Compianto sul Sessantotto
Su “Il Sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito
di Ennio Abate
Ho letto prima la Prefazione (qui) e ora il libro, Il Sessantotto e noi. Testimonianze a due voci (Castelvecchi 2024) di Romano Luperini e Beppe Corlito.
Il volume – circa 160 pagine – è suddiviso in: una Premessa. Un paradosso ironico; due parti (una prima di tre capitoli, una seconda di undici); le Conclusioni; e una Appendice con un’intervista all’avvocato Ezio Menzione, difensore di Ovidio Bompressi nel processo per l’omicidio di Calabresi. Nella Parte prima tre capitoli trattano le questioni: dell’unità o pluralità del Sessantotto come fenomeno globale, planetario; delle sue cause e dei suoi inizi; del Sessantotto italiano “lungo” (rispetto a quello francese). Nella Parte seconda, dal capitolo 4° all’11°, vengono esaminati i temi: dell’assemblea, dell’organizzazione e della democrazia diretta; della militanza; della corporeità, sessualità e questione femminile; della cultura del Sessantotto; della violenza, del terrorismo e dell’omicidio Calabresi; del rapporto tra Sessantotto e tradizione comunista; della democrazia e della rivoluzione; del fascismo e dell’antifascismo. Nelle Conclusioni si toccano gli aspetti del Sessantotto ritenuti attuali.
La conversazione tra Luperini e Corlito è di agevole lettura, mai enfatica o apologetica; e ripercorre in modi sintetici e chiari i fatti e le principali interpretazioni del Sessantotto. Un lettore, che abbia partecipato a quella rivolta studentesca o che ne abbia sentito parlare, può ripassare utilmente fatti, emozioni e ragionamenti scaturiti da quell’anno straordinario, in cui, come dicono gli autori, sembrò che «tutto il mondo fosse giovane».1
Anche se questa «testimonianza a due voci» di due protagonisti del ‘68, che vuole essere «una sorta di testamento rivolto al futuro», viene resa nel deserto politico odierno e l’«impronta indelebile» del Sessantotto non solo su loro due ma su tanti – una minoranza combattiva e preziosa ma messa presto fuori gioco – a me pare un’illusione, non mi sento di sottovalutarla.
Restano, però terminata la lettura dell’intero libro, le perplessità che ho già esposto (qui) e ora, per punti, provo ad approfondirle:
1. Da tempo non vedo più il Sessantotto come «uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo».2 Lo sarà agli occhi di chi stravede per la «modernizzazione dei costumi»,3 ma l’idea di un Sessantotto spartiacque è andata svanendo, decennale dopo decennale, e sono prevalsi gli elementi di continuità (o di restaurazione) con la situazione precedente. Peggio, si è affermato un rapporto paurosamente più ineguale tra potere capitalistico e un ormai azzerato contropotere democratico.4
2. Il fallimento del Sessantotto non può essere imputato soprattutto alla «eredità politica, culturale e organizzativa della Terza Internazionale», come sostengono gli autori. Oggi dovremmo fare un ragionamento più equo e drastico, che riassumerei così: se è fallita la «modalità della presa del palazzo d’inverno», altrettanto deve dirsi per «la lunga marcia attraverso le istituzioni» di Rudi Dutschke, che Luperini e Corlito definiscono «la più interessante in quegli anni» e ripropongono come «unico modello di una possibile rivoluzione socialista in Occidente» (8) o come via che andrebbe ancora «verificata in un processo reale» (124). Io farei notare, invece, che l’idea della «lunga marcia attraverso le istituzioni», proprio perché ha molto in comune con il discorso sulla «guerra di posizione» o sulle “case matte” del Gramsci anni Trenta, è stata già verificata. Ad esempio, nella storia del PCI. Che proprio una prima, prolungata e fallimentare «lunga marcia attraverso le istituzioni» è stata; e non solo non ha portato il PCI neppure al governo ma l’ha logorato e disfatto. E analogo fallimento ha avuto la seconda, seppur più breve marcia nelle istituzioni, della nuova sinistra e, in particolare, quella di Democrazia Proletaria. Dunque, non capisco come la regola suggerita da Luperini e Corlito dello ‘scava dove sei’ possa non impantanare attori sociali – intellettuali, ceti medi, “lavoratori della conoscenza” – atomizzati e politicamene confusi in istituzioni che sono sempre meno democratizzabili. O in cosa la lunga marcia nelle istituzioni possa essere più efficace rispetto ai tentativi – sì, anch’essi fallimentari – di “assalto al cielo” o di “presa dei palazzi d’inverno”.
