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sovranitapopolare

Il mito del deficit

La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo

di Stephanie Kelton

ISBN LA MODERNA TEORIA DELLA MONETACare lettrici e cari lettori italiani,

in questo libro utilizzo le lenti della teoria monetaria moderna (Modern Monetary Theory, MMT) per mostrare che, contrariamente a quanto gli economisti mainstream e i politici ci raccontano da decenni, i governi che emettono la propria valuta (che detengono, cioè, la sovranità monetaria) non possono mai “finire i soldi”, né possono diventare insolventi (fare default) sui titoli di debito emessi nella loro stessa valuta. A dire il vero non hanno neanche bisogno di emettere titoli di Stato per finanziare i propri deficit di bilancio. Né hanno bisogno di ricorrere alla tassazione per finanziare le proprie spese. Questo perché, in quanto emittenti di valuta, a differenza delle famiglie e delle imprese, che sono dei semplici utilizzatori di valuta, gli Stati che dispongono della sovranità monetaria possono semplicemente creare “dal nulla” tutto il denaro di cui hanno bisogno. Questi governi, dal punto di vista tecnico, hanno una capacità di spesa illimitata nella propria valuta: possono cioè acquistare senza limiti tutti i beni e servizi disponibili nella valuta nazionale. (Come spiego nel libro, questo non implica che i governi che emettono la propria valuta debbano spendere o incorrere in deficit senza limiti; esistono dei limiti, solo che non sono di natura finanziaria).

Comprendere questa semplice verità equivale a fare un vero e proprio salto di paradigma, perché significa che la maggior parte dei paesi – e in particolare le nazioni industrializzate tecnicamente avanzate e altamente sviluppate che spendono, tassano e prendono in prestito nelle proprie valute inconvertibili (e adottano un regime di cambio fluttuante) – possono “permettersi” (letteralmente) di fare molto di più per incrementare il benessere dei propri cittadini e più in generale per perseguire qualunque obiettivo politico scelgano di prefissarsi (penso per esempio alla mitigazione del cambiamento climatico) di quanto comunemente si creda.

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coniarerivolta

Profitto contro stato sociale: la crisi accelera la resa dei conti

di coniarerivolta

banchettoÈ passato meno di un anno dallo scoppio della pandemia da Covid-19 in Italia. Ad oggi, nonostante i diversi vaccini messi a punto, siamo ben lontani dal poter parlare della fine dell’emergenza. Molti settori economici sono tutt’ora interessati da limitazioni e da vere e proprie chiusure. Alcuni dei servizi essenziali funzionano ancora a singhiozzo, come i servizi sanitari e la scuola. I contagi giornalieri sono ancora oltre diecimila in tutto il Paese e i morti si contano a centinaia ogni giorno. Anche la campagna vaccinale va a rilento.

In parole povere, il ritorno alla normalità sembra ancora lontanissimo, per molti aspetti. C’è, però, un ambito nel quale la normalità potrebbe tornare prima del previsto: quello della disciplina di bilancio. Il problema è che non è una buona notizia. Il termine disciplina, infatti, non ha nulla a che vedere con le presunte virtù che potrebbe evocare. Con disciplina di bilancio si identifica il rispetto del pareggio tra le entrate e le uscite dello Stato, un’imposizione che da quasi trenta anni soffoca la crescita economica, con conseguente aumento della disoccupazione, e che ha portato il Paese ad affrontare l’emergenza Coronavirus con un sistema sanitario fortemente indebolito. È il binario morto dell’austerità, tanto caro alle classi dominanti e all’Unione Europea, dal quale solo negli ultimi mesi, per effetto del crollo delle entrate fiscali e delle (insufficienti) misure tampone per l’economia, si è temporaneamente deviato. Ma la normalità, intesa come pieno ossequio di questo paradigma, pare dietro l’angolo.

