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poliscritture

Il comunismo nel buio[1]

di Eros Barone

buio su comunismo.jpg«Dopo il 2017 il dibattito sul comunismo (o anche sulla “crisi del marxismo”) è andato scemando e pare oggi cancellato. Nessuno è più disposto a portare questo Anchise sulle spalle». Questa la conclusione cui sono giunto in «Nei dintorni di Franco Fortini» (gennaio 2025), dove ho riassunto i principali interventi della “Conferenza di Roma sul co­munismo” (18/22 gennaio 2017)1 e gli scambi avvenuti, sempre nel 2017, nella redazione di Poliscritture dopo la pubblicazione di un mio commento ‘Comunismo’ (1989) di Fortini.2 Da allora il silenzio. E ora, in questo buio presente di guerre, ha senso ancora parlarne? Come? Con chi? Eros Barone, che il tema non l’ha abbandonato, propone queste sue «Tesi sul comunismo». Sono lontane e in aperto contrasto con la posizione di Fortini, per me ancora punto di riferimento e da lui omaggiata ma subito accantonata. e pure con la mia esigenza di un ripensamento non scolastico o da epigoni. Le pubblico, tuttavia, ringraziandolo, perché i rendiconti che da vecchi facciamo delle nostre esperienze vissute e rielaborate vanno rispettati e meditati, anche se non dovessero essere ripresi da altri o servire poco a cercare altre strade. [ E. A.]

* * * *

L’amico e compagno Ennio Abate mi ha chiesto di rilanciare il dibattito sul significato del comunismo e della lotta per il comunismo, prendendo le mosse da un dibattito promosso e sviluppato intorno a questi temi otto anni fa proprio su questa stessa rivista. Al centro di quel dibattito vi era la definizione del comunismo e della lotta per il comunismo, formulata da Franco Fortini: definizione dalla quale, pur con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”, mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde.

Ho quindi accettato volentieri la sollecitazione di Ennio, non tanto perché sia convinto di poter formulare delle tesi originali quanto perché ragioni legate all’età (ho 76 anni e la vecchiaia, tranne rarissime eccezioni alle quali non appartengo, significa decadenza non solo fisica, ma anche intellettuale) e motivazioni specifiche legate alla mia esperienza politica, ideologica e culturale mi spingono a rendere di pubblica ragione un bilancio della mia milizia comunista, quale emergerà, sia direttamente che indirettamente, dalle tesi che seguono.

 

Tesi n. 1

La dialettica, in quanto forma sistematica di pensiero, è stata elaborata, al limitare tra età moderna ed età contemporanea, dalla filosofia di Hegel. Questa tesi afferma che le possibilità di un ulteriore sviluppo della dialettica si sono concretizzate nella linea Marx-Engels-Lenin, vale a dire nell’epoca post-hegeliana, che è quella in cui ci troviamo ancora oggi. Non averne compreso il contenuto e non averlo trasfuso in una prassi conseguente è una delle ragioni per cui sono crollate le società socialiste. Parimenti, aver ridotto la dialettica materialistica elaborata da Marx e da Engels a un’ontologia meccanicistica e a una politica pragmatica ed economicistica è stato uno dei motivi di non pochi errori strategici in politica.

«Lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino a oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione» (Hegel, Fenomenologia dello Spirito). Questa affermazione di Hegel è valida, oggi non meno che nel 1806. Viviamo ancora nell’età delle rivoluzioni: la prima rivoluzione industriale, Cromwell, Robespierre e Lenin hanno rappresentato processi e personalità che hanno contrassegnato passaggi epocali; le restaurazioni ad opera degli Stuart, dei Borbone e dell’imperialismo capitalistico hanno soltanto ritardato lo sviluppo di tali processi. La dialettica è la logica di tale mutamento, è “l’algebra della rivoluzione” (A. Herzen). Per questo motivo ogni discorso sulla dialettica è un discorso politico, anche se in apparenza verte ‘soltanto’ su strutture concettuali.

 

Tesi n. 2

Un esempio della fecondità del metodo e della concezione della dialettica è rappresentato dal Discorso alle Guardie Rosse tenuto da Mao Tse-tung nel 1966 e scandito da un ‘incipit’ formidabile: “Ogni cosa si trasforma”. Quel discorso, in cui non vi è parola che non sia al suo posto e che non sia connessa ad un preciso sistema di concetti, costituisce una pagina magistrale della dialettica marxista applicata alla lotta di classe sul terreno teorico e politico e un’illustrazione esemplare dei valori che stanno alla base della rivoluzione socialista, la quale a sua volta si articola in una triplice rivoluzione: economico-sociale, politico-istituzionale e ideologico-culturale. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, condizionati dall’immagine vulgata di un grande rivoluzionario quale è Mao Tse-tung, la categoria che si trova al centro di questo discorso e, più in generale, al centro del pensiero di Mao, è la categoria della mediazione, eredità fra le più importanti di quella “fonte e parte integrante” del marxismo che è la dialettica hegeliana. Ma vi è di più, poiché nella centralità della categoria della “mediazione” è operante l’influsso potente e onnipervasivo della lezione teorico-politica di Giuseppe Stalin, in cui il materialismo dialettico e il materialismo storico rappresentano, a partire dalla prassi rivoluzionaria e in vista di essa, i due fuochi della stessa ellisse. All’interno di quella ellisse il ‘Leitmotiv’ della parte pratico-politica del discorso, che discende organicamente dalla parte teorico-metodologica che lo introduce, ha un rigore algebrico: “Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra”. Da queste premesse tanto lucide quanto rigorose procede quindi, attraverso una corretta mediazione fondata sul carattere asimmetrico delle due deviazioni, la linea di condotta che occorre seguire nel riconoscere, nel combattere e nel superare i due tipi di deviazione dalla corretta strategia rivoluzionaria.

«Ogni cosa si trasforma. Ogni cosa si trasforma secondo le sue proprie leggi. Anche noi siamo oggetti e soggetti delle trasformazioni, ne siamo parte passiva e parte attiva, consapevole, con nostri obiettivi e piani.

