non completamente contraddittorio” (in ciò si manifesta il passaggio dal dominio diretto, coloniale, all’impero che è oggetto del testo).
Come proseguivo:
“Il paragrafo che ha titolo ‘Il regalo avvelenato della liberazione nazionale’, contenuto in Impero, è da questo punto di vista esemplare: parte dal riconoscimento che la sovranità nazionale, nel contesto delle lotte di liberazione coloniale, ha significato libertà dal dominio straniero e autodeterminazione dei popoli. Ma, ottenuta la sconfitta del colonialismo, denuncia la circostanza per cui ‘la funzione progressista della sovranità nazionale è sempre stata accompagnata da potenti strutture di dominio interno’. Da qui, trascurando di prendere in carico la funzione di questo ‘dominio’ verso le forze interne Negri e Hardt proseguono concludendo che, quindi, lo sforzo dei leader post-coloniali, da Gandhi a Ho Chi Minh, di modernizzare il Paese sia solo un ‘trucco perverso’.”[53].
Questa influente posizione è del tutto sincrona con l’emergere del clima ‘decoloniale’ e lo accompagna con i successivi libri della “trilogia”, ovvero Comune. Oltre il pubblico e il privato[54], del 2009, e Assemblea[55], del 2017.
Cabral, la rivoluzione
Infine, per terminare il primo ciclo delle letture di Formenti, troviamo Amílcar Cabral, nato in Nuova Guinea nel 1924 e assassinato nel 1973, subito prima del trionfo della rivoluzione anticoloniale per la quale si era speso. Cabral riteneva che il percorso della rivoluzione che promuoveva contro il Portogallo di Salazar dovesse trovare il proprio percorso intorno alle caratteristiche specifiche della situazione man mano che queste si definivano nell’azione. E in fondo sulla base di pochi principi: liberarsi del dominio straniero, trovare la strada per uno sviluppo economico e sociale, ma senza perdere il controllo popolare su di questo. In particolare, l’azione insurrezionale fu sempre strettamente connessa con le condizioni sociali del Portogallo (una nazione povera dalla quale partivano molti coloni, anche al fine di riduzione delle tensioni interne) e dei diversi ambienti sociali locali. Le città, definite da una segmentazione sociale a strati, la quale assicurava il controllo dall’alto al basso, ma perdeva spesso la fedeltà della piccola borghesia indigena (tra la quale Cabral stesso) che in molti casi si è piuttosto connessa agli strati popolari. Questo è stato il carburante e, allo stesso tempo, il nucleo organizzativo della mobilitazione. Nel resto del paese insistevano larghe masse di contadini, i quali non avevano, tuttavia, tradizioni di rivolte contro il potere urbano (le campagne non assediavano le città), e restavano divise in numerosi gruppi etnici e religiosi: i Balantes, tribali e comunitari, i Fula, mussulmani e gerarchicamente strutturati, con una sorta di nobiltà e vincoli di corveè per i contadini. I primi furono mobilitabili, i secondi molto meno. L’aggregazione necessaria per raggiungere la massa necessaria a condurre la lotta fu raggiunta dall’azione insistita di un partito (il PAIGC) che si ispirò all’esempio cubano, sforzandosi in una prima fase di attivare i settori patriottici della piccola borghesia urbana, per poi arrivare solo in seguito alle masse contadine. L’azione di Cabral valorizzò la cultura nazionale, pur nella sua eterogeneità, come fattore decisivo di resistenza alla dominazione coloniale. Ciò può avere portato ad una certa assonanza con i teorici della “negritudine” e della “blackness”, ma in realtà l’agronomo guineiano era perfettamente cosciente del rischio di un’esaltazione acritica della realtà sociale e delle tradizioni precoloniali (per lo più “inventate”) di una tendenza comunitaria, egualitaria e connessa armonicamente con la natura. “Return to the source” e “ri-africanizzare” sono slogan cabraliani, ma intendono la ripresa di una traiettoria entro le mutate condizioni, non il ritorno impossibile ad una purezza mitica. Tuttavia la cultura locale, se pure sistematicamente colpita dalla dominazione coloniale, ha innescato entro di sé i movimenti di resistenza e conservato una qualche continuità. Continuità sulla quale fare leva per attivare le energie popolari e alimentare la guerriglia, che si è mossa dall’occupazione del territorio interno verso l’esterno. Dalle zone occupate fu quindi costruito il nuovo stato liberato, e le sue istituzioni, man mano che si affermavano. E queste nuove istituzioni presero l’avvio dalla connessione tra piccola borghesia e classi contadine, attesa la debolezza della vera e proprio classe operaia.