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economiaepolitica

Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano

Un’analisi di lungo periodo

di Leonello Tronti

20202130jpg 326x245La lunga fase di declino economico dell’Italia si può sintetizzare nella “legge del meno uno”: dal 1995 in poi, l’economia cresce ogni anno (in media) un punto in meno dell’insieme dell’Eurozona. In questo deludente risultato quale ruolo svolgono gli investimenti? Per rispondere a questa domanda l’articolo sottopone a un’analisi di lungo periodo (1995-2019) l’indebolimento della funzione di investimento dell’economia italiana. L’analisi empirica è anzitutto comparativa con altri paesi europei, in termini sia di crescita del volume degli investimenti, sia dell’incidenza sul Pil, sia degli effetti sulla crescita. In tutti i casi si conferma il continuo peggioramento relativo della situazione italiana. Un altro aspetto di rilievo è quello della comune tendenza prociclica alla riduzione in rapporto al valore aggiunto degli investimenti pubblici e privati, con un più forte ridimensionamento di quelli pubblici. Nel caso del settore pubblico la riduzione è legata alle politiche di austerità che, in un paese caratterizzato da una spesa corrente elevata, hanno investito in misura crescente la spesa in conto capitale. In quello del settore privato si riscontra invece la compresenza di ragioni opposte: da un lato l’indebolimento della maggioranza delle imprese ad opera delle sfide tecnologiche, di apertura dei mercati globali e della moneta unica; ma dall’altro la creazione di un ambiente interno particolarmente se non eccessivamente favorevole, non solo in termini di costo del denaro e del lavoro (diretto e indiretto), ma anche di politiche contributive e fiscali attuate da governi di varia coloritura politica. In questa situazione, nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo, il saggio di profitto in rapporto al valore aggiunto si è fortunatamente dimostrato notevolmente stabile e resiliente.

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lordinenuovo

La “distruzione creatrice” del G30 di Draghi e l’intervento dello Stato come concentratore del capitale

di Domenico Moro

LON 20201221 202155 249307 660x400Ogni crisi è occasione per il capitale di ristrutturarsi. Questo vale a maggior ragione per la crisi odierna, che è la più profonda dal ’29 e imporrà cambiamenti che vanno studiati, dal punto di vista del lavoro salariato, per capire come si trasformerà il modo di produzione capitalistico e, di conseguenza, il terreno di lotta fra le classi.

In questo senso è interessante quanto emerge dall’ultimo rapporto del Gruppo dei Trenta (G30), un think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978, che fornisce consulenze sui temi di economia internazionale e monetaria[1]. Il G30 è formato da accademici e banchieri o ex banchieri provenienti dalle più importanti banche centrali mondiali. Tra di essi ci sono Mario Draghi, che fa parte del comitato direttivo, e Jean Claude Trichet, ex presidenti della Bce, Janet Yellen, ex presidente della banca centrale Usa, la Fed, ed ora ministro del Tesoro designato da Biden, Raghuram Rajan, ex governatore della Banca centrale dell’India, Yi Gang, governatore della Banca centrale cinese, ed economisti di fama mondiale come Kenneth Rogoff, Paul Krugman, e Laurence Summers.

La situazione economica attuale è descritta dal G30 in modo catastrofico: le economie mondiali si stanno avvicinando “al bordo di una scogliera”. Durante la presentazione del rapporto Draghi ha affermato che “Stiamo entrando in un’era nella quale saranno necessarie scelte che potrebbero cambiare profondamente le economie”. La domanda più importante è: “Chi dovrà decidere quali compagnie dovranno essere aiutate?”

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lafionda

Patrimoniale ed egemonia: c’è ancora spazio per il Welfare State in Italia?

di Giuseppe D'Elia

Gli italiani non hanno solo un problema con la tassazione della ricchezza accumulata. Il problema di chiunque voglia realizzare interventi basati sui pilastri costituzionali della solidarietà e dell’eguaglianza è che questi valori ideali sono stati letteralmente emarginati da decenni di propaganda individualista ed elitista

trickelDowndIl recente dibattito sulla patrimoniale, innescato da un emendamento alla Legge di bilancio di Orfini (PD) e Fratoianni (LEU), offre l’occasione per una riflessione più ampia sui valori costituzionali fondamentali della solidarietà e dell’eguaglianza e su come questi valori, e il correlato concetto di uno Stato sociale del benessere (Welfare State), siano stati messi ai margini da una cultura politica che si è fatta egemone, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso.

I due principi fondamentali sono entrambi assimilabili alla sfera del sociale e, in effetti, sono i due pilastri dei cosiddetti diritti sociali, in senso lato: «istruzione, sanità, pensioni, previdenza sociale (in caso di malattia, gravidanza, disoccupazione), servizi socio-assistenziali (per bambini e ragazzi senza famiglia, anziani, malati cronici e disabili)».

Il principio solidaristico, in particolare, è quello che propriamente si contrappone al più gretto individualismo: la solidarietà intesa come bene comune, interesse generale, prevalenza insomma di un’istanza sociale comunitaria sugli interessi dei singoli individui e/o di specifici gruppi più o meno organizzati.