Ogni cosa si trasforma in un’altra e questa in un’altra ancora e poi ancora, costituendo gli anelli di una catena. Se prendiamo un anello della catena, esso è attaccato al primo, ma solo attraverso gli anelli intermedi. Se vogliamo comprendere il legame che unisce una cosa a un’altra da cui proviene, se vogliamo comprendere come sta trasformandosi una cosa, dobbiamo ricostruire nella nostra mente le fasi intermedie attraverso le quali la prima si è trasformata in quella che stiamo esaminando. Ogni cosa diviene secondo le sue leggi e tramite le circostanze esterne e accidentali che incontra. Se vogliamo comprendere come mai una cosa si è trasformata proprio in quest’altra e non in qualcosa di diverso, dobbiamo non solo conoscere le leggi proprie di quella trasformazione, ma anche ricostruire nella nostra mente le circostanze esterne e accidentali che hanno determinato passo dopo passo quel percorso. Si dice che una cosa è divenuta un’altra attraverso la mediazione degli anelli intermedi e delle circostanze esterne. La mediazione è un aspetto universale della trasformazione.

Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra. La lotta contro gli opportunisti di sinistra (gli estremisti di sinistra) è una lotta interna alle nostre fila. Anche la lotta contro gli opportunisti di destra è una lotta interna alle nostre fila, ma solo fino a un certo punto. Dove sta la differenza tra i due fronti? Gli opportunisti di sinistra negano le mediazioni (le fasi, i passaggi, i processi) attraverso cui si svolge ogni trasformazione reale. Essi politicamente sono ostili all’imperialismo e alla borghesia, ma in campo culturale, dell’orientamento e della concezione del mondo si limitano a negare le posizioni della borghesia, non le superano, le conservano rovesciate, vedono il mondo come la borghesia solo dal lato opposto. Essi quindi subiscono ancora fortemente l’influenza della borghesia e non è strano che ogni tanto alcuni di essi di punto in bianco, sotto l’influsso di qualche evento traumatico, passino dall’altra parte. Gli opportunisti di sinistra possono essere dei discreti combattenti, mentre la loro direzione è rovinosa, sotto la loro direzione la sconfitta è certa. La permanenza di un opportunista di sinistra nelle nostre fila è positiva solo finché riusciamo a contenerne l’influenza e a determinare un processo in cui egli si trasforma e corregge a fronte dei compiti assegnatigli.

Gli opportunisti di destra negano anch’essi le mediazioni dei processi reali, quindi non vedono i passaggi attraverso cui il presente di supremazia della borghesia si trasforma nel domani di supremazia del proletariato, in definitiva vedono un baratro invalicabile tra il presente e gli obiettivi della nostra rivoluzione e restano ancorati alla sponda del presente. Hanno poca fiducia nella nostra vittoria perché non vedono i passaggi del cammino che la rende possibile. La loro opposizione alla borghesia è debole, sono inclini alla conciliazione, a staccarsi così poco dal presente da aderirvi quasi. A differenza degli opportunisti di sinistra essi hanno però l’appoggio della classe dominante, esprimono l’influenza della classe dominante nelle nostre fila, sono veicolo della sua influenza. Gli opportunisti di sinistra esprimono un’influenza indiretta della borghesia, un’influenza culturale e di concezione del mondo, attraverso la negazione. Gli opportunisti di destra invece esprimono la cultura e la concezione del mondo dominante, quella più diffusa ed esprimono l’influenza politica della borghesia. I veri e propri portavoce della classe dominante tra le masse si confondono con loro. Quindi essi usufruiscono della forza che deriva loro dall’appoggio della classe dominante, dal conservatorismo, dalla forza dell’abitudine, dalla rassegnazione, dalla stanchezza, dal servilismo, dal cedimento al ricatto e alla paura. Essi sono più dannosi (degli opportunisti di sinistra) anche come semplici militanti e la loro permanenza nelle nostre fila deve essere strettamente limitata a quelli che stanno trasformandosi. Gli altri possono essere, devono essere accettati nelle organizzazioni di massa. Qui il nostro obiettivo è determinare l’orientamento generale e controllare saldamente l’apparato, ma non possiamo escludere in linea di principio la partecipazione degli opportunisti di destra alle organizzazioni di massa, perché anch’essi, come gli opportunisti di sinistra, incarnano in modo unilaterale e organico un limite reale delle masse ed escluderli dalle organizzazioni di massa vuol dire rifiutare di trattare e trasformare, di fare i conti con questo limite delle masse, cioè rinunciare al nostro compito e ai nostri obiettivi rivoluzionari.»

 

Tesi n. 3

Non è possibile rilanciare il discorso sul comunismo senza affrontare e sciogliere il nodo (storicamente, teoricamente e politicamente) aggrovigliato che nasce dall’intreccio e dalla reciproca interazione fra le classiche deviazioni che insidiano la teoria e la prassi di una forza comunista e, se non opportunamente e costantemente combattute, la conducono all’insuccesso e alla rovina. Tali deviazioni sono l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo. Occorre dunque una riflessione specifica sul contesto e sulla nascita del PCd’I nel 1921.

Circa il significato e le circostanze di tale nascita bisogna dire che essa scaturisce: (a) dal rifiuto della guerra imperialistica; (b) dal rifiuto del riformismo e del revisionismo; (c) dal rifiuto dell’opportunismo centrista dei cosiddetti “massimalisti unitari” (Serrati e Lazzari), che aveva trovato la sua espressione emblematica nello slogan semi-opportunista del “né aderire né sabotare”. Ma ciò non basta, poiché occorre aggiungere che la scelta radicale, certamente giusta ma altrettanto certamente tardiva, della scissione dal PSI e della costituzione del PCd’I poggiava su due tesi positive dedotte dall’esempio dell’Ottobre sovietico: (d) trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile rivoluzionaria (quindi costituzione non solo di un apparato politico ma anche di un apparato militare); (e) accettazione dei Ventun Punti enunciati dal II Congresso dell’Internazionale Comunista, il che significava – e significa ancor oggi – (f) accettazione della teoria della rivoluzione proletaria in generale, della teoria e della tattica della dittatura del proletariato in particolare.

 

Tesi n. 4

Nella ricostruzione dialettica di un processo è importante individuare i punti nodali che segnano un salto di qualità (o una tendenza crescente verso tale salto). In questo senso, se il discorso di chiusura di Togliatti al VII Congresso dell’Internazionale (1935) non fu oggetto di critiche da parte della direzione comunista e di Stalin, questo non significa che esso, accanto ai molti elementi validi, non recasse i primi segni premonitori del successivo cedimento opportunista, ossia della tendenziale conversione di una tattica di azione politica (il “fronte popolare”) in una strategia di lungo periodo (la cosiddetta “società intermedia”). È proprio questo l’aspetto che va sottolineato nei passi di quel discorso in cui Togliatti giunge a negare il rapporto di inseparabilità tra la guerra e il capitalismo.