Cabral, Okoth e Abumama, sono, per Formenti, uniti dalla loro critica all’universalismo occidentale, al mito dei “popoli senza storia” e la pretesa di attribuire alle tradizioni greco- latine o ebraico-cristiane il monopolio del progresso, sia esso culturale, sociale o politico. D’altra parte, in tutti e tre i casi, ciò non ha significato aderire acriticamente alla narrazione essenzialista e al culturalismo della tradizione decoloniale letteraria. Né si sono abbandonati ad assumere la critica al marxismo in quanto “eurocentrico”.
Walter Rodney, la dipendenza
La ricognizione di Formenti prosegue con la lettura di un altro importante militante e teorico, Walter Rodney, autore di The Russian Revolution. A View from the Third World[56] e di Decolonial Marxism. Essays from the Pan-African Revolution[57]. Il primo è una raccolta postuma di appunti e lezioni tenute all’Università di Dar es Salaam, sulla rivoluzione Russa, il secondo è una raccolta di saggi inediti sul marxismo decoloniale e sulla rivoluzione panafricana, il Black Power i villaggi Ujamaa e le lotte anticoloniali. Rodney, si mosse molto tra i diversi paesi in via di mobilitazione, fino a che fu ucciso a trentotto anni nel 1980. Storico e docente universitario, fu espulso dalla Jamaica nel 1968 e fu fondatore del Working People’s Alliance. Fu autore anche di How Europe Underdeveloped Africa, del 1972[58], una estremamente influente opera nella quale sostiene che il sottosviluppo non è una condizione originaria o naturale dell’Africa, ma il risultato dell’intervento europeo con la tratta atlantica prima e la colonizzazione diretta, dopo. Infine, con l’inserimento subalterno nei circuiti del capitalismo internazionale. Il saggio, che è la sua opera più importante, è chiaramente connesso con le teorie della dipendenza[59] e legge la storia africana da una prospettiva marxista che riesce ad influenzare autori decisivi come Ngũgĩ wa Thiong’o, Amílcar Cabral, Samir Amin, Angela Davis. Una famosa citazione è:
“The question as to who and what is responsible for African underdevelopment can be answered at two levels. First, the answer is that the operation of the imperialist system bears major responsibility for African economic retardation. Second, one has to deal with those who manipulate the system and those who are either agents or unwitting accomplices of the system.”[60]
Secondo la tesi di Rodney le società africane erano dunque autonome, altamente complesse, dinamiche e diversificate, avevano una propria specifica cultura e politica ed erano in grado di sviluppare forme di commercio intercontinentale (alcuni esempi, l’impero del Mali, il Ghana e Songhai). L’immagine di un’Africa “primitiva” è in sostanza una costruzione coloniale di legittimazione della stessa accumulazione originale europea, largamente fondata sulla schiavitù africana. Peraltro, anche nella fase successiva, della dominazione coloniale diretta, le economie africane, destrutturate dall’estrazione schiavistica, sono state ristrutturate per servire gli interessi europei e quindi in termini di monocolture di esportazione, infrastrutture di trasporto connesse, lavoro forzato e imposizione fiscale opprimente. Anche dopo la liberazione le dipendenze sistemiche sono spesso rimaste attive, e sono state coltivate tramite élite ‘compradore’ interne e aiuti volti a conservare i paesi in stato di costante indebitamento.
