Deserto astensionista e ritorno della “sinistra” liberista: il caso Genova
di Eros Barone
Quando non hai più un nemico è lui che ha vinto.
André Frénaud, Il silenzio di Genova.
Al primo turno delle elezioni comunali di Genova hanno votato 249.000 genovesi. Tra Comune e municipi, i candidati erano più di 3000. Un rapporto tra candidati e votanti straordinario per la minima distanza tra elettorato attivo ed elettorato passivo: più o meno uno su ottanta. In una democrazia avanzata o di tipo sovietico sarebbe stato il suggello di una entusiasmante partecipazione di massa al dibattito pubblico e alla scelta dei rappresentanti del popolo, che ne consegue. Ma quel rapporto, nel sistema istituzionale italiano, è soltanto lo specchio dello svuotamento cui è giunta la democrazia borghese in assenza di ogni reale alternativa politica. Infatti, avevano diritto al voto 480.000 cittadini genovesi e quasi la metà si sono astenuti. Sorge allora spontaneo un paragone: quando si affermava, nei “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, la spinta democratica e rinnovatrice generata dalle lotte operaie, giovanili e popolari, sostenuta dalla partecipazione di larghe masse alla battaglia politica, furono conseguite importanti conquiste: la scala mobile, la scuola media unica, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Lo stesso paragone ci dice, circa il grado della partecipazione elettorale, che alle elezioni politiche del 1958 andarono a votare 84 italiani su 100, mentre nel 2022 furono soltanto 64 su 100 gli italiani che si recarono alle urne.
Il ritorno della “sinistra” liberista alla guida del governo locale avviene, dunque, nel bel mezzo di un deserto di astensioni dal voto, che si estende a poco meno della metà del corpo elettorale, confermando il silenzioso esodo di massa, in corso ormai da decenni, dalla partecipazione popolare a uno degli istituti più importanti della democrazia rappresentativa borghese, quello più strettamente connesso al territorio.
Ed è in questo deserto che risalta maggiormente l’esistenza del monopartitismo competitivo di tipo americano e il carattere statico di quel blocco sociale formato dal “partito operaio borghese” e dalla borghesia di sinistra, che ha trovato a Genova, con la candidatura e con la vittoria elettorale di Silvia Salis, la sua saldatura. Laddove con la categoria di “partito operaio borghese” (classica definizione di Engels e di Lenin) si intende indicare nella maniera più adeguata il predominio di una precisa realtà sociale, rappresentata dall’aristocrazia operaia, dalla burocrazia sindacale affiliata alla CGIL, dalla piccola borghesia, nonché dagli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. Questa realtà sociale, il “partito operaio borghese”, coincide in larga misura con lo “zoccolo duro” di un movimento operaio, quello genovese, caratterizzato sul piano della composizione tecnica dalla presenza dei lavoratori del porto, dei cantieri navali e delle residue aree industriali sopravvissute alle ristrutturazioni ‘jobkilling’ dell’ultimo trentennio: movimento, peraltro, contraddistinto, sul piano politico, da una storica vocazione riformista. 1 È questa realtà più compatta e, insieme, relativamente più capillare grazie alla rete delle sedi sindacali e cooperative, il fattore che spiega come buona parte dei vertici e della base del vecchio PCI socialdemocratizzato sia poi transitata, senza eccessive difficoltà politiche e morali, nella formazione politica, vale a dire il PD, scaturita dalle successive derivazioni di quella matrice riformista.
Sennonché il contesto in cui si è prodotta questa transizione è quello dell’assenza di sviluppo industriale, della crescente disoccupazione operaia e intellettuale, nonché di un diffuso parassitismo, che il “boom” turistico degli ultimi anni non ha potuto che accentuare e, nel contempo, mascherare in forza di uno sviluppo distorto ed essenzialmente improduttivo, generatore di interessi corporativi, squilibri ambientali e degrado sociale. 2 A ciò si è sommato, in virtù dei flussi generati dall’effetto congiunto dell’invecchiamento della popolazione (Genova può vantare in campo demografico un primato negativo non solo in Italia, ma anche in Europa) e della crescente immigrazione, la formazione di un esercito industriale di riserva che svolge la duplice funzione di controllo della dinamica salariale e di stabilizzazione degli equilibri sociali vigenti. In tal modo, nonostante la presenza e l’attività di generose avanguardie sindacali e politiche nella realtà portuale e industriale genovese, il dato centrale rimane quello costituito dalle persistenti divisioni della classe operaia e dei ceti proletari in autoctoni e immigrati, pubblici e privati, produttivi e improduttivi, tecnici e lavoratori non qualificati, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, vecchi e giovani, occupati, disoccupati e precari, lavoratori di poche grandi imprese e lavoratori della pleiade delle piccole imprese.
Sicché, nelle condizioni attuali di sviluppo senza benessere e di centralizzazione senza concentrazione, che sono i connotati distintivi dell’economia e della società nell’epoca della sussunzione al capitale monopolistico finanziario, si riconferma l’egemonia del vertice apicale del blocco dominante, formato dalla triade dei grandi proprietari immobiliari, 3 degli armatori e dei petrolieri: un’egemonia che, come è stato nel passato e come si ripeterà per forza di cose nel prossimo futuro, sarà mediata politicamente dalla gestione riformista dei consumi pubblici all’insegna di un assistenzialismo cattolicheggiante (conforme alla parola d’ordine di una “svolta verso il sociale”, lanciata dalla Salis durante la campagna elettorale, la cui traduzione, come non è difficile prevedere, sarà, ad esempio, l’aumento dei supermercati COOP all’insegna dello “sviluppo sostenibile” e “inclusivo”, nonché di una “spesa che...cambia il mondo”).
È infine degno di nota il fatto che i processi regressivi, cui si è qui accennato, si svolgono in un clima contrassegnato dalla pressoché totale assenza di protagonismo dei ceti intellettuali, da quelli accademici e istituzionali a quelli ascrivibili alla categoria delle cosiddette “libere professioni”, quasi tutti generalmente silenti e, se non complici, contumaci rispetto al degrado in corso. 4
Concludendo, si può prevedere semplicemente, pur sempre sperando di essere smentiti, che nel deserto astensionista il ritorno dei social-liberisti alla guida del governo locale significhi che un quarto della metà del corpo elettorale di Genova (quindi non la maggioranza, ma un’esigua minoranza) è pronto per sostenere un nuovo ciclo amministrativo di assistenzialismo più o meno “illuminato”, gestito, in perfetta alternanza così come in perfetta continuità, dalla borghesia di sinistra, anziché dalla borghesia di destra.