Infatti, anche per l’opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Parimenti, il medesimo processo di corrosione degenerativa delle basi del marxismo-leninismo porterà Togliatti, vent’anni dopo, a teorizzare la c.d. “via italiana al socialismo” e, a quel punto, come si può osservare ancor oggi tra i suoi attuali epigoni, la sigla PCI stingerà il suo significato in quello di “partito costituzionale italiano”. Sennonché, quando si discute di Togliatti e della politica semi-opportunista da lui perseguita a partire dalla “svolta di Salerno” (marzo 1944), è opportuno rammentare anche il suo atteggiamento nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese, che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform nel 1947. Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra imperialista, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana).

Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. Diario politico. 1943-1948, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al leader italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose “che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale” e che “gli sembrava che l’indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l’amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia”. Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l’accompagnava: “Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po’ oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che sarebbe giunto gradualmente a realizzare un vero e proprio salto di qualità]… Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato… Ricordò che in questo spirito s’era sciolto il Komintern, che era stato l’organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione”.

In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Sennonché, come solevano dire gli antichi Romani, “extrema de antefactis judicant”.

 

Tesi n. 5

I comunisti, a differenza dei riformisti, non si propongono di apportare “cambiamenti” al sistema capitalistico, ma di rovesciarlo. Come? Mediante la conquista, ad opera del proletariato e dei suoi alleati, del potere politico di Stato, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la liberazione della società dallo sfruttamento del lavoro salariato. Abolendo la proprietà privata si creano le condizioni di base per determinare la progressiva scomparsa delle classi e, in ultima istanza, anche del proletariato in quanto classe, per giungere alla graduale estinzione dello Stato e all’autogoverno dei produttori che caratterizzano la fase avanzata del comunismo. Questo hanno insegnato Marx, Engels e Lenin. Non vi è bisogno né di una nuova elaborazione ideologica né di un ‘concreto’ programma politico formulato in vista di scadenze elettorali (è sufficiente, sul piano teorico e ideologico, la concezione del materialismo storico-dialettico e, sul piano economico e sociale, il programma esposto nel Manifesto del Partito Comunista).

È dunque il cammino tracciato dai classici del socialismo scientifico e realizzato dalla Rivoluzione d’Ottobre che va ripreso, combattendo con la massima energia l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo che, portando acqua al mulino delle forze borghesi e reazionarie, ostacolano e impediscono, nel movimento operaio e nel più generale movimento di classe, la valorizzazione, l’appropriazione e l’applicazione, nella situazione specifica del nostro paese, di un patrimonio teorico, ideologico e politico gigantesco.

 

Tesi n. 6

Il quadro della lotta di classe è cambiato: per le masse, come dimostra la crescente astensione dal voto, il sistema della rappresentanza politica che ha dettato a lungo, almeno in parte, i tempi della politica appare del tutto estraneo e lontano. Dal canto suo, il mondo della politica istituzionale polarizza la sua attenzione soltanto verso quei blocchi sociali che sono direttamente legati agli interessi del capitalismo, dei suoi circoli e dei suoi circuiti. Nella loro pochezza e nel loro squallore, che è proprio di una classe servente (non dirigente), gli stessi uomini politici dei partiti borghesi, del tutto sottomessi alle organizzazioni sovrannazionali dirette dagli esponenti del capitale finanziario (UE, BCE), confermano l’esistenza di un legame ferreo con le filiere del valore, con il profitto e con la rendita su scala continentale e mondiale. Dunque la stessa democrazia borghese ha cambiato pelle. La ‘governance’ è assicurata da un ristretto numero di consorterie collegate agli organismi politici, economici e militari sovrannazionali e protese a soddisfare gli appetiti e le volontà delle loro ristrette clientele. L’unico conflitto possibile in un simile contesto è dato allora dagli attriti momentanei che, volta per volta, sorgono tra le suddette clientele per la spartizione del plusvalore operaio. Si tratta, però, di attriti radenti, per usare il linguaggio della fisica, che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco dominante, il quale, al contrario, sulle scelte di fondo manifesta una compattezza monolitica (altro che “società liquida”!). Sicché il fatto che possa prodursi un momentaneo conflitto tra una frazione della borghesia e un’altra frazione è, in genere, del tutto inessenziale.

 

Tesi n. 7

Taluni studiosi hanno individuato nella “sproporzione” tra industria produttrice di beni di produzione e industria produttrice di beni di consumo la causa della crisi economica del sistema sovietico. Sennonché tale approccio implica il riproporre la visione gradualista e mercantilista di Bucharin, prescindendo del tutto dalla dinamica della lotta di classe che continua a svolgersi nella società socialista e che assume molteplici manifestazioni. Un aspetto fondamentale della lotta di classe – la lotta sul “terzo fronte” di engelsiana memoria – è, per l’appunto, la lotta per l’egemonia della concezione comunista. E su questo terreno strategico il moderno revisionismo non ha mancato di esplicare la sua azione disgregante. Ciò si può constatare con particolare evidenza prendendo in considerazione la problematica inerente al “sistema dei bisogni”. E’ noto che esistono molti esempi che dimostrano come il “sistema dei bisogni” che caratterizza i paesi più avanzati sotto il profilo tecnologico ed economico rappresenti un modello per i paesi meno avanzati. Marx era ben consapevole di tale meccanismo mimetico e proprio per questo concepiva la realizzazione del comunismo come strettamente connessa a un alto livello di sviluppo delle forze produttive e a una prospettiva storico-mondiale, in quanto solo un siffatto sviluppo e una siffatta prospettiva sono in grado di garantire il soddisfacimento multilaterale, quindi non solo estensivo ma anche intensivo, dei bisogni materiali. Giovandosi della “terza rivoluzione” tecnologica, microelettronica e informatica, e di una sistema globale di produzione e di scambio, il capitalismo monopolistico è stato, ed è tuttora, in grado di produrre un’enorme offerta di merci, con cui esso plasma e orienta i bisogni della popolazione.