3. In politica, dialogo e trattative sono strumenti praticati e da praticare, ma non vedo perché cancellare o svilire altri strumenti – conflitti anche violenti e persino armati – che pur hanno permesso in passato rivoluzioni (la francese, la russa, la cinese) dai risultati apprezzabili. Il refrain sul fallimento e sull’improponibilità della «modalità della presa del palazzo d’inverno, perché la moderna società borghese [è] molto più complessa di quella russa degli inizi del Novecento» non tiene conto che tale, indubbia, complessità resta il “guanto di velluto”, che copre il sempre più minaccioso e più tecnologicamente efficace “pugno di ferro” del potere capitalistico (da Gramsci mai trascurato nelle sue riflessioni).
4. C’è da precisare che il consenso alla linea di Dutschke non è totale o acritico. Luperini e Corlito ricordano i limiti del suo spontaneismo,5 sanno pure che un movimento per sua stessa natura «non può avere una tensione sempre alta» (124) e, anzi, rivendicano la scelta «che [compirono] allora, ispirata alle ipotesi di Lenin» (125). E, tuttavia, pur ammettendo gli scarsi risultati di quel «sommovimento planetario» a causa dell’«assenza di una solida teoria della rivoluzione in Occidente, che secondo Hobsbawm si riduce praticamente alla sola eredità gramsciana» (129) e che – aggiungerei – pare non bastare più, ripropongono come modello unico «la lunga marcia attraverso le istituzioni», orientandosi oggi verso «una ipotesi intermedia fra l’ipotesi spontaneista e quella leninista che si confrontarono allora» (125): quella a «struttura reticolare» dello statunitense Luther P. Gerlach, che teorizza movimenti policefali, reticolari, senza una leadership unitaria.
5. Alla base di questo loro passaggio dalla lezione di Lenin a quella di Dutschke – mi pare di capire – c’è oggi un’adesione ad una visione di fondo pacifista – «una sorta di pacifismo attivo» (118) – e che avversa ogni uso della violenza, se non per difendere la democrazia. Scrivono, infatti: «Del resto la Resistenza partigiana, in Italia e in Europa, cos’era stata se non questo? La difesa anche armata della democrazia» (119).
6. Non mi metto a chiedere di quale democrazia stanno parlando. Mi soffermo, invece, su come trattano la questione de ‘Il Sessantotto e la violenza’ (cap. 8). Sulla quale va detto subito che, nel Sessantotto e nel decennio dei Settanta, ci furono molte e comprensibili ambivalenze; e, direi sia tra gli spontaneisti che tra i leninisti o terzinternazionalisti. Per cui trovo ingeneroso in questo bilancio del Sessantotto l’accusa di «atteggiamento ambiguo sull’uso della violenza» rivolto solo o soprattutto a Lotta Continua. E sbagliata l’affermazione che «l’origine delle Brigate Rosse non ha a che fare con il movimento» (36), perché sarebbero nate dall’incontro tra le “due chiese”. Non mi sembrano accettabili né la separazione netta tra militanti di un Sessantotto inteso quasi come puro movimento e separato da quanti appartenevano alle “due chiese” né quella tra pacifisti e “potenziali violenti” né la sprezzante definizione delle Brigate Rosse come «ultime propaggini perverse della tradizione terzinternazionalista e stalinista» (57). Il Sessantotto fu alimentato anche da vari “eretici” delle “due chiese” e alcuni dei fondatori delle Brigate Rosse, come Renato Curcio, erano stati attivi nel movimento studentesco a Trento.