Rodney si riferisce al marxismo come quadro di senso generale, ma non manca di riconoscerne e criticarne l’eurocentrismo. Il testo di Rodney è stato a lungo il manifesto dei movimenti panafricanisti e anticoloniali negli anni Settanta e Ottanta.
Nei due testi analizzati da Formenti Rodney parte da una discussione della rivoluzione Russa come risposta contestuale e creativa alle condizioni specifiche del paese, sostenendo che la medesima creatività va applicata alla condizione africana, senza aver paura di appoggiarsi anche a forze nazionaliste, che possono anche non essere sempre reazionarie, ma vanno valutate nelle condizioni specifiche e date. Ad esempio, il nazionalismo africano spesso affonda le sue radici nella resistenza opposta alla prima penetrazione del potere europeo, e può essere un potente fattore culturale di resistenza. D’altra parte, il cosiddetto ‘comunitarismo africano’ è spesso servito, per Rodney, per nascondere teorie pseudo-socialiste, alla Senghor, che evitano di fare i conti con i rapporti di classe nella società postcoloniale e danno vita a narrazioni romantiche.
Classici: Du Bois.
Dopo la lettura di Rodney viene una ricognizione della generazione precedente, i “classici” Du Bois, Padmore, Williams, James e Cesaire. Il primo è Du Bois, nato nel 1868 nel Massachussetts da immigrati, fu il primo afroamericano a conseguire il dottorato ad Harvard e divenire professore di storia, insegnando nell’Università di Atlanta. Fino agli anni Trenta restò di orientamento democratico-progressiste e poi si avvicinò al marxismo, aderendo solo nel 1961, ad oltre novanta anni, al Partito Comunista Americano. Sarà l’esperienza del permanere della condizione di segregazione a fargli progressivamente mutare posizione, ma anche l’allineamento delle élite nere che progressivamente diventano una minoranza conservatrice. Raggiunta una più matura consapevolezza, Du Bois si rende conto che la “linea di colore” che attraversa la società americana rende necessario capire lo schiavismo come sottosistema dello sviluppo capitalistico internazionale. Ovvero, come sottolineerà anche Robinson dopo di lui, che è in quanto lavoratori inseriti nel ciclo di valorizzazione che i neri trovano un posto nel sistema americano. Bisogna, dunque, capire lo schiavismo moderno, alla scala imposta dalla valorizzazione del capitale. Ovvero come sottosistema del più generale ciclo di produzione di prodotti primari (cotone, caffè, zucchero) inseriti nel processo di produzione di merci e nel commercio internazionale, e connessi con la disponibilità di capitali di investimento. In altre parole, come parte del modo di produzione capitalista esteso al sistema-mondo pertinente (non a tutto il pianeta, ma a quegli insiemi di relé economici e sbocchi di consumo che sono effettivamente connessi strettamente con l’ecosistema produttivo americano). Fare ciò rende possibile, per Du Bois, comprendere la parzialità del punto di vista “essenzialista” che isola astrattamente il conflitto razziale e lo naturalizza. Naturalizzare la differenza svolge la funzione di impedire la ricomposizione degli interessi di classe (determinati, quindi, dalla posizione strutturale nel sistema di valorizzazione per come concretamente si dà ed evolve).
