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sinistra

Deserto astensionista e ritorno della sinistra” liberista: il caso Genova

di Eros Barone

piccolo11ottobre2021.pngQuando non hai più un nemico è lui che ha vinto.

André Frénaud, Il silenzio di Genova.

Al primo turno delle elezioni comunali di Genova hanno votato 249.000 genovesi. Tra Comune e municipi, i candidati erano più di 3000. Un rapporto tra candidati e votanti straordinario per la minima distanza tra elettorato attivo ed elettorato passivo: più o meno uno su ottanta. In una democrazia avanzata o di tipo sovietico sarebbe stato il suggello di una entusiasmante partecipazione di massa al dibattito pubblico e alla scelta dei rappresentanti del popolo, che ne consegue. Ma quel rapporto, nel sistema istituzionale italiano, è soltanto lo specchio dello svuotamento cui è giunta la democrazia borghese in assenza di ogni reale alternativa politica. Infatti, avevano diritto al voto 480.000 cittadini genovesi e quasi la metà si sono astenuti. Sorge allora spontaneo un paragone: quando si affermava, nei “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, la spinta democratica e rinnovatrice generata dalle lotte operaie, giovanili e popolari, sostenuta dalla partecipazione di larghe masse alla battaglia politica, furono conseguite importanti conquiste: la scala mobile, la scuola media unica, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Lo stesso paragone ci dice, circa il grado della partecipazione elettorale, che alle elezioni politiche del 1958 andarono a votare 84 italiani su 100, mentre nel 2022 furono soltanto 64 su 100 gli italiani che si recarono alle urne.

Il ritorno della “sinistra” liberista alla guida del governo locale avviene, dunque, nel bel mezzo di un deserto di astensioni dal voto, che si estende a poco meno della metà del corpo elettorale, confermando il silenzioso esodo di massa, in corso ormai da decenni, dalla partecipazione popolare a uno degli istituti più importanti della democrazia rappresentativa borghese, quello più strettamente connesso al territorio.

Ed è in questo deserto che risalta maggiormente l’esistenza del monopartitismo competitivo di tipo americano e il carattere statico di quel blocco sociale formato dal “partito operaio borghese” e dalla borghesia di sinistra, che ha trovato a Genova, con la candidatura e con la vittoria elettorale di Silvia Salis, la sua saldatura. Laddove con la categoria di “partito operaio borghese” (classica definizione di Engels e di Lenin) si intende indicare nella maniera più adeguata il predominio di una precisa realtà sociale, rappresentata dall’aristocrazia operaia, dalla burocrazia sindacale affiliata alla CGIL, dalla piccola borghesia, nonché dagli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. Questa realtà sociale, il “partito operaio borghese”, coincide in larga misura con lo “zoccolo duro” di un movimento operaio, quello genovese, caratterizzato sul piano della composizione tecnica dalla presenza dei lavoratori del porto, dei cantieri navali e delle residue aree industriali sopravvissute alle ristrutturazioni ‘jobkilling’ dell’ultimo trentennio: movimento, peraltro, contraddistinto, sul piano politico, da una storica vocazione riformista. 1 È questa realtà più compatta e, insieme, relativamente più capillare grazie alla rete delle sedi sindacali e cooperative, il fattore che spiega come buona parte dei vertici e della base del vecchio PCI socialdemocratizzato sia poi transitata, senza eccessive difficoltà politiche e morali, nella formazione politica, vale a dire il PD, scaturita dalle successive derivazioni di quella matrice riformista.