7. Quando Luperini e Corlito parlano della strage di Piazza Fontana (111), insistono troppo a sottolineare che essa chiude «la fase di esordio pacifista, ottimista e creativa» del movimento o che «mise una pietra tombale sulla strategia della “lunga marcia”» (113). Il movimento sarebbe “scivolato” allora «in un assetto difensivo e nell’avvitamento del dibattito sulla violenza» (112). Scrivono pure: «La scelta difensiva è apparsa inevitabile». Domanda: ma era o no inevitabile? si poteva fare qualcosa di diverso? Oppure dicono: «La violenza non fu più vissuta come una necessità o una scelta obbligata ma come asse di riferimento assunto consapevolmente, priorità decisiva per una strategia compiutamente rivoluzionaria» (112). E accusano le formazioni spontaneiste di aver teorizzato «la violenza offensiva e l’antifascismo militante a tutti i costi senza distinguere tra lotta sul terreno legale e illegale, tra mobilitazione d’avanguardia e di massa, e senza considerare nemmeno la valutazione oggettiva del livello di scontro»(113). Sembra insinuarsi nella riflessione di Luperini e Corlito lo stereotipo di un Sessantotto quasi innocente, fatto regredire forse anche a suon di bombe di Piazza Fontana da fascisti e servizi occulti – e, tra parentesi perché non dall’ostilità acerrima del PCI? – ma traviato soprattutto da spontaneisti e terzinternazionalisti di vario tipo. Viene quasi da pensare che, secondo Luperini e Corlito, se non ci fossero stati, il Sessantotto sarebbe filato liscio, che forse si sarebbe capito più tempestivamente anche la nuova ristrutturazione capitalistica già realizzatasi negli USA, ecc. E non si considera il fatto che la strage di Piazza Fontana era la prova che il pugno di ferro di un potere capitalistico minacciato era lì prontissimo a colpire. E che il Sessantotto non poteva durare pacifico e indisturbato. E che di fronte a Piazza Fontana porre il problema della violenza difensiva/offensiva non era un capriccio o una distrazione da problemi più seri.
8. Altro problema: perché è fallita la spinta comunista del Sessantotto e chi l’ha fatta fallire? Si potrebbero esaminare varie ipotesi: lo Stato con i suoi apparati di sorveglianza e repressione; il PCI, che aveva rinunciato da tempo alla presa del potere con le armi e fu ostile al Sessantotto che turbava il suo “sonno revisionistico”; i brigatisti rossi o una parte di loro, che da rivoluzionari leninisti (violenza sì, terrorismo no) si tramutarono in terroristi e poi in delinquenti comuni o si pentirono. La testimonianza di Luperini e Corlito non mi pare approfondisca gli aspetti più problematici o anche il “lato oscuro” del Sessantotto. E, a mio parere, manda al futuro un messaggio troppo univoco: la rivoluzione armata è impossibile in Europa o nell’Occidente – parola di Gramsci – e bisogna lavorare nelle istituzioni (anche se sono – dico io – a “democrazia marcita”). Per cui dei vari pezzi del Sessantotto – quello libertario, quello “operaista”, quello “lottarmatista” – va valorizzato soltanto il filone del Sessantotto (pisano) in cui hanno militato e Democrazia Proletaria, come erede del «meglio della nuova sinistra».