La seconda parte del contributo che la lunga vita di Du Bois è riferibile alla descrizione della soggettivazione dei neri americani. In opere come The Souls of Black Folk[61], riesce a fondere insieme l’analisi sociologica (ante litteram), la memoria personale e il lirismo, individuando una soggettività in evoluzione. Identità in bilico tra l’esperienza dolorosa della discriminazione e del razzismo sistemico e violento e la dignità, l’eredità culturale (di sintesi e diasporica) e la forza spirituale comunitaria. Il tema fondamentale è la cosiddetta “doppia coscienza”, una peculiare sensazione che passa per il “guardare sempre se stessi attraverso gli occhi degli altri” (“this sense of always looking at one’s self through the eyes of others”). Occhi che sono come oltre un “velo” che impedisce al bianco di vedere il nero e rinvia al nero l’immagine di sé che il bianco ha di un essere minore, infantilizzato e incompleto. The Souls viene considerata la prima grande opera letteraria e politica dell’identità afroamericana. L’influenza dell’opera si rintraccia ovunque, da Ralph Ellison, James Baldwin, Toni Morrison, Bell Hooks, e, ovviamente, Fanon in Pelle nere, maschere bianche[62] (1952) come in I dannati della terra[63] (1961). L’uomo nero non è più per sé, ma immaginato e deformato, quindi colonizzato dal punto di vista del bianco; per cui il nero è portato a negare se stesso e mettere “la maschera bianca”. Quando un bambino bianco, ad esempio su un treno, grida “guarda un negro!” lui si trasforma in un oggetto e la razzializzazione viene incisa nella carne.
Classici: Eric Williams e Robert James
L’analisi continua con Eric Williams e Robert James, entrambi di Trinidad, di cui il primo fu primo ministro dopo l’indipendenza, mentre il secondo esponente di spicco della diaspora londinese e membro eminente del movimento trotskista. Il libro più importante di Williams è Capitalismo e schiavitù[64], del 1944, scritto come tesi di dottorato nel 1938. L’opera introduce alcuni elementi che resteranno nel dibattito: il primo è che la schiavitù fu introdotta per sostituire la forza lavoro nativa, decimata dalla conquista e dalle condizioni di lavoro, e per le migliori condizioni psicologiche e di soggezione ricavabili da una popolazione sradicata molecolarmente (individui separati ed estratti dalle loro culture, ma abili nella gestione agricola); quindi che la schiavitù si impose sulle alternative perché il capitale andò incontro ad un processo di concentrazione che impose la forma della grande piantagione industrializzata, rispetto alla produzione decentrata, nella quale il modello migliore era dato dal lavoro bianco povero; ancora, che la successiva abolizione non fu l’effetto di una rivolta morale (che ci fu), quanto del mutamento del sistema di valorizzazione capitalista in mutate condizioni internazionali; che, soprattutto, è stata la necessità di razionalizzare e giustificare il fatto della produzione schiavista a far nascere il razzismo, e non il contrario (di qui il concetto di “razzialismo”, introdotto da Cedric Robinson); che il modo di produzione basato sulla grande piantagione con schiavi fu decisiva per l’affermazione del capitalismo industriale, e non viceversa. Per fondare tali tesi, nel contesto di evidenti feedback, Williams allarga l’analisi al commercio “triangolare” europeo, nel quale Inghilterra e Francia forniscono le navi negriere, mentre l’Africa “fornisce” la forza lavoro e le colonie le materie prime (zucchero, tabacco, cacao) che in contesto di monopolio imposto dalle armi determina la vigorosa crescita economica e quindi industriale (per lavorare le materie prime, vendute in altre colonie) dell’Europa del XVIII secolo. Ad arricchirsi furono quindi le città portuali come Bristol e Glasgow, Liverpool o Bordeaux, ma anche i centri di destinazione, come la Manchester centro della rivoluzione industriale e visitata da Engels negli anni Quaranta dell’Ottocento. Il meccanismo determinò una “causazione circolare e cumulativa”[65] che poi venne sopravanzata e abbandonata, come una scala giù usata, dall’affermazione della rivoluzione industriale avanzata, che richiese una forza lavoro diversa.