Naturalmente, il capitalismo monopolistico può fare questo non solo al prezzo di uno sviluppo unilaterale delle capacità umane, ma anche e soprattutto al prezzo di una crescente contaminazione della natura e dello sfruttamento spietato di vasti strati sociali e di interi popoli, ossia di quei soggetti che, pur producendo la ricchezza, sono esclusi dal suo godimento. Orbene, le società socialiste si basavano storicamente su un altro sistema di bisogni, ma persero la battaglia per l’egemonia poiché non riuscirono a depotenziare la seduzione di massa esercitata da un modello socio-economico, quale è quello instaurato dal capitalismo monopolistico, che riduce la ricchezza al godimento consumistico. Imboccando la strada della competizione economica fra i due sistemi, riassunta nella parola d’ordine “raggiungere e superare”, i paesi socialisti in cui, dopo la morte di Stalin, il moderno revisionismo era giunto a impadronirsi del potere politico di Stato, per un verso non poterono valorizzare in misura adeguata il modello socialista fondato su avanzate conquiste sociali e culturali, mentre, per un altro verso, essendo impegnati prima nello sforzo dell’emulazione e poi nel raggiungimento dell’equilibrio militare a livello degli armamenti termonucleari, si trovarono a dover fronteggiare, oltre all’‘hard power’ dell’imperialismo, il ‘soft power’ di esso imperialismo a livello dei modelli produttivi orientati sui ‘consumi individuali di massa’.

Ma, una volta imboccata quella strada, la conseguenza inevitabile era la rinuncia a costruire un’alternativa orientata da una concezione comunista del mondo, vale a dire dalla negazione determinata del modello capitalistico: quell’alternativa che il Partito socialista unificato della Germania democratica (SED) aveva riassunto felicemente nella parola d’ordine “superare senza raggiungere”. Fu così che, persa la battaglia per l’egemonia della classe operaia, si aprirono varchi sempre più ampi all’infiltrazione delle ideologie borghesi e a una progressiva penetrazione e affermazione di moduli e modelli neopositivisti, chiaramente desunti dalle scienze dei paesi occidentali e quindi improntati a una crescente parcellizzazione della ricerca scientifica, laddove l’aspetto negativo non era costituito dall’interscambio scientifico, senza il quale la scienza non è possibile, ma dall’abbandono del punto di vista critico e, nel contempo, unificante rappresentato dalla teoria marxista, dapprima schematizzata, poi immiserita e infine sostituita dalla passiva ricezione delle interpretazioni borghesi associate a conoscenze, per altri versi, utili e necessarie.

È quindi opportuno sottolineare che il marxismo è una concezione “totalitaria” del mondo, proprio nel senso di Labriola ripreso da Gramsci: «Solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Torino 1975, p. 1051). E invero l’autonomia teoretica e il metodo della critica immanente nella battaglia delle idee contro il pensiero borghese, piccolo-borghese e revisionista costituiscono nel marxismo quell’unità degli opposti in cui consiste la sua dirompente forza dialettica.

Riproporre oggi il marxismo come teoria di portata complessiva, “totalitaria” nell’accezione gramsciana, significa pertanto non solo cogliere un aspetto sovrastrutturale la cui carenza ha contribuito a determinare la sconfitta di un certo numero di esperienze di costruzione del socialismo, non solo individuare un ‘momento’ essenziale del moderno revisionismo che si esprime perfino in posizioni verbalmente o formalmente opposte a esso, ma anche elaborare una concezione scientifica del mondo, quindi una concezione fondata sugli interessi universali della specie umana e sugli interessi collettivi della popolazione (non su quelli di alcuni individui), combattendo la tendenza a disintegrare la coscienza sociale in una miriade di scelte arbitrarie spacciate come manifestazioni di libertà. Se dunque il pluralismo e l’eclettismo rientrano in una strategia funzionale alla difesa dell’egemonia di classe della borghesia, il marxismo non può che contrapporsi ad essi in nome di una concezione ‘totalitaria’ fondata sul carattere universale della razionalità scientifica. E’ il contrario di ciò che avviene oggi con l’ideologia borghese, la quale, dovendo negare e combattere contenuti essenziali della sua stessa tradizione, dà luogo a quella crisi di senso e di valori che si trascina, sempre più stancamente e sempre più sterilmente, a partire dalla ‘Nietzsche-Renaissance’ per giungere fino alle attuali correnti ‘postmoderne’.

 

Tesi n. 8

Per i comunisti il giudizio sulle società socialiste del XX secolo non è un feticcio, ma uno spartiacque ideologico e politico a partire dal quale è possibile riprendere un discorso di ampio respiro sull’intera esperienza del movimento operaio e comunista internazionale. Ripartire da lì ha quindi il carattere di una sfida, in quanto significa sia confutare il punto di vista che, grazie al revisionismo storico (= rovesciamento dei giudizi consolidati sulla storia del movimento comunista), si è andato affermando attraverso la vacua nozione liberal-borghese di “totalitarismo”, sia combattere l’anticomunismo ‘di sinistra’ che, attraverso la lente deformante dell’‘antistalinismo’, ha rovesciato la lettura materialistica degli avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Il crollo dell’URSS e la controrivoluzione in questo e negli altri paesi dell’Europa orientale; la degenerazione, prima, e la liquidazione, poi, di tanti partiti comunisti, tra cui il PCI, hanno reso più difficile il compito di quei nuclei di comunisti che hanno resistito e continuano tenacemente a remare controcorrente. Giova inoltre sottolineare che il termine “comunista” è servito spesso in questi anni a organizzazioni e a personaggi, puntualmente concordi con il pensiero dominante nell’interpretazione del comunismo novecentesco, per contrabbandare posizioni che nulla avevano e hanno a che fare con la teoria e con la prassi dei comunisti. È così accaduto, a causa della pressione congiunta del ‘pensiero unico’ e di un ripiegamento sempre maggiore rispetto a posizioni coerentemente comuniste, che, proprio nel momento in cui la crisi della società capitalistica ha creato le condizioni oggettive di una trasformazione potenzialmente rivoluzionaria, ha sempre più guadagnato terreno il revisionismo politico-ideologico (= abbandono dei princìpi teorici del socialismo scientifico + cedimento politico e ideologico all’avversario di classe).

Ripartire dal socialismo realizzato, che è parte integrante dell’esperienza storica del proletariato mondiale, è allora un atto di chiarezza e di rottura con le correnti revisioniste, neo-trotzkiste e movimentiste, che ancora influenzano pesantemente le posizioni politiche e le forme di organizzazione pur antagoniste che si sono andate sviluppando negli ultimi decenni, ma che, per quanto concerne i conflitti interpretativi del movimento comunista, accettano il punto di vista della borghesia e contribuiscono a promuoverlo. Ripartire dal socialismo realizzato, che non va soltanto studiato e criticato, ma anche difeso e valorizzato, è altresì un atto di chiarezza e di contestazione nel campo della cultura, ove il connubio tra revisionismo storico e revisionismo politico-ideologico rischia di produrre frutti velenosi anche dal punto di vista estetico ed educativo. E questa è, in una congiuntura segnata dal galoppante processo di fascistizzazione come quella attuale, una ragione in più per mettere in guardia dal revisionismo e invitare i militanti comunisti e gli studiosi onesti a studiare ed approfondire la storia delle società socialiste del XX secolo.