L’art. 2 della Costituzione repubblicana postula l’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», subito dopo aver stabilito che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» ed è una scelta molto saggia questa: di grande equilibrio.

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coniarerivolta

Frenano i salari e corre l’export: la crisi accelera il cambiamento

di coniarerivolta

zerorenatoIn questi giorni, sfogliando le pagine dei giornali, capita di imbattersi in due notizie, apparentemente slegate tra loro. Alla base di queste due notizie ci sono due numeri, uno negativo ed uno positivo: -8,1% e +2,1%.

Il primo numero fotografa il crollo dei consumi registrato a settembre, rispetto allo scorso anno, dai radar di Confcommercio: l’associazione che unisce oltre 700.000 imprese del terziario rileva una forte caduta delle vendite che si concentra nei servizi ricreativi (-73%), nel turismo (-60%) e in bar e ristoranti (-38%). È l’immagine di una flessione economica che si protrae dal mese di marzo e che inizia ad assumere i connotati di una lunga depressione, con effetti potenzialmente devastanti per il tessuto produttivo. Piangono i piccoli commerci, molti dei quali non avranno la forza finanziaria per riaprire i battenti quando sarà passata la tempesta, ma non ridono i grandi centri commerciali, terrorizzati dalla prospettiva di veder sfumare le vendite natalizie, che rappresentano circa il 40% del loro budget annuale.

Voltiamo pagina e leggiamo l’altra notizia. Questa volta un dato, che sembrerebbe incoraggiante, proveniente dall’Istat: nel contesto della crisi scatenata dalla pandemia, le esportazioni del nostro Paese si muovono in controtendenza e crescono su base annua del 2,1%, con un’espansione più forte al di fuori dell’area dell’euro (+2,8%) in cui spiccano il +11,1% verso gli USA e il +33% verso la Cina, ma in aumento anche all’interno dell’Unione Europea (+1,4%) con importanti sbocchi verso la Germania (+6%).

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lafionda

Piketty, la patrimoniale e l’eredità universale

di Jacopo Foggi

tasse 2Per provare a convincere la maggioranza della popolazione che avrebbe tutto da guadagnare da una valida riattualizzazione dei valori socialisti e delle politiche che ad essi si ispirano, è necessario dedicare studio e attenzione non solo ai principi e ai concetti generali, ma molto, e direi soprattutto, anche alle analisi e alle proposte concrete fatte da studiosi rigorosi e seri. Uno di questi studiosi è senza dubbio Thomas Piketty. Qui ci dedicheremo alla sua proposta di tassazione sul capitale, che confronteremo con altre proposte dei tink tank Forum Disuguaglianze&Diversità e Proposta Neokeynesiana.

Una delle cose peggiori del dibattito italiano sulle imposte sui patrimoni – legata ovviamente al pessimo assetto monetario in cui ci siamo infilati, e all’altrettanto pessima qualità di fette importanti della nostra classe dirigente – è che se ne parla esclusivamente in occasione di più o meno autoimposte emergenze nazionali, con il fine preciso di aumentare la tassazione complessiva e tentare di recuperare la posizione di avanzo primario che, si dice, dovrebbe proteggerci da future crisi del debito (come se dipendessero esclusivamente da questo!). In questo modo, la patrimoniale diviene uno strumento estemporaneo e occasionale di “far pagare un po’ anche ai ricchi” il costo dell’aggiustamento necessario al rientro dalle “vacche grasse”; senza di fatto conseguire alcun obiettivo redistributivo e, quindi, di neutralità fiscale: la patrimoniale serve a ridurre il disavanzo. Punto. È evidente che tale modalità si sta ripresentando in questi giorni di pandemia, quando si sta già discutendo di rientrare dei disavanzi e limitare gli interventi della Bce.

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coniarerivolta

Chi paga la crisi? Come nasce l’attacco agli stipendi pubblici

di coniarerivolta

banfizalonegiuNegli ultimissimi giorni, da pulpiti diversi e in salse varie, ci è capitato di ascoltare e leggere lo stesso inquietante ritornello: tutti devono contribuire a pagare la crisi da Covid, gli effetti nefasti della pandemia non devono ricadere solo su quella parte di popolazione che ne subisce direttamente le conseguenze. Per scongiurare il pericolo che la diffusione del virus e le misure di contenimento colpiscano solo una parte della società, occorrerebbe dunque togliere qualcosa a chi ancora non è stato toccato da questa crisi. Benissimo, diremmo: andiamo a prendere i soldi dagli sciacalli e dai profittatori che in questi mesi hanno visto le loro ricchezze crescere ancora. E invece no: chi ci propina questa solfa suggerisce di andare a mettere le mani nelle tasche dei dipendenti pubblici e, più in generale, di chi ha un lavoro garantito, per poi redistribuire verso coloro che davvero soffrono le conseguenze economiche delle chiusure.