James è, invece, l’autore di Giacobini neri[66], straordinario libro dedicato alla storia della rivolta dei neri di Santo Domingo, ovvero Haiti (1791-1804) che anticipò la rivoluzione Francese e, grazie alla enorme produttività delle piantagioni che arricchivano gli ambienti borghesi nella Francia continentale dai quali nasceranno i fermenti rivoluzionari inserì nel contesto del tempo tensioni decisive. La rivoluzione haitiana, nella lettura di James è una tradizione sommersa che rappresenta una fondamentale cesura nella storia del colonialismo e razzismo. Una vera e propria distruzione dell’ordine coloniale per mano di schiavi ribelli rappresentò per la mentalità del tempo l’irruzione dell’impensabile nella storia. Le quattro fasi[67] della rivoluzione mostrarono l’imporsi di una soggettività politica nera nello spazio atlantico, ma anche la nascita difficile di uno Stato post-coloniale con specifici conflitti interni etnici e di classe e la forma di una inedita piantagione post-schiavistica. Le conseguenze fu che la rivoluzione nera si propagò nelle Americhe, provocando la rivolta in Venezuela del 1795, il tentativo di Gabriel Prosser a Richmond in Virginia nel 1800, la cospirazione di Aponte a Cuba nel 1812 e l’imponente rivolta di New Orleans del 1811
Classici, George Padmore
Infine, George Padmore[68], pseudonimo Malcom Nurse, il quale nacque nel 1902 e morì nel 1959; fu impegnato nei movimenti anticolonialisti e dirette “The Negro Worker”[69], dopo l’adesione al Partito Comunista, fino al 1934, e la sua espulsione da questo, si impegnò nel movimento panafricanista e fu un consigliere di Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. La sua figura è importante quindi per la transizione dal comunismo di scuola stalinista al panafricanismo indipendentista e non allineato. La sua tesi della somiglianza tra imperialismo inglese e fascismo. La rottura con il movimento comunista internazionale avviene su un punto molto specifico, come scrive Formenti:
“[ciò che] Padmore non poteva tollerare era il disinteresse nei confronti delle lotte dei popoli coloniali. L’incapacità di comprenderne le aspirazioni, sia da parte del Comintern che da parte delle sinistre europee occidentali, era infatti un chiaro sintomo di altre due incomprensioni: in primo luogo, del fatto che i relativi privilegi delle masse dei Paesi occidentali si fondano sull’oppressione e lo sfruttamento di centinaia di milioni di esseri umani degli imperi coloniali; secondariamente, del fatto che la disillusione degli immigrati sbarcati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti in cerca di democrazia e di una vita dignitosa avrebbe potuto rappresentare, assieme alle lotte anti-coloniali, un potente detonatore per la rivoluzione mondiale. Una cecità cui non era estranea l’ideologia razzista che le borghesie occidentali erano riuscite a inculcare nei lavoratori bianchi”[70].
Da ultimo, Aimé Césaire che fu leader politico iscritto al Partito Comunista Francese, nato nel 1913 e morto nel 2008, prese anche lui le distanze dal movimento comunista nel 1956, accusandolo di sottovalutare il ruolo della lotta anticoloniale per l’emancipazione dell’uomo. Fu l’autore che coniò, con Leopold Senghor il concetto di “Negritudine”, diretto a contestare la pretesa degli europei di superiorità culturale e civile. Si trattava di una cosciente apologia sistematica delle civiltà distrutte dall’imperialismo, attribuendogli un’essenza comunitaria e non gerarchica, fondata sulla cooperazione fraterna e non solo pre-capitalista, quanto anti-capitalista. Anche Césaire connette Hitler all’albero genealogico europeo, leggendolo come legittimo continuatore ed erede dell’imperialismo francese e inglese. In una delle sue formulazioni più efficaci, in Discorso sul colonialismo[71], identifica l’opposizione degli alleati ad Hitler come rivolta non già contro i crimini verso l’uomo, quanto verso l’uomo bianco.
Leggiamo un passo:
“Sì, varrebbe proprio la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero, che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”[72].
