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Sono felice solo quando manifesto

di Antonio Semproni

Su uno dei tanti cartelloni che ho visto a Roma durante le manifestazioni contro il genocidio campeggiava la scritta “avremmo dovuto liberare la Palestina/invece è stata la Palestina a liberare noi”. Facendo affidamento sulle plurime accezioni del verbo “liberare”, possiamo concludere che questo slogan imperniato su un banale gioco di parole è vicinissimo al vero. La libertà che abbiamo sperimentato durante le manifestazioni è stata la condizione per percepire una felicità quasi inedita nell’epoca delle liberaldemocrazie (o tecnocrazie) capitaliste.

Scommetto che questa constatazione valga non solo per il sottoscritto, ma anche per voi che leggete e avete manifestato: sotto la spessa scorza della giusta rabbia, ho intuito la felice libertà di moltissimi, e credo di averne avuto conferma parlando con più di qualche partecipante, fra amici, conoscenti e anche sconosciuti. Alla base di questa felice libertà c’è sicuramente un’esperienza estetica non indifferente: a prima vista, marciare in mezzo a tante persone verso una direzione ben precisa (che sia La Sapienza o la sopraelevata della tangenziale) o semplicemente incamminarsi assieme a loro è un’azione che capovolge il quotidiano e risignifica lo spazio urbano, dove ciascuno si dirige per conto proprio verso una distinta meta. Comporre insieme agli Altri la folla, costituire un pezzetto di quel gigantesco puzzle che invade le strade e le piazze ci fa accantonare le preoccupazioni individuali e persino quelle corporali: è come se il nostro corpo (con le sue energie individuali) confluisse in quelli di tutti gli Altri e viceversa.

Si può finalmente provare quella felicità che Epicuro chiamava catastematica, cioè stabile, consistente nel non avere né fame né sete né freddo[1]: un suo istante sarebbe perfetto e renderebbe tale anche la vita. Questa immersiva esperienza sensoria, sebbene non basti da sola a fondare la felice libertà vissuta dai manifestanti, le dà senz’altro slancio: a tal proposito, il filosofo greco scriveva che “[c]osa assai bella è anche la vista del prossimo, quando al primo incontro ci si scopra dello stesso sentimento”[2].

La felice libertà che vado disegnando abbisogna così degli Altri per essere avvertita, ma non si esaurisce in un modo di essere comune a più persone che condividono lo stesso spazio e lo stesso tempo. A me pare infatti che equivalga a un processo evolutivo attraverso il quale le persone (i manifestanti) diventano un soggetto collettivo (il corteo), la cui felicità sta nella scoperta di una capacità attiva che i più cinici davano per inesistente e i più amareggiati per smarrita[3]. Il soggetto collettivo manifesta questa capacità introducendo nella storia un evento (la manifestazione), qualcosa che costituisce “una rottura locale nell’ordinario divenire” del mondo capitalistico globalizzato[4] e che si “sottrae a ogni determinazione”[5], cioè contraddice il corso dettato dal pilota automatico della tecnocrazia o dal galateo delle liberaldemocrazie parlamentari (galateo che esige la cortesia verso lo Stato genocida). Dopodiché il soggetto felice si comporta nel modo più fedele possibile all’evento, cioè mantiene il proprio raggio di azione forte e diritto: in questo sta la sua fedeltà; ed è così che interseca la storia, creando in essa qualcosa “in quanto eccezione”[6].