9. Di questa interpretazione del Sessantotto, dunque, non riesco a condividere la sua schematicità e anche un certo ottimismo “pedagogico”. Ci sento ancora un rifiuto di approfondire il “lato oscuro” del Sessantotto e temo che la valorizzazione della «lunga marcia nelle istituzioni» sia la continuazione mascherata del togliattismo del PCI e poi del compromesso storico berlingueriano, che ha fatto danni storici – secondo me – ben più irreparabili del pur fallimentare lottarmatismo o dello spontaneismo. Infine, non capisco la mancanza di saggezza “postuma”. Cosa impedisce di ribadire, sì, che l’analisi delle Brigate Rosse fu sbagliata ma di dire anche che vari brigatisti o altri lottarmatisti hanno combattuto fino in fondo e, in quanto combattenti sconfitti, vanno rispettati? Tanto più che sconfitti sono stati anche quelli del PCI o della Lega dei Comunisti o di Democrazia Proletaria. E questi fallimenti, ammessi a mezza bocca, perché sarebbero meno gravi di quello delle Brigate Rosse, o di Autonomia Operaia o dei marxisti-leninisti? Per me sarebbe meglio dire: abbiamo fallito tutti (con vari gradi di responsabilità), abbiamo poco da proporre perché su nodi fondamentali – violenza, democrazia/rivoluzione, organizzazione – non siamo stati né originali né adeguati alle situazioni che abbiamo dovuto affrontare, testimoniamo, sì, ma il fallimento del Sessantotto e stop. Compianto del 68, appunto.
10. Non voglio saltare, infine, un ultimo problema che la lettura di questo libro mi ha riproposto: la nuova sinistra cosa poteva fare di più o di diverso di fronte alla scelta avventurista delle Brigate Rosse e dei lottarmatisti? Poteva forse piegarsi ad essa? No. Nemmeno in nome di una visione più lungimirante, si poteva chiederle questo. La critica al lottarmatismo, però, poteva essere condotta in maniera più leale e intelligente. Forse si poteva fare a meno, ad esempio, di spargere la voce tra i militanti della nuova sinistra che quelli delle Brigate Rosse erano dei fascisti. O discutere di più le ragioni dei “compagni che sbagliavano”, troppo impazienti o estremisti. O forse non vantarsi ancora oggi, come fa Corlito, di aver teorizzato e praticato – paternalisticamente, a me pare – l’uso del servizio d’ordine, «il cui compito principale era evitare che le frange estreme del movimento si cacciassero nei pasticci per reagire alle provocazioni» (88). Restano, però, i forse. Ci sarebbe voluta un’autorevolezza che mancò ai dirigenti e ai militanti di tutte le formazioni della nuova sinistra. E, pertanto, i tanti discorsi gramsciani sull’egemonia restarono tali e non poterono mai essere applicati. Neppure nei rapporti con queste aree “estremistiche”. Finì per prevalere un aut aut pragmatico e spiccio: o si stava con le Brigate Rosse o con la nuova sinistra o con il PCI e l’”arco costituzionale”. Senza andare troppo per il sottile o stare a pensare a “impossibili” terze vie.6 Non so dire, dunque, se potesse essere praticabile un tentativo di dialogare o “egemonizzare” le Brigate Rosse o le altre formazioni lottarmatiste in modi più indipendenti dal PCI. O influire su alcune delle loro scelte, come tentarono alcuni dell’Autonomia (Antonio Negri, ad esempio, o in circostanze eccezionali, ai tempi della prigionia di Moro, Franco Piperno). Da come andarono le cose, pare proprio che una “terza via” non ci potesse essere. E si andò alla tragedia e alla sconfitta di tutti.
Appendice
Ho parlato del ‘68 in varie occasioni. Nel 1978 come di una «esperienza troncata/ che in luoghi separati cresceva/ e ora deperisce» (qui). Nel 2005 nel manuale Di fronte alla storia.7 Nel 2010 per difendere una certa sua immagine da quanti lo avevano osteggiato da subito (qui) o mettendo in dubbio la continuità tra movimenti del ‘68-’69, organizzazioni extraparlamentari di “nuova sinistra” e Democrazia Proletaria (qui). E poi nel 2018 (qui e qui). E ancora, indirettamente, nel 2021 (qui). Ho riflettuto sul tema della violenza nella storia qui, qui, qui e qui.
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