Sennonché il contesto in cui si è prodotta questa transizione è quello dell’assenza di sviluppo industriale, della crescente disoccupazione operaia e intellettuale, nonché di un diffuso parassitismo, che il “boom” turistico degli ultimi anni non ha potuto che accentuare e, nel contempo, mascherare in forza di uno sviluppo distorto ed essenzialmente improduttivo, generatore di interessi corporativi, squilibri ambientali e degrado sociale. 2 A ciò si è sommato, in virtù dei flussi generati dall’effetto congiunto dell’invecchiamento della popolazione (Genova può vantare in campo demografico un primato negativo non solo in Italia, ma anche in Europa) e della crescente immigrazione, la formazione di un esercito industriale di riserva che svolge la duplice funzione di controllo della dinamica salariale e di stabilizzazione degli equilibri sociali vigenti. In tal modo, nonostante la presenza e l’attività di generose avanguardie sindacali e politiche nella realtà portuale e industriale genovese, il dato centrale rimane quello costituito dalle persistenti divisioni della classe operaia e dei ceti proletari in autoctoni e immigrati, pubblici e privati, produttivi e improduttivi, tecnici e lavoratori non qualificati, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, vecchi e giovani, occupati, disoccupati e precari, lavoratori di poche grandi imprese e lavoratori della pleiade delle piccole imprese.

Sicché, nelle condizioni attuali di sviluppo senza benessere e di centralizzazione senza concentrazione, che sono i connotati distintivi dell’economia e della società nell’epoca della sussunzione al capitale monopolistico finanziario, si riconferma l’egemonia del vertice apicale del blocco dominante, formato dalla triade dei grandi proprietari immobiliari, 3 degli armatori e dei petrolieri: un’egemonia che, come è stato nel passato e come si ripeterà per forza di cose nel prossimo futuro, sarà mediata politicamente dalla gestione riformista dei consumi pubblici all’insegna di un assistenzialismo cattolicheggiante (conforme alla parola d’ordine di una “svolta verso il sociale”, lanciata dalla Salis durante la campagna elettorale, la cui traduzione, come non è difficile prevedere, sarà, ad esempio, l’aumento dei supermercati COOP all’insegna dello “sviluppo sostenibile” e “inclusivo”, nonché di una “spesa che...cambia il mondo”).

È infine degno di nota il fatto che i processi regressivi, cui si è qui accennato, si svolgono in un clima contrassegnato dalla pressoché totale assenza di protagonismo dei ceti intellettuali, da quelli accademici e istituzionali a quelli ascrivibili alla categoria delle cosiddette “libere professioni”, quasi tutti generalmente silenti e, se non complici, contumaci rispetto al degrado in corso. 4

Concludendo, si può prevedere semplicemente, pur sempre sperando di essere smentiti, che nel deserto astensionista il ritorno dei social-liberisti alla guida del governo locale significhi che un quarto della metà del corpo elettorale di Genova (quindi non la maggioranza, ma un’esigua minoranza) è pronto per sostenere un nuovo ciclo amministrativo di assistenzialismo più o meno “illuminato”, gestito, in perfetta alternanza così come in perfetta continuità, dalla borghesia di sinistra, anziché dalla borghesia di destra.