C’è chi, come il commentatore de ‘Il Foglio’ Camillo Langone, dedica al tema un contributo dal titolo emblematico, “Togliere al pubblico per dare al privato: ecco la vera unità nazionale”. Chi, come il Professore di Economia Riccardo Puglisi, redattore de ‘La voce.info’, si augura che nel nuovo lockdown paghino anche i dipendenti pubblici. C’è anche Massimo Cacciari, che, intervistato a Piazza Pulita sui provvedimenti del Governo per il contrasto all’epidemia, si lascia sfuggire un: “non è possibile tenere la gente a zero euro al mese o a 700 euro al mese. Voglio dire ai miei colleghi dello Stato e del parastato, prima o dopo arriveranno a voi, per forza. E io spero che ci arrivino presto, perché è intollerabile che questa crisi la paghi metà della popolazione italiana”. Insomma, serpeggia l’idea per cui se la crisi morde su alcuni settori in particolare, chi ancora non è stato morso è ora che venga colpito dalla scure di tagli, sacrifici e austerità per fare giustizia.

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seminaredomande

Quella luce in fondo al tunnel

PSN e tds a tasso negativo versus mes e RF

di Francesco Cappello

LLIFATScegliere tra le possibilità offerte, da una parte dal piano di salvezza nazionale PSN, a cui si affiancano oggi i titoli di stato a tasso negativo (1), e dall’altra da MES e Recovery Fund RF (Next Generation EU), non dovrebbe risultare difficile. Tutt’altro.

 

Statonote (una delle sei proposte del PSN)

Se aveste la possibilità di stamparvi la moneta che vi serve per concretare i vostri sogni/progetti senza incorrere in alcun effetto collaterale, di sicuro preferireste procurarvi così i soldi che vi servono piuttosto che farveli prestare, anzi, non avreste dubbi in proposito per il semplice motivo che in questo secondo caso sapete bene che i soldi ricevuti in prestito prima o poi dovreste restituirli, per di più maggiorati dagli interessi.

Ebbene, a trovarsi nella situazione precedentemente descritta è niente di meno che lo Stato di cui siamo parte. Lo Stato può immettere nel circuito economico, per tutte le esigenze di spesa del Paese, moneta di stato, legale entro i confini del territorio nazionale, o statonote come preferisce chiamarle Antonino Galloni, presidente del Comitato Nazionale Statonote (CNS), per distinguerle dalle banconote che hanno diversa origine. La prima è moneta non a debito a cui non siamo nuovi per averne già sperimentato l’uso sin dal 1966 (governo Aldo Moro con la consulenza di F. Caffè). La quantità di statonote o biglietti di stato da mettere in circolazione è relativa al fabbisogno dello Stato ossia quella necessaria a mobilitare quei fattori produttivi inespressi a cominciare dalla forza lavoro non più in grado di generare ricchezza perché sprecata nella immobilizzazione propria dello stato di disoccupazione, sottoccupazione inoccupazione ecc.

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economiaepolitica

Un’economia vulnerabile: i risultati economici della prima presidenza Trump

di John Komlos, Salvatore Perri

Capelli Donald TrumpLa crisi economica legata al Covid-19, come tutti gli eventi negativi di carattere globale, tende ad essere classificata come imprevedibile e sganciata da ogni possibilità di prevenzione. In realtà, anche se l’evento è di per sé impronosticabile, le condizioni dei sistemi economici in termini di vulnerabilità agli shocks dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione nei periodi così detti “normali”. Nel 21esimo secolo, eventi economici di portata catastrofica come la “bolla informatica”, l’11 settembre e la crisi finanziaria globale del 2008, si sono verificati in media ogni 5 anni se consideriamo anche le gravi crisi internazionali a carattere regionale. Pertanto, l’obiettivo di rendere le società moderne più “robuste” in termini di fondamentali economici, e meno vulnerabili agli shocks (Taleb 2009), dovrebbe essere comunque prioritario anche rispetto ai risultati economici di breve termine. La domanda da porsi, per valutare correttamente l’operato dell’amministrazione Trump, è se la sua politica economica prima della crisi pandemica abbia reso l’economia statunitense più forte strutturalmente oppure no.