La capacità attiva delle folle di manifestanti sta tutta nella parola: quest’ultima però non compone un linguaggio alfabetico, che deve essere mediato (tramite portavoce, partiti e apparati di potere) per poter essere rappresentato nelle istituzioni, altrimenti dileguerebbe nei meandri dell’economia dell’attenzione, come tutti i messaggi mercificati dell’infosfera; dalla folla emerge piuttosto il linguaggio dei corpi, radicalmente democratico perché espresso da ciascuno di noi alla stessa maniera, cioè con la propria rispettiva presenza. Questo linguaggio, tanto più udibile quanti più sono i manifestanti, non si oggettiva, cioè non si concretizza sul piano istituzionale, nel quale non è in alcun modo inscrivibile (non significa un sì o un no, dunque non equivale a un voto su un quesito referendario, ma non è nemmeno un comunicato di partito o un’interrogazione parlamentare). Esso è indigesto alla macchina del potere e non è un caso se la narrazione dei media si appuntelli agli isolati episodi di violenza: si tratta di un tentativo volto non tanto a screditare le manifestazioni, quanto a normalizzarle, a ricondurle entro la dinamica dello spettacolo, la quale dovrebbe essere ben chiara a chi assiste agli eventi attraverso lo schermo e consiste nell’assegnare a ciascun protagonista un certo capitale simbolico, almeno in termini di credibilità: la figura dei vandali e dei debosciati ai manifestanti e quella del poliziotto buono al governo. Simile polarizzazione distoglie l’attenzione dalla questione palestinese.

Tutto il pensiero occidentale e, di conseguenza, il nostro modo di agire sono informati dall’oggettivazione e dunque della tensione dell’uomo o della società a esteriorizzarsi, a tradurre la coscienza (individuale o collettiva) in un complesso funzionale di pratiche o credenze oppure in un’opera servente (che si tratti di una religione, del codice civile, del ponte sullo stretto o di un libro di poesia).

Le manifestazioni che si sono susseguite in tutta Italia erano certamente strumentali a esercitare pressione affinché il governo israeliano non bloccasse la Sumud flotilla, ma a me pare che il vero punto sia un altro, che il senso (e la rilevanza) dei cortei risieda primariamente nella costituzione di un soggetto collettivo. Il pensiero per le sorti della flotilla si situa così su un piano logicamente successivo a quello della creazione di questo soggetto, come se fosse un qualcosa che inevitabilmente ne scaturisca; in altre parole, “lʼattività non finalizzata precede l’attività strumentale come la sua condizione di possibilità”[7].

La manifestazione ci ha reso più che mai presenti a noi stessi, ma non nella dimensione individuale, bensì in quella di soggetto collettivo in grado di proferire un verbo di cui nessuno di noi, singolarmente, sarebbe capace.

E cosa ha affermato questo soggetto collettivo, qual è stato il senso del suo discorso? Credo più o meno questo: “noi siamo uniti, tra di noi e con il popolo palestinese, mentre voi, che siete il potere legalizzato, volete dividerci”. Prima ancora che contro la violenza del genocidio e contro la sfera della produzione capitalistica, incisa almeno in quelle giornate in cui le manifestazioni sono coincise con gli scioperi (come implicito nello slogan “se bloccate la flotilla blocchiamo tutto”), tutti i cortei hanno parlato contro la divisione imposta da Israele, Stati Uniti, Italia e le loro appendici mediatiche, che hanno preteso di separarci dalla sorte dei palestinesi sciorinandoci il genocidio in mondovisione come un reality da propinare a dei passivi spettatori. Ebbene, siamo rimasti tutt’altro che indifferenti e abbiamo gridato la nostra unione con il popolo palestinese. Il popolo palestinese è il fratello che ci è stato strappato, la parte che manca al soggetto collettivo cui abbiamo dato vita durante la manifestazione e che potenzialmente ricomprende noi, i palestinesi e tutti i subalterni, tutti i “costorici” – come li chiamerebbe Günther Anders[8] –, cioè quelli che la storia la subiscono, vedendola decidere da altri.

Per le piazze e le strade d’Italia questo soggetto collettivo, ferito e mutilato di una sua parte eppure libero e felice, ha fatto “più rumore del ratatata”[9].


Note
[1] Epicuro, sentenza 35, in Scritti morali, BUR, 2021, p. 109.
[2] Epicuro, sentenza 131, in op. cit., p. 133.
[3] Alain Badiou, Metafisica della felicità reale, DeriveApprodi, 2015, p. 57.
[4] Ivi, p. 50 s.
[5] Ivi, p. 85.
[6] Ivi, p. 55.
[7] Paolo Godani, Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo, DeriveApprodi, 2019, p. 121.
[8] L’uomo è antiquato, vol. II, pag. 254 s.
[9] Come cantano gli Eugenio in Via di Gioia (https://www.youtube.com/watch?v=8XvXQwyr9Y8).
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