 

Tesi n. 9

A chi, nel corrente dibattito politico-ideologico, si attarda a formulare l’incongrua alternativa tra “rivoluzione graduale” e “rivoluzione violenta” è d’uopo ribattere che tale alternativa non sussiste. Corretta è invece l’alternativa tra riforme e rivoluzione, alla quale si deve rispondere che i marxisti puntano alla seconda, ma non rifiutano le riforme “come acconti rispetto alla presa del potere” (Engels), purché non si tratti di qualsiasi riforma o del riformismo inteso come panacea politica. Semmai, a partire da Marx, essi vedono tali riforme in una prospettiva più radicale e di più lungo periodo. In effetti, per quanto le riforme possano essere di vitale importanza, Marx e i marxisti sanno che prima o poi si raggiunge un punto in cui il sistema chiude ogni ulteriore passaggio, e questo punto è ciò che il marxismo conosce con il nome di rapporti sociali di produzione.

In altri termini, come Marx ed Engels compresero tirando le somme dell’esperienza rivoluzionaria (e della repressione controrivoluzionaria) della Comune, la classe dominante non cederà mai pacificamente il potere. E’ solo allora che si profila la scelta decisiva tra riforme e rivoluzione. In definitiva, per servirci di un’efficace similitudine, si può sbucciare una cipolla strato dopo strato, ma non è possibile scuoiare una tigre artiglio dopo artiglio.

Per quanto riguarda invece l’atteggiamento dei marxisti verso la democrazia parlamentare borghese, esso è tatticamente legato ai rapporti di forza tra le classi: se tale democrazia può contribuire a realizzare i loro obiettivi, tanto meglio, fermo restando che i marxisti hanno delle riserve riguardo a un sistema nel quale le persone comuni sono persuase a delegare in modo permanente il proprio potere, e sul quale hanno un controllo molto ridotto. Il parlamento è infatti parte di uno Stato la cui funzione è quella di garantire la sovranità del capitale sul lavoro. Come ha scritto Marx, il parlamento e lo Stato non rappresentano la gente comune, quanto piuttosto gli interessi della proprietà privata capitalistica. Ergo, nessun parlamento in un sistema capitalistico oserebbe scontrarsi contro l’enorme potere di questi interessi costituiti.

Per quanto riguarda infine la tendenziale riduzione della strategia alla tattica, cavallo di battaglia dei riformisti, essa è un esempio paradigmatico di opportunismo proprio nell’accezione engelsiana del sacrificio dei princìpi in cambio di vantaggi immediati per questo o quel settore del proletariato.

In conclusione, bisogna rispondere a una domanda chiave: qual è stato il problema centrale di Marx nella sua elaborazione del socialismo scientifico? La risposta è inequivocabile: fissare un punto di vista obiettivo sulla realtà sociale che rivelasse la direzione del suo movimento, allo scopo di intervenire in essa per trasformarla. Qui è opportuno precisare che non si tratta di un intervento illuministico, poiché il soggetto della trasformazione è una forza sociale che fa parte in modo essenziale di quel movimento e che nel contempo è antagonistica al sistema, cioè potenzialmente rivoluzionaria. In definitiva il tema che di continuo Marx ci ripropone è quello della trasformazione del mondo, affidata a determinate forze sociali che divengono coscienti del compito: cioè il tema della rivoluzione. Ciò che caratterizza Marx è che egli ce lo ripropone a partire dall’analisi scientifica di una società capitalistica la quale, per quanto notevolmente trasformata, esiste oggi nella maggior parte del mondo. In questo senso, strategia rivoluzionaria e analisi scientifica si influenzano reciprocamente in base ad un punto di vista stabilito non da un sistema sociale che non esiste ancora (il comunismo), ma dalla problematica del passaggio ad esso. Dunque, la teoria marxista, che è il risultato di una generalizzazione della prassi del movimento di classe, è “una guida per l’azione” e, come tale, procede attraverso una riduzione del contingente al necessario, poiché il “movimento reale”, di cui parla Marx ripensando Hegel, ha nella contingenza solo uno dei suoi ‘momenti’ ma non il suo ‘fondamento’. Del resto, come precisa ancora Marx, «se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è [contingenza], le condizioni materiali della produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi [necessità], tutti i tentativi di farla sal­tare [prassi rivoluzionaria] sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi». E però chi non riesce a cogliere il punto archimedico in cui l’analisi scientifica e la strategia rivoluzionaria si compenetrano, non comprenderà mai il socialismo scientifico e correrà come un criceto nella ruota.

 

Tesi n. 10

Premesso che la storia non è un progresso verso una maggiore umanità e libertà, ma solamente un aumento della possibilità di tale progresso, proviamo a definire alcuni lineamenti dell’avvenire. Il suo nome è sempre “comunismo”, laddove si tratta di una società senza differenze di classe e senza ostilità delle nazioni le une verso le altre, di una “associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” (Manifesto del Partito Comunista). Da questo punto di vista prospettico, l’elemento antiutopistico del socialismo scientifico consiste unicamente nel fatto che il positivo non può divenire concreto fino all’ultimo, e quindi deve rimanere generale ed astratto. In questa generalità, tuttavia, esso è già sufficientemente concreto, per poter servire, se non come modello, certo come filo conduttore.