Donald Trump ha affermato pubblicamente più volte che la sua amministrazione ha raggiunto risultati economici eccezionali, mai ottenuti prima, e tali risultati sarebbero ascrivibili ai provvedimenti di politica economica intrapresi da quando è stato eletto.

Questa opinione, rilanciata anche da altre autorevoli fonti[1], ha fatto breccia nell’opinione pubblica, nazionale ed internazionale, tanto da essere ripresa anche in Italia per corroborare alcune proposte di politica economica allo stato prive di evidenze empiriche favorevoli[2]. Al netto della propaganda elettorale, i dati raccontano un’altra realtà, molto più problematica, che getta pesanti ombre sul futuro economico degli Stati Uniti.

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effimera

La banda unica in Italia: come si espropria un bene comune

di Andrea Fumagalli

Banda larga 2Ha trovato una scarsa eco sui media l’accordo tra Tim e Cassa Depositi Prestiti (Cdp) per la creazione di un’unica società che gestisca la banda larga in Italia, ovvero l’acceso a Internet[1]. La notizia è circolata solo il giorno (27 agosto 2020) in cui il governo ha dato parere positivo e il via libera alla creazione di una newco che avrà il controllo della rete unica. Il 1° settembre 2020 i CdA di Tim e di Cdp hanno contemporaneamente approvato il piano e siglato una lettera di intenti per arrivare a primavera 2021 alla creazione della nuova società, che si chiamerà AccessCo.

Per raggiungere tale scopo, Tim farà affidamento a FiberCop (la società che cura l’ultimo miglio della rete, quello dagli armadietti in strada alle case), a cui sarà conferita la rete secondaria di Tim sulla base di un valore d’impresa di circa 7,7 miliardi di euro (per un valore azionario minore, pari a 4,7 miliardi di euro: il che fa presagire un aumento futuro del valore delle azioni per la gioia degli azionisti).

In FiberCop entra anche il fondo d’investimento privato americano Kkr con il 37,5% (1,8 miliardi) e Fastweb che acquisisce il 4,5%. Ne consegue che Tim deterrà il 58% della nuova società.

Secondo fonti informate, si prevede che FiberCop avrà un profitto lordo (Ebidta) di circa 0,9 miliardi (pari al 19% del valore azionario, livello assai alto) con un cash-flow positivo  a partire dal 2025 e non richiederà quindi iniezioni di capitale da parte degli azionisti.

Solo successivamente alla creazione della nuova FiberCop, entra in gioco l’accordo tra Cdp e Tim per la messa in opera della rete unica, non oltre il primo trimestre 2021.

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lafionda

Perché l’impresa privata ha bisogno dello Stato (e della grande impresa pubblica)

di Thomas Fazi

iriChe moltissimi imprenditori piccoli e medi vedano oggi lo Stato come un nemico è un dato di fatto. È un sentimento comprensibile, dato che le loro interazioni quotidiane con lo Stato sono fatte perlopiù di tasse e burocrazia. Ma gli imprenditori commettono un errore madornale nell’identificare il nemico nello Stato tout court piuttosto nelle specifiche politiche portate avanti da questo Stato. Per il semplice fatto che, se è vero che oggi lo Stato è causa di molti dei loro mali, è altresì vero che solo lo Stato può risollevare le loro sorti. La soluzione, tuttavia, non consiste – come pensano probabilmente molti imprenditori, che se lo sentono ripetere tutti i giorni da anni dalle veline liberiste che affollano le tribune politiche, nonché da praticamente tutti i partiti politici dell’arco parlamentare – nel “lasciarli lavorare” (o laissez-faire, come direbbero i francesi), cioè in una semplice riduzione dell’opprimente interferenza dello Stato nella vita economica delle imprese. L’idea che le tasse e la burocrazia rappresentino il principale freno dell’economia italiana, e che basterebbe levare queste di mezzo perché le imprese tornino a volare – come ama ripetere Salvini –, è seducente (perché intuitiva) quanto sbagliata.