Una tesi simile, peraltro, la avanza pure Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo, del 1951[73], nel quale dimostra che le pratiche di dominio coloniale, in Africa e India, abbiano sia prefigurato come reso possibili le tecniche totalitarie moderne. Tra queste tecniche la nozione di “popolazioni inferiori” e la legittimazione derivante a dominarle “per il loro bene”. Particolarmente interessante il capitolo sesto, “Le teorie razziali prima dell’imperialismo”, nel quale Arendt anticipa di poco le tesi di Césaire, ed anche quelle di Cedric Robinson (che, peraltro, la cita):
“la verità storica è che il razzismo, le cui origini risalgono all’inizio del XVIII secolo, durante il XIX fece la sua comparsa contemporaneamente in tutti i paesi dell’Occidente e all’inizio del nostro secolo divenne poi l’autentica ideologia della politica imperialista. Esso certamente resuscitò e assorbì i vecchi schemi razziali; ma questi difficilmente avrebbero dato vita da soli, senza esigenze imperialistiche, a una concezione unitaria”[74].
Tra l’altro la medesima Arendt, in uno dei capitoli precedenti di un libro che sarebbe da rileggere, sottolinea come la ragione prima e necessaria dell’affermazione e del successo dell’imperialismo, sia l’alleanza tra le élite e la plebe. Un’alleanza difficile da accettare anche per i Partiti Comunisti, i quali per ragioni organizzative e ideologiche idealizzavano la cosiddetta “classe operaia” (la quale ha invece fornito appoggio all’Imperialismo britannico e francese, come agli altri, e si è impregnata del razzismo necessario alla sua giustificazione).
Cedric Robinson, razzialismo e Occidente
Il penultimo autore che Formenti tratta in questa sequenza è Cedric Robinson, autore di un monumentale testo che è la sua tesi di dottorato, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera[75], e fino alla sua morte, nel 2016, docente di Black Studies all’Università della California. Il testo, ampia e importante ricostruzione storico-genealogica della storia della schiavitù e della tradizione radicale nera negli Stati Uniti, produce una serrata critica del marxismo eurocentrico e della tesi implicita che sia il processo storico che dispiega dialetticamente, per un moto interno, l’autosviluppo dei fattori produttivi (in sé anche sociali) ad essere il motore della rivoluzione. Ne segue che le lotte concrete, soprattutto le lotte periferiche e dei subalterni razzializzati, rischino di dover essere rigettate (e considerate “reazionarie”), se intralciano il pieno sviluppo dei rapporti sociali i quali devono passare per la concentrazione del capitale e la creazione di ricchezza. Un altro concetto cruciale, anche qui con una qualche assonanza con alcune intuizioni della Arendt, dove connette il razzismo alla mentalità nobiliare, è il “razzialismo” come caratteristica originaria della civilizzazione occidentale. Con questa mossa, che enfatizza il razzialismo come dispositivo di controllo e gerarchia, e quindi sfruttamento economico e politico, e non come ancoraggio biologico (di volta in volta si può applicare, e si è applicato, agli irlandesi, agli slavi, agli abitanti del Sud, o del Nord, o ai tedeschi tutti, a varie minoranze) Robinson rigetta ogni tentativo di “essenzializzare” la razza e la “linea di colore”, mostrandola come costruzione.