Dalle affermazioni sparse di Marx e di Engels risulta un concetto in parte direttamente positivo, in parte indirettamente negativo, della futura società comunista, i cui elementi più importanti sono i seguenti: a) il fondamento istituzionale è la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, che vengono pianificati, amministrati e sviluppati dai produttori associati; b) la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere una delle contraddizioni fondamentali – e, nella fase di transizione, quella principale – del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendone il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società); c) l’energia produttiva materiale dei mezzi di sussistenza è talmente sviluppata, che la carenza dei mezzi di sussistenza viene ad essere completamente superata, e diviene possibile in misura sempre maggiore la soddisfazione generale dei bisogni, anch’essi ampiamente sviluppati; d) la tecnologia più evoluta richiede, e l’aumentata produttività consente, un grado di istruzione generale, che favorisce, nell’ambito della produzione, il superamento della “vecchia divisione del lavoro”, e specialmente della “grande” divisione tra attività intellettuali, creative, direttive e attività manuali, ripetitive, esecutive, come anche e) elimina, nell’amministrazione della cosa pubblica, l’elemento della dominazione e sostituisce l’attuale divisione tra governanti e governati con un autogoverno comune; f) la ricchezza e l’alto sviluppo culturale su base più ampia permettono di armonizzare la convivenza sociale degli uomini su scala planetaria e di arrivare così alla fine delle lotte di classe e dei conflitti internazionali. Una volta chiarito che il comunismo non tende all’epifania storica dell’‘ens perfectissimum’, poiché la “promessa marxista” rimane interamente in misure e confini definiti, ciò che richiede un’ulteriore precisazione, anche alla luce delle esperienze storiche delle società di transizione, sono le forme istituzionali, nelle quali si realizza l’autodeterminazione collettiva di soggetti che vanno considerati non soltanto individui eguali, ma anche egualmente individui.

In definitiva, il progetto comunista di un ordinamento sociale senza classi è motivato negativamente dalle diverse privazioni, di cui soffre una parte rilevante dei membri della società sotto il sistema capitalistico per effetto di una struttura storicamente determinata di impulsi, di bisogni e di esigenze, che esprimono determinati gruppi di uomini. Per converso, il progetto comunista è motivato positivamente dalla ricchezza di mezzi dell’industria moderna, nella quale, attualmente o in prospettiva, è contenuta la fine di quelle privazioni.

 

Tesi n. 11

Il presupposto a cui sono avvinghiati i sostenitori, più o meno disincantati, del mondo capitalistico occidentale e della ‘pax americana’ è quello che si riassume nel ritenere che comunismo e libertà siano incompatibili. Mi servirò, pertanto, di un’ipotesi biografica controfattuale (ovvero di un’ipotesi ucronica) per formulare una posizione antitetico-speculare: l’obiettivo della lotta per il comunismo è una società senza classi e questa è l’espressione più alta e più organica della libertà umana (cfr. tesi n. 10).

Ritengo, infatti, che occorre sempre sapere non solo da che parte si sta (e io sto dalla parte della classe operaia e di tutti i popoli e i paesi che si battono per la loro indipendenza e la loro liberazione dall’imperialismo), ma anche da che parte si sarebbe stati. Sempre, beninteso, per dirla con Bertolt Brecht, “dalla parte del torto, essendo gli altri posti già tutti occupati”. Così, durante la prima guerra mondiale sarei stato il contadino russo che aderiva alla parola d’ordine rivoluzionaria di Lenin, il quale incitava a sparare non contro il soldato operaio tedesco, ma contro i generali zaristi; durante il “biennio rosso” avrei occupato le fabbriche; il 21 gennaio del 1921 a Livorno mi sarei spostato dal teatro Goldoni al teatro San Marco; dopo il 1925 sarei diventato un militante antifascista clandestino; sarei andato poi a combattere in Spagna con le brigate internazionali organizzate dai comunisti; a partire dal settembre del 1943 sarei andato in montagna a combattere nelle file della Resistenza contro il nazifascismo; e dopo la cosiddetta “Liberazione” avrei continuato a combattere per fare dell’Italia una repubblica fondata sui lavoratori.

Queste sono le scelte che avrei fatto se fossi appartenuto alle generazioni che hanno lottato, spesso sacrificando la loro vita, per il comunismo e per la libertà. Davvero, somiglia a Babbitt (il tipo dell’americano medio rappresentato dallo scrittore Sinclair Lewis nell’omonimo romanzo) chi disprezza, ignora o rimuove una simile epopea: un Babbitt anche rispetto al modello di civiltà in nome del quale pensa di dover contrapporre quelle due idee, poiché dimostra di non sapere (e di non comprendere) che, senza la rivoluzione sovietica, la libertà dal bisogno, sostanza reale di tutte le altre libertà, non sarebbe mai stata né proclamata da Roosevelt nel discorso sulle ‘Quattro libertà’ (6 gennaio 1941), né riaffermata, insieme con Churchill, nella ‘Carta Atlantica’ (14 agosto 1941), né sancita nella ‘Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’ (10 dicembre 1948), né posta al centro, pur con tutti i suoi limiti, della nostra stessa Costituzione (1° gennaio 1948).