Ora, è evidente che tutte le imprese beneficerebbero da una riduzione delle tasse e/o da una semplificazione della burocrazia. Questo lo capirebbe anche un bambino. L’errore sta nel considerare queste misure sufficienti per rilanciare l’economia. Basti pensare che, secondo i dati della Banca mondiale, la pressione fiscale sulle imprese negli ultimi otto anni è scesa di ben nove punti, dal 68 al 59 per cento; nello stesso periodo, nella classifica internazionale “Doing Business”, redatta sempre dalla Banca mondiale, che calcola la “facilità di fare impresa”, l’Italia è passata dal 78esimo al 58esimo posto. Qualcuno ha notato grandi balzi in avanti nell’economia nel periodo in questione? Appunto.

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la citta futura

Come va l’economia? Ne parliamo con Domenico Moro

di Ascanio Bernardeschi

81Zjqnc1CLCon questa a Domenico Moro, iniziamo una serie di intervisteLa pandemia sta modificando gli equilibri e le strategia e livello internazionale. In Europa sarà un pretesto per ulteriori tagli ai salari e ai diritti sociali. Il Mes e il Recovery Fund sono inadeguati e l’uscita dall’Unine Europea è una condizione necessaria per la realizzazione del socialismo. rivolte a quadri di lavoratori comunisti ed economisti. Domenico Moro è ricercatore presso l'Istat ed è stato consulente della Commissione Difesa della Camera dei deputati. È autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare. Abbina al lavoro scientifico la militanza politica.

* * * *

Domanda. La pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Secondo noi, però, la pandemia è intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale per cui non può essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?

Risposta. Al momento dello scoppio della pandemia, l’economia mondiale e quelle dei principali Paesi, con poche eccezioni, erano già nella fase fase discendente del ciclo economico, essendo la crescita del Pil in rallentamento nel 2018 e ancor di più nel 2019. Secondo i dati dell’Unctad, l’economia mondiale è passata da una crescita del 3,31% nel 2017 a una crescita del 2,52% nel 2019. La crescita della Ue è scesa dal 2,58 all’1,46%, in particolare la Germania è passata dal 2,47% allo 0,56% e l’Italia dall’1,72% allo 0,30%. Persino la Cina era in rallentamento, essendo passata dal 6,76% al 6,10%. Di fatto alcuni Paesi, come la Germania e l’Italia, erano già in recessione.

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sollevazione2

Il partito dello stato forte e la battaglia su Keynes

di Vadim Bottoni

John Maynard Keynes La difficoltà non sta nel credere alle nuove idee ma nel fuggire dalle vecchieLa battaglia su Keynes è politicamente importante.

Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato in economia.

D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.

Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori.

Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto.

Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.

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sinistra

Banca Popolare Bari: per ora la solita storia

Le proposte di Rifondazione per una possibile svolta

di Ufficio Credito ed Assicurazioni PRC-SE

berardinelli04Nonostante le perplessità della vigilia, l’assemblea degli spolpatissimi soci della Popolare di Bari ha approvato, con una maggioranza bulgara del 97%, il piano di rilancio della banca proposto dai Commissari straordinari che prevede, innanzi tutto, la sua trasformazione in SpA.

Come noto, il salvataggio è stato possibile grazie ad una ricapitalizzazione pari a circa 1,6 miliardi di euro che saranno sborsati dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (che in sostanza coprirà le perdite pregresse che ammontano a quasi 1,2 miliardi di euro) e da Mediocredito Centrale che con circa 430 milioni di euro otterrà il 97% del capitale della nuova banca.

L’ennesimo intervento del Fitd (che è alimentato dalle contribuzioni di tutte le banche operanti nel nostro paese, quindi da risorse in larga misura private), di gran lunga il più oneroso della sua storia, non deve certo essere scambiato per un atto di generosità verso un concorrente in grave difficoltà. Occorre ricordare infatti che in caso di fallimento della banca, il Fondo avrebbe comunque dovuto intervenire a tutela dei depositanti (sino a 100mila euro) con un esborso decisamente superiore e non facilmente digeribile per il sistema.

Mediocredito Centrale, invece, tramite Invitalia, è partecipato al 100% dal Ministero dell’Economia. Di conseguenza, la nuova Popolare di Bari è ora di proprietà pubblica (o meglio statale).

Naturalmente, rimangono in campo gli strascichi giudiziari della vicenda (fra pochi giorni dovrebbe partire il processo agli Jacobini, padroni incontrastati della banca per quarant’anni e ora accusati di una lunga lista di capi di imputazione) e la rabbia dei risparmiatori “traditi” che in questo caso, salvi gli obbligazionisti, sono i circa 70mila soci restati sostanzialmente con mucchi di carta straccia in mano.