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puntocritico

Ventotene, mito e realtà

di Marco Veruggio

Cosa dice veramente un testo che governo e opposizione tirano ciascuno dalla sua parte e in molti difendono perlopiù, almeno a giudicare da quel che dicono, senza averlo letto né contestualizzato

ventot.jpgIn un’esilarante scena di “Brian di Nazareth” il protagonista del film, fintosi predicatore per sfuggire ai soldati romani che lo considerano un pericoloso militante antimperialista, messosi in salvo, cerca di seminare anche la piccola folla assiepatasi per seguire il suo strampalato sermone. Rincorrendolo questi suoi “adepti” trovano un sandalo perso per strada dal fuggitivo, si convincono che sia un segnale del “maestro” e proseguono in corteo agitando aste e bastoni, in cima ai quali hanno legato i propri sandali, improvvisamente assurti a simbolo di una nuova fede.

La polemica politica del giorno ricorda la scena dei Monty Python: la Meloni inciampa su una citazione ad capocchiam del Manifesto di Ventotene, che l’opposizione raccoglie e trasforma in simbolo delle virtù repubblicane e occasione di imbastire una polemica surreale buona ad allontanare l’attenzione delle cose importanti. A migliaia insorgono a difesa di un libello che, a giudicare da quel che dicono, perlopiù non hanno letto; il dibattito politico riscopre Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e, dopo la manifestazione convocata da Serra con un post riservato agli abbonati di Repubblica, arriva pure il flash mob europeista su un’isoletta raggiungibile dalla terraferma con due corse di aliscafo al giorno o imbarcazione privata: dalla vocazione maggioritaria alla vocazione skipper.

Ciascun contendente, naturalmente, tira Spinelli e Rossi dalla sua parte sorvolando sui due punti fondamentali di quel testo che tutti citano: il modello sociale che vi è delineato e il contesto storico internazionale in cui nasce e si sviluppa il movimento federalista europeo. Perché, scriveva nel 1915 uno che la rivoluzione due anni dopo l’avrebbe fatta sul serio, “se la parola d’ordine degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, collegata all’abbattimento rivoluzionario delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa alla testa, è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, resta sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico” (Lenin, “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, 1915).

 

Un modello sociale liberale

L’opposizione avrebbe potuto liquidare la Meloni limitandosi a ricordarle che mentre Spinelli e Rossi parlavano di rivoluzione, i maître à penser dei Fratelli d’Italia, dopo aver liquidato sindacati e partiti di opposizione, avevano da poco invaso Francia, Albania, Grecia e Russia entrando in guerra persuasi che l’alleato più potente, la Germania nazista, avrebbe regalato loro la vittoria, una consuetudine cara ai governanti della Penisola almeno dal Risorgimento.

Il fatto che Spinelli e Rossi parlino di socialismo, rivoluzione e abolizione della proprietà privata non deve trarre in inganno. Il modello che ispira Ventotene è una società liberale, in cui il principio della divisione della società in sfruttatori e sfruttati non è neppur scalfito e la rivoluzione evocata ricorda più il 1848 che il 1917. Per gli autori, ad esempio, i totalitarismi fascisti derivano dalla “formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro interessi”, minacciando “di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro”. Perciò “Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si servivano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo le libertà popolari, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere”.

Insomma fascismo e nazismo non sono la risposta del grande capitale industriale, agrario e finanziario alla sacrosanta avanzata dei lavoratori – in Italia il Biennio Rosso e in Germania la Rivoluzione di Novembre – bensì l’effetto, esecrabile ma logico, dell’egoistica competizione tra “baronie” simmetriche ed equivalenti: capitale monopolistico e sindacato. Dunque per Spinelli e Rossi “la liberazione delle classi lavoratrici” avrà luogo non emancipandosi dallo sfruttamento da parte delle classi dominanti, bensì “non lasciandole ricadere in balia della politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici anzitutto del grande capitale”.

Come scrive Federico Gui, nel suo saggio introduttivo al Manifesto: “Le proposte politiche e organizzative avanzate dall’ex dirigente comunista e dal suo compagno di prigionia, nel perseguire l’abbattimento dell’ordine europeo nazi-fascista allora all’apogeo, rivelavano al tempo stesso il desiderio di offrire una valida alternativa al Manifesto dei comunisti”. Lo fanno riprendendone linguaggio e brandelli d’analisi, ma demolendone l’essenza e adottando un’attitudine paternalistica, per cui la classe operaia ha diritto di vedersi garantite “condizioni più umane di vita” e “la proprietà dei lavoratori in settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.”, ma non di mettere in discussione l’ordinamento liberale, “le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale”, la proprietà privata dei mezzi di produzione in generale (che potrà esser abolita, semmai, “caso per caso”). I proletari, insomma, dovranno “connettere le loro particolari rivendicazioni di classe con gli interessi degli altri ceti” e rinunciare alla “utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione”.

 

Federalismo, Guerra fredda, imperialismo europeo

Il federalismo di Ventotene è la proiezione internazionale di quel modello. Come le borghesie liberali europee nell’Ottocento lottano per creare Stati e mercati nazionali ed “eliminare molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci”, così gli Stati Uniti d’Europa per Spinelli e Rossi rispondono alle esigenze di “imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi delle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento”.