Note
1. Alcune notizie qui: https://operavivamagazine.org/tag/laconferenzadiromasulcomuni­smo/.
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Eros Barone
Monday, 30 June 2025 16:17
Per chiarire il rapporto tra i due processi – socialismo e comunismo – e valutare il modo in cui opera concretamente la legge del valore in differenti formazioni economico-sociali ritengo che sia preliminare, per dare concretezza alla categoria di lavoro alienato e per fondare tale rapporto alla luce dell’esperienza storica, prendere le mosse da un’importante discussione sulla legge del valore e sulla pianificazione centralizzata dell’economia nazionale: discussione che ebbe luogo all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, quindi nel vivo di un processo rivoluzionario che aveva operato il salto di qualità della presa del potere, fra Ernesto Che Guevara, ministro dell’Industria dello Stato cubano dopo la svolta in senso socialista compiuta dalla rivoluzione, ed economisti cubani e stranieri, fra i quali merita di essere citato l’economista francese Charles Bettelheim. D’altra parte, la questione della transizione socialista, se per un verso è quella sul cui terreno si manifesta con grande evidenza nei paesi occidentali, sia a livello storico che a livello teorico, la subalternità dei rivoluzionari all’ideologia borghese, per un altro verso è una questione centrale per i comunisti dei paesi imperialisti dal momento che questi ultimi, in linea generale e salvo isolate e circoscritte eccezioni, non hanno più saputo esporre il loro programma articolandone i contenuti alla luce della crisi generale del capitalismo e tenendo conto degli insegnamenti che vanno tratti dalle esperienze concrete della transizione socialista che hanno caratterizzato il XX secolo e i primi venticinque anni del XXI. Da questo punto di vista, quello che colpisce – e che rivela l’immaturità di buona parte dei comunisti – consiste in ciò, che essi non hanno mai saputo porre la questione se non nei termini astratti e libreschi della abolizione del denaro, così come della legge del valore e della produzione mercantile, riproponendo in buona sostanza i contenuti e le forme del periodo del “comunismo di guerra” in Unione Sovietica. Sennonché, fino a quando le basi materiali dell’esistenza del denaro e della produzione e circolazione delle merci non vengono comprese, non è neppure possibile comprendere le condizioni della loro soppressione nella transizione verso il comunismo (e altrettanto dicasi per altre fondamentali questioni come la divisione tra lavoro intellettuale e manuale, tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, tra produzione socializzata e produzione individuale, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo). La questione dei fondamenti teorici della transizione può invece essere affrontata prendendo le mosse da un passo del terzo libro del “Capitale” (cfr. la Seconda sezione sulla “Trasformazione del profitto in profitto medio”) in cui Marx, esaminando la legge del valore, prospetta, quale forma di scambio, quella di una società in cui gli operai siano essi stessi proprietari dei mezzi di produzione e quindi le merci non siano prodotti del capitale. Sennonché anche in una società comunistica di produttori associati i quali scambiano reciprocamente i prodotti del loro lavoro sussisterebbe una diversità della composizione tecnica del capitale pur socializzato. In questo tipo di società, poiché il tempo di lavoro dovrebbe essere uguale per tutti e, di conseguenza, i valori nuovi incorporati nelle merci dal lavoro sarebbero anch’essi uguali, i valori delle merci varierebbero solo in quanto, per adottare l’ottica capitalistica, varierebbero i saggi di profitto (ossia il rapporto tra il plusvalore e il valore complessivo dato dalla somma del capitale costante e del capitale variabile). Ma per i produttori di una siffatta società questa variazione non avrebbe alcuna influenza. Essi avrebbero infatti i loro eguali mezzi di sussistenza, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama salario, ed inoltre riceverebbero eguali frazioni di valori, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama plusvalore. In questo tipo di società la cui riproduzione è regolata razionalmente dall’autogoverno dei produttori, i profitti non avrebbero quindi alcun ruolo da esplicare e «la differenza del saggio del profitto sarebbe dunque nell’ipotesi fatta senza importanza, precisamente come per l’operaio salariato è oggi indifferente quale sia il saggio del profitto che corrisponde al plusvalore che gli è estorto, e precisamente come nel commercio internazionale la differenza dei saggi del profitto non interessa le diverse nazioni che scambiano i loro prodotti». Pertanto, in una società comunistica di liberi produttori il problema sarebbe soltanto quello di acquisire collettivamente il corrispettivo di ciò che nella società capitalistica si chiama salario e plusvalore, detraendo dal valore il capitale costante necessario al ricambio organico con la natura. Certamente, essendo diversi i valori delle merci, il produttore che lavora là dove la frazione di valore dei mezzi di produzione è maggiore avrebbe bisogno di fare degli anticipi maggiori che, argomenta Marx, «sarebbero rimborsati da una frazione maggiore del valore della sua merce, che sostituisce questa parte costante ed in conseguenza...sarebbe costretto a riconvertire una parte più cospicua del valore complessivo del suo prodotto in elementi materiali di questa parte costante». Per converso, il produttore che lavora là dove è minore la frazione dei mezzi di produzione impiegati e maggiore la frazione di lavoro vivo «incasserebbe...una parte minore, ma avrebbe anche meno da riconvertire». Questo significa che in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà collettiva e sono regolati dai produttori associati il problema del profitto non esiste in quanto non sorge il problema del rapporto tra il plusvalore e la totalità del capitale investito, mentre l’importanza del capitale costante si riduce al problema tecnico della ricostituzione (o dell’incremento) delle condizioni di base della riproduzione. Nella società comunistica il calcolo del valore passa quindi attraverso la separazione dei due suoi componenti (capitale costante e capitale variabile) con la correlativa destinazione del capitale costante allo sviluppo umano. In questo senso, non è difficile capire che oggettivamente il capitalismo sviluppato non è che la gestazione di questa separazione. D’altronde, in queste pagine del III libro del "Capitale" Marx riprende e approfondisce un tema analogo svolto nel I libro (cfr. la Prima sezione su “Merce e denaro”), là dove egli delinea «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale». Nel III libro del "Capitale" (in questo passo che ha un’importanza centrale ai fini della comprensione dell’idea di valore) Marx riprende dal I libro proprio questa ipotesi e se ne avvale per dimostrare che in una società siffatta non sorge più il problema del profitto, ma solo quello della destinazione di ciò che nella vecchia società si chiamava salario e plusvalore. Tale ipotesi getta una viva luce sulla concezione marxiana del funzionamento della legge del valore nella società comunistica. Il problema allora non è quello di restaurare la legge del valore nella forma che ha caratterizzato la società nell’epoca del comunismo primitivo, ma è quello di instaurare un uso sociale delle forze produttive che assicuri la disponibilità individuale di ciò che, nel linguaggio mutuato dalla vecchia società, Marx chiama salario o plusvalore. Pertanto ciò che resta naturale e, in un certo senso, eterno non è la legge del valore nella forma in cui essa appare nella circolazione semplice, ma è qualche cosa di più profondo e di meno storico che si esprime nella tautologia secondo la quale ogni prodotto vale come oggettivazione del lavoro umano. Di conseguenza, il modo come tale legge naturale eterna si configura nella società comunistica non ha più bisogno di quel rapporto il cui rispecchiamento è dato dal profitto e il cui aggiustamento è imposto dal mercato, poiché, avendo come assi di riferimento l’appropriazione del plusvalore da parte dei lavoratori associati e la pianificazione razionale del ricambio organico con la natura, non è più mediato da rapporti formali, ma dall’intelletto sociale dei produttori.