Note
1 «Oggi – osservava Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti». Vale la pena di riportare integralmente la sua analisi sull’argomento: «Le istituzioni politiche del capitalismo contemporaneo – la stampa, il parlamento, le associazioni, i congressi, ecc. – creano per gli impiegati e gli operai riformisti e patriottici, rispettosi e sottomessi, elemosine e privilegi politici corrispondenti ai privilegi economici. Posticini redditizi e tranquilli in un ministero, nel parlamento e nelle varie commissioni, nelle redazioni di “solidi” giornali legali o nelle amministrazioni di sindacati operai non meno solidi e “obbedienti alla borghesia”: ecco con che cosa la borghesia imperialistica attira e premia i rappresentanti e i seguaci dei “partiti operai borghesi”. Il meccanismo della democrazia politica agisce nella medesima direzione. Nel nostro secolo non si può fare a meno delle masse; e nell’epoca della stampa e del parlamentarismo è impossibile trascinare le masse al proprio seguito senza un sistema largamente ramificato, metodicamente applicato, solidamente attrezzato, di lusinghe, menzogne, truffe, giochetti con paroline popolari e alla moda, promesse – fatte a destra e a sinistra – di ogni sorta di riforme e di ogni sorta di benefici per gli operai, purché essi rinuncino alla lotta rivoluzionaria per abbattere la borghesia» (Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, 1916). Da una parte, dunque, la tendenza opportunista dei rappresentanti e dei seguaci dei “partiti operai borghesi”; dall’altra, la tendenza rivoluzionaria. «Nella lotta fra queste due tendenze – continua Lenin – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente motivata». Questo – sia detto ‘en passant’ – è il fondamento marxista-leninista su cui nacque e si sviluppò la Terza Internazionale comunista.
2 Un sottoprodotto di tale sviluppo è la diffusione della corruzione, ai più diversi livelli. La magistratura genovese, sollevando la pietra sotto la quale si nascondevano i meccanismi corruttivi azionati da quella tribù di roditori delle finanze regionali che comprendeva autorità pubbliche, imprenditori privati e organizzazioni mafiose, ha messo a nudo, come era già accaduto nel 2015 con l’amministrazione di centrosinistra presieduta da Burlando, ma in quest’ultimo caso (2024) su scala ben maggiore, quel verminaio di corrotti e di corruttori che si era formato, sotto le due presidenze di Toti, con l’amministrazione di centrodestra. Dopodiché, se era prioritario per la magistratura inquirente e giudicante accertare le responsabilità individuali di Toti e degli altri incriminati in ordine ai reati ipotizzati, è del tutto secondario, in un’ottica globale che guardi non solo al funzionamento ‘de jure’ di un regime di democrazia borghese, ma anche e soprattutto al rapporto ‘de facto’ di questo regime con il modo di produzione capitalistico quale si configura nella fase del liberismo, stabilire se il ‘modus operandi’ dei titolari di incarichi pubblici e di imprese private interagenti con essi fosse o no, e in quale grado, legalmente corretto. In altri termini, non vi è alcun dubbio che in questo, così come in altri casi a questo simili, valga, indipendentemente dal giudizio di conformità legale attribuibile (o non attribuibile) a quel ‘modus operandi’, la ben nota regola: “Il cane abbaia, ma la carovana va avanti”.
3 Si pensi a quello spazio intermedio tra profitti e salari che è composto da milioni di persone che in parte vivono della intermediazione parassitaria sulla spesa pubblica, alimentata in questi decenni da tutti i partiti, e in parte hanno trovato una comoda nicchia nello spazio del capitale commerciale. Nello specifico, il settore edile sia diretto che indotto, con il mezzo milione di persone che vi lavorano, costituisce un serbatoio importante per quella mostruosa sanguisuga che è la rendita immobiliare, destinata nei prossimi anni, con l’esaurirsi degli effetti generati dalle ristrutturazioni private pagate con il denaro pubblico, a subire un drastico sgonfiamento, cioè un poderoso processo di svalorizzazione del capitale. Basti poi pensare, in ordine all’intreccio perverso tra la rendita e il profitto, che nel nostro paese una quota crescente dei profitti industriali si è trasformata in rendita immobiliare, mentre una quantità minima è stata investita in macchinari e ammodernamento di impianti. Così, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo è tornato al primato del possesso sulla produzione e il declino del capitale industriale è stato nascosto sotto il mattone, come attesta il fatto che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, i grandi gruppi italiani hanno scoperto le gioie del “real estate”. Anche in questo campo Genova detiene un primato negativo, che affonda le sue radici nella stessa storia della repubblica marinara e che è stato tristemente confermato dalla numerosa sequenza di alluvioni, crolli ed esondazioni avvenuti tra la seconda metà del Novecento e il primo quarto di questo secolo. Come è noto, le conseguenze mortali di uno di questi disastri idrogeologici costarono alla signora, che ha preceduto la Salis nel ruolo di prima sindaca di Genova, non solo le dimissioni, ma anche lunghe e pesanti conseguenze penali.
4 Chiedendo scusa per le inevitabili omissioni, mi limito a segnalare due voci di intellettuali genovesi controcorrente, meritevoli di esplicita menzione per il loro costante impegno civile: l’antropologo Marco Aime e il sociologo Salvatore Palidda.
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