Angela Davis, femminismi ed oltre
Infine, Angela Davis, in particolare Donne, razza e potere[76], nel quale la grande militante e femminista americana, attiva nel movimento delle Black Panther negli anni Settanta, invita energicamente a non farsi catturare da un’altra forma di ‘essenzialismo’, quello “femminista”. Ovvero di non immaginare una figura della “donna” omogenea, per riconoscere l’inserimento delle donne concrete, e delle loro azioni, entro i rapporti produttivi e strutturali. Per cui frequentemente rispetto alla “linea del sesso”, prevale la “linea di colore”, e, ancora più importante la “linea di classe”. Le donne nere, in particolare delle classi popolari, e nella vicenda della schiavitù, hanno lavorato fuori degli stereotipi di genere delle famiglie borghesi, fuori casa. Le donne sono essenzialmente lavoratrici senza alcuna specificazione. Come sottolinea Formenti, “Davis esamina la condizione della schiava nera in quanto forza lavoro, prima di considerarne l’identità sessuale: in quanto entità lavorative che generavano profitto, scrive, esse potevano essere prive di genere.”[77] Nelle comunità nere schiaviste uomini e donne erano comunque lavoratori e venivano scoraggiate tutte le catene di comando intermedie. Quindi, dopo il padrone, e i sorveglianti che erano lavoratori bianchi poveri, tutti gli schiavi dovevano essere rigorosamente eguali e senza alcun brandello di potere. Inoltre, spende pagine molto forti a ricostruire e accusare i movimenti femministi della prima ora, di matrice borghese, come le “suffragiste” di essere parte del movimento imperialista americano (che in quegli anni si spendeva verso le Filippine, Hawaii, Cuba e Porto Rico) e del suo funzionale razzismo[78].
Conclusione, linee di frattura e stagioni
Come ricorda anche Miguel Mellino in La critica postcoloniale[79], e in Marx nei margini[80], esiste almeno una linea di frattura nella costellazione dei Post-colonial studies o Decolonial Studies (due formule non coincidenti, anche cronologicamente, in posizione diversa sul giudizio sullo sviluppo, lo stato e la stessa tecnica): una linea politica, che si connette direttamente con le lotte al colonialismo, ‘scendendo di un piano’ in un certo senso; una tendenza che segue il riflusso e nasce da questo, quindi tra gli anni Ottanta e Novanta e prende posto nei Dipartimenti di Letteratura anglosassoni, con il rischio, dice Mellino, di “chiudere il reale entro le sue categorie” e ripiegare nell’astrazione meramente discorsiva, seguendo un atteggiamento “narcisisticamente avvinghiato al godimento delle proprie enunciazioni”. In questo caso si ‘esce in giardino’. Alcuni autori della prima linea sono, oltre a quelli indicati da Carlo Formenti, il secondo Robert Young[81].
Scrive Young, molto correttamente:
“l’effetto principale della globalizzazione del potere imperialista occidentale è stato quello di aver fuso società con diverse tradizioni storiche in un’unica storia. Una storia che, al di là di quel periodo caratterizzato dallo sviluppo di economie autocentrate, ha costretto tli società a uniformarsi al modello economico dominante. Il mondo intero opera oggi all’interno di un sistema economico diffuso e controllato dall’Occidente, ed è proprio il persistere del dominio – politico, economico, militare e culturale – occidentale a conferire ancora massima rilevanza a questa storia. La liberazione politica non ha comportato la liberazione economica – e senza liberazione economica non ci può essere liberazione politica”[82].
Espressione della seconda, e maggioritaria, tendenza sono Homi Bhabha, Spivak (che pure si pensa come femminista marxista) e Chandra Mohanty[83], Achille Mbembe, Ariun Appadurai[84], che leggono il linguaggio come il campo della battaglia culturale e si legano variamente all’ambiente post-moderno. Una posizione decisiva in tale sviluppo la riveste Stuart Hall, principale animatore dei Cultural Studies e figura rilevante della Nuova Sinistra britannica, primo direttore della “New Left Review” [85]. Autore particolarmente alieno alla sistematicità e singolarmente eclettico, impegnato, secondo le sue formule ambigue in un “materialismo culturale non determinista”, o una “determinazione non riduzionista”, poi via via sempre più vicino al decostruzionismo, sempre sincronizzato con i toni del dibattito culturale corrente, una figura “mondana”[86], specchio dei vari posizionamenti, di volta in volta, della “nuova sinistra” europea. Un lavoro che pensa, e rivendica, “la pratica intellettuale come politica”, ed in questo senso, ancora espressamente, “mondana” (nel senso di connessa, intrecciata, e inseparabile dal mondo). Quel che questa “Sinistra” accetta, e espone, è molto chiaramente una rinuncia. Quella alla trasformazione radicale del ‘sistema’ e la riappropriazione della vita in senso totale. Rinuncia al marxismo, palesemente, o, almeno, sceglie di lottare con esso. Punta sulle micro-resistenze e sugli antagonismi locali, che continuamente si disputano lo spazio sociale, l’egemonia e la designazione, le contraddizioni, senza ridurle a progetto. La lotta si svolge entro le “formazioni discorsive” (nel senso di Foucault) e delle totalità “mai suturate” (Laclau), “indecidibili” (Derrida).