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Carlo Tarsitani
Sunday, 29 June 2025 11:11
Pongo un problema al livello concettuale fondazionale. Quando si discute sull'uso del termine "comunismo" si deve, per esempio differenziarlo dall'uso del termine "socialismo", che si riferisce a un ambito processuale diverso. Sono convinto che quando si parla dell'esperimento validissimo ma perfettibile del "socialismo reale", il termine "socialismo" è usato correttamente, poiché è noto che il "socialismo reale" non è il "comunismo", bensì lo stadio di mediazione verso il "comunismo". Quindi è corretto formulare tesi per un partito che voglia definirsi "comunista", ma queste tesi non definiscono il comunismo cui Marx accenna fin dalle opere giovanili. Credo allora che il discorso sul "comunismo" debba partire dall'esposizione marxiana della realtà del "lavoro alienato".
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Eros Barone
Saturday, 28 June 2025 15:31
Rispondo alla domanda posta da Giancarlo Allegrone, che ringrazio per il suo interessante commento. Il Pci di Togliatti, di Longo e di Berlinguer è stato un partito revisionista e borghese, che, con il pretesto di “rivedere” il marxismo per adattarlo alla realtà italiana (la cosiddetta “via italiana al socialismo”), buttò a mare il marxismo-leninismo e accettò interamente le teorie riformiste e l’ideologia borghese, sostituendo alla lotta di classe la collaborazione fra le classi. Dopo la fine della Resistenza, che nella sua componente più avanzata e proletaria aveva posto con decisione obiettivi di contenuto anticapitalistico e rivoluzionario, il Pci togliattiano, collaborando al governo con i partiti borghesi, li aiutò a disarmare i partigiani e a restituire le fabbriche ai padroni che ne erano stati cacciati, frenò le rivendicazioni economiche dei lavoratori e dei disoccupati e indicò come compito del proletariato non la rivoluzione socialista, ma la “ricostruzione nazionale”. La ricostruzione avvenne e fu la ricostruzione del sistema capitalistico e dello Stato borghese, sulle spalle e col sacrificio dei lavoratori. Dopo il grande ciclo di lotte operaie e popolari degli anni ’60-’70, durissima fu la reazione della borghesia: la trama reazionaria antiproletaria fu caratterizzata da stragi, attentati golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La “strategia della tensione e del terrore” fu l’arma con cui la borghesia cercò di intimorire e di disorientare il proletariato, per fermarne il movimento di lotta. I dirigenti revisionisti (che si erano limitati a cavalcare e controllare le lotte operaie), intimoriti dalla reazione borghese e terrorizzati dal colpo di Stato militare in Cile che aveva dimostrato il fallimento delle loro teorizzazioni riformiste sulla “via pacifica al socialismo”, elaborarono, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del “compromesso storico”, cioè del patto di governo organico con la Democrazia Cristiana. Questa strategia smascherò completamente la natura collaborazionista e controrivoluzionaria dei revisionisti. La politica di “unità nazionale” berlingueriana modificò profondamente il rapporto di forza tra le classi in Italia, indebolendo in modo gravissimo il proletariato e le masse lavoratrici, rafforzando padroni, DC e Stato borghese, e creando le condizioni e le premesse per la violenta controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio. La trasformazione del Pci in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il Pci fosse un “corpo sano” con una “testa malata”). Questi dirigenti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia, degli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. “Oggi – osservava Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti”.
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Giancarlo Allegrone
Friday, 27 June 2025 17:41
Complimenti per l'acutezza storico politico del contributo. Entrare nell'argomentazione non è facile. Comunque vorrei sottolineare due punti. Esiste un documento, nel sito di Jstor, https://www.jstor.org/stabile/20564415, particolarmente interessante. Il punto è che in tanti si richiamano alla "svolta di Salerno", non sapendo che a Napoli, c'è stato il primo Consiglio Nazionale del Pci, del NUOVO Pci, dal 31 marzo al 1 aprile del 1944. Tra l'altro in una sede del Pci che aveva appena avuto una scissione a sx. Il documento si basa su un resoconto curato da Maurizio Valenti. Alcune frasi, di Togliatti, incredibili, "La nostra Marina si batte ma sul fronte siamo assenti".. Allora quale è la questione che i comunisti che combattono nella resistenza sono stati esclusi. Togliatti l'uomo della Costituzione. Ma la "nostra" legge primaria, occulta dei poteri, perché oltre al parlamento, governo, magistratura, c'è il vaticano e il governatore della banca d'Italia, il potere finanziario. Inoltre, per quanto sia avanzata la costituzione, la sua applicazione passa attraverso i codici civili. Però guarda caso, Ercoli ha accettato i codici promulgati durante il fascismo, ovviamente emendati dai riferimenti al ventennio. Perciò per quanto avanzata fosse la legge primaria, quale applicazione poteva realizzare. Domanda cosa era il partito comunista italiano, feste e diffusione dell'unità?
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Lella
Tuesday, 24 June 2025 20:36
La dialettica nel marxismo unitamente al materialismo storico sono i principi che mi fanno pensare realizzabile una umanità sempre più libera da manipolazioni e da condizionamenti fondati su una antica ingiustizia sociale e sull accaparramento della ricchezza in poche mani. Perciò analisi come la sua, prof. Barone, insieme ai libri di Brancaccio Giacché e tanti altri, contribuiscono a svelare il senso di una struttura di pensiero senza la quale il mondo rimane incomprensibile e le anomalie riscontrate restano campate per aria senza alcuna radice nella realtà. Recentemente ho sentito l affermazione di un "capitalismo age'e", come di un superamento di un linguaggio ormai inutile per capire la realtà della disuguaglianza e del decadimento dei diritti. Invece il marxismo è più che mai necessario davanti alla progressiva proletarizzazione del lavoro anche qualificato, alla finanziarizzazione dell economia da cui non si tornerà indietro, alla progressiva concentrazione dei capitali, alle crescenti contraddizioni planetarie a cui ci porta il capitalismo per non parlare della disumanizzazione conseguente alle prossime applicazioni della tecnologia. Il problema è portare il marxismo alla conoscenza di strati sempre più larghi del mondo del lavoro anche perché il capitalismo sta perdendo il fascino liberal con cui molta sinistra è caduta in un abbaglio veramente patetico. Mentre il nesso capitalismo -guerra è sempre più abbagliante e inquietante per cinismo e spietatezza. La sua analisi andrebbe studiata e discussa, in particolare per il passaggio sulla mediazione, che lascia spazio a molte osservazioni sulla deriva della attuale sinistra. Perciò credo sia meglio abbandonare questo ripiegamento che pare sotteso all invito all origine del suo intervento e invece rilanciare la forza di questa visione scientifica della realtà in tutte le sedi che si possano offrire a questo confronto.
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Michele Castaldo
Tuesday, 24 June 2025 11:30
Il povero Barone continua a divagare a vuoto sulle idee, incapace com'è di relazionarsi almeno una sola volta ai fatti.
La Russia, di cui il Barone è totalmente analfabeta, ha dovuto sperimentare sulla propria pelle il più grande tentativo della storia moderna di applicare il libero arbitrio, ovvero un programma ideale del comunismo a condizioni infami che un moto-modo di produzione mondiale che la travolgecon le sue leggi.
Se ci si sente vecchi a 76 anni non è per l'età, ma perché - caro Barone - non sei capace di affrontare i limiti dovuti al tuo ideologismo e continui a parlare a vuoto.
Capito mi hai?
MicheleCastaldo
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