E come, sempre nell’Ottocento, l’unificazione di granducati e staterelli e la rottura di grandi imperi multinazionali passa attraverso conflitti che creano nuovi equilibri di potere in grado di assicurare la pace dentro i nuovi confini e un’aggressiva competizione al di fuori, così un secolo dopo, se per i federalisti l’Europa “è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”, allo stesso tempo Eugenio Colorni nella sua Prefazione al Manifesto ne elenca i principi fondanti allineandoli in un ordine inequivocabile: prima “esercito unico federale”, poi “unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Mentre Spinelli e Rossi anticipano persino “l’esportazione della democrazia”: “Assurdo è il principio del non intervento secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere in grado di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei”.

I fatti confermano le parole: il primo passo verso la federazione Europea è la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, le materie che avevano deciso le sorti delle guerre mondiali. “Mettendo insieme carbone e acciaio europei scongiureremo una guerra fratricida” è la giustificazione. Ma quel 1951 in cui Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Olanda fondano la CECA è anche l’anno in cui la Germania scarcera Alfried Krupp, rampollo della dinastia che aveva armato prima il militarismo prussiano e poi il nazismo e nel 1944-1945 sfruttato come bestie prigionieri di guerra ed ebrei di Auschwitz per produrre munizioni nelle proprie officine. L’anno dopo i membri della CECA imbastiscono la CED, Comunità Europea di Difesa. L’anno dopo ancora la Germania chiede a USA, Francia, Regno Unito l’autorizzazione a restituire a Krupp le sue aziende per ricostruire l’industria pesante tedesca nel quadro della CECA e nel 1952 in Italia circola un volantino non firmato (ma attribuibile al PCI, allora sezione del Cominform di Stalin) che accusa la DC di voler svendere l’Italia alla Germania e a Krupp.

Alla fine la CED salta, perché la Francia non ratifica l’accordo e perché il 5 marzo 1953 Stalin muore. Il giorno dopo Spinelli scrive nel suo Diario che un altro anno di vita di Stalin, alimentando la paura del comunismo, avrebbe favorito l’unità europea, che la sua morte, invece, rischiava di uccidere. E qualche settimana dopo precisa: “Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono in cui il regime poliziesco sarà marcio”.

E quando ciò accade, 36 anni dopo, annota: “C’è il tentativo di un’Europa fatta dagli europei. E c’è contemporaneamente il tentativo di un’Europa che sia fatta dagli americani. E vorrei che non ci sdegnassimo inutilmente, e in fondo non seriamente, di questa seconda alternativa. L’unità imperiale sotto l’egida americana è certo anche assai umiliante per i nostri popoli ma è superiore al nazionalismo perché contiene una risposta ai problemi delle democrazie europee” (Spinelli, L’aria fritta del nazionalismo, 1 aprile 1989).

Come confermano documenti desecretati 25 anni fa “Una delle più interessanti operazioni segrete degli USA nell’Europa del dopoguerra fu il finanziamento del Movimento Europeista. Il Movimento Europeista era una coalizione che raccoglieva un prestigioso, seppur eterogeneo, gruppo di organizzazioni che sollecitavano una rapida unificazione dell’Europa, concentrando i propri sforzi sul Consiglio d’Europa e annoverando tra i suoi cinque presidenti onorari Winston Churchill, Paul-Henri Spaak, Konrad Adenauer, Leon Blum e Alcide de Gasperi. Nel 1948 il suo maggior problema era la scarsità di fondi. […] l’afflusso discreto di oltre tre milioni di dollari, per lo più provenienti da fonti governative USA, tra il 1949 e il 1960 fu fondamentale per gli sforzi volti a raccogliere consensi di massa al Piano Schuman, alla Comunità Europea di Difesa e a un’Assemblea europea con poteri sovrani. Questi fondi occulti non scesero mai sotto il 50% del bilancio del Movimento europeista e, dopo il 1952, probabilmente mai sotto i due terzi” (Richard Aldrich, “OSS, CIA and European Unity: the American Committee on United Europe 1948-1960”, 2009)

Dopo la Guerra Fredda un articolo pubblicato su un numero di Limes dal titolo “A che ci serve la NATO” e intitolato a sua volta “Agli Stati Uniti quest’alleanza non serve più” esprimeva riflessioni analoghe a quelle che oggi Trump ispira ai nostri europeisti: “Dopo la Bosnia e il Kosovo, il concetto strategico della NATO è diventato molto vago. Le ambiguità di Clinton e l’‘umanitarismo’ di Blair favoriscono l’abbandono dei principi originali. I nuovi dispositivi di sicurezza in Europa devono essere europei”. La difesa comune europea, insomma, da allora incarna il sogno di sganciarsi non solo dal dollaro, ma anche dall’ombrello USA, per poter proiettare autonomamente i propri interessi all’estero, evitando il ruolo di vaso di coccio tra i vasi di ferro americano e asiatici. Non c’entrano né la rivoluzione socialista, come dice la Meloni, né l’Europa pacificatrice, come invece dice l’opposizione. C’entrano gli interessi materiali di élites che ieri come oggi chiedono a milioni di proletari di rinunciare a scuola e sanità per armarsi e prepararsi a morire in trincea difendendo i privilegi di pochi.

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