Mentre in posizione intermedia sono Dipesh Chakrabarty[87], Paul Gilroy[88] e lo stesso Edward Said, che negli ultimi interventi prese la distanza dalla tendenza alla depoliticizzazione della corrente cui aveva contribuito enormemente negli anni Novanta (con la pubblicazione di Orientalismo, che, pure, definisce il campo), e al barocchismo estetizzante e accademismo astruso. Said, un palestinese sempre impegnato nella lotta per il suo popolo, ricorda che l’imperialismo esiste anche fuori dei testi. Dunque come sentisse più affine la critica del “primo postcolonialismo” (quello descritto da Formenti) di James, Cabral o Fanon. Un altro autore che si rifà al marxismo e alla lotta anticoloniale, avendoci anche partecipato personalmente, è Ngũgĩ wa Thiong’o[89].
Per guardare la cosa dall’alto si può sottolineare come molti autori postcoloniali parlino da una posizione soggettiva (che non è una colpa) di membri borghesi delle periferie imperiali trapiantati nel centro (anzi nel centro del centro della riproduzione del potere americano, le grandi università). Condividono le medesime condizioni sociali di produzione della loro teoria: producono un discorso autoassolutorio e lenitivo che proviene da individui sradicati i quali parlano da posizione di potere istituzionale a una platea di ascoltatori (e lettori) altrettanto sradicati, ed in una fase sospesa della loro vita. Le condizioni di produzione sociale nell’Università anglosassone, infatti, e quindi la loro ‘falsa coscienza necessaria’[90], non consentono di produrre e non recepiscono che discorsi astratti, utili di fatto a posizionarsi nel marketing universitario e culturale (come ricorda anche Mellino[91]); discorsi innocui e capaci, casomai, con un rovesciamento sintomatico, di rilegittimare lo stesso Occidente come luogo che fonda la sua verità sulla critica. E la fonda perché la libertà, matrice dell’autorappresentazione individuale e sociale dell’uomo adulto occidentale, è intimamente connessa con la possibilità di sottrarsi tramite la critica. La libertà è pensata come disincarnarsi, come resurrezione.
Completamente diverso è quel discorso che si forma per mobilitare e attivare, che pensa la sua efficacia per i suoi effetti e si vede e concepisce come arma. Pensiero e discorso che si situano nei movimenti sociali, per connettere e suscitare, creare nuovi soggetti e quindi nuova società, determinare la coscienza tramite la vita (Marx, l’Ideologia Tedesca).
Sulla base di questa distinzione, quel che in definitiva Formenti sembra dire, con questa ampia cavalcata, è che nel contesto dell’emergenza multipolare la genealogia di questi autori e pensieri può tornare a essere centrale. Ciò, però, a condizione che l’emancipazione africana in un continente conteso tra le vecchie potenze coloniali (in cui la Francia appare in ritirata, ma l’Europa, da una parte, e gli Stati Uniti, operano con energica determinazione) e i Brics, passi per il confronto critico con gli errori passati, sappia distinguere tra critica radicale e disattivazione postmoderna, sia in grado di creare una sintesi alta delle dimensioni geopolitiche, economiche e culturali. Non si rifugi nella “critica critica”, ma susciti nuovi soggetti, nuove forme sociali e nuova coscienza.