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jacobin

La pandemia del tardo capitalismo

di Luca De Crescenzo

coronavirus jacobin italia 1320x481Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), a livello globale quasi un decesso su cinque è dovuto a una malattia infettiva. Che diventa un decesso su due se si considera solo la metà del mondo più povera. Si tratta di malattie per lo più curabili – polmoniti, bronchiti, dissenterie. E spesso orribili. Quelle che non uccidono debilitano, invalidano e possono trascinarsi in lunghe paralizzanti agonie (cercate su google «elefantiasi» per capire di cosa stiamo parlando). Molte fanno parte delle cosiddette «malattie tropicali dimenticate». «Tropicali», anche se si concentrano dall’equatore in giù dove vive la maggior parte dei poveri del mondo. «Dimenticate», perché notoriamente dei poveri è facile disinteressarsi. Forse sarebbe più appropriato chiamarle «malattie banali poco lucrative». Al momento colpiscono più di un miliardo di persone, con danni che dalla salute arrivano all’economia, tornando nuovamente alla salute, in una classica trappola del sottosviluppo.

Di fronte a questi dati il clamore mediatico per il Coronavirus – con le poche centinaia di vittime a fronte dello straordinario dispendio di risorse ed energie che sta mobilitando – sembra ipocrita quanto ridicole appaiono le scene di panico che ne derivano. Ma non c’è alcuna contraddizione. Il panico porta all’estremo il timore di finire in quelle stesse condizioni di morte e malattia lontane ma presenti, da cui proviamo a proteggerci con muri che si rivelano inutili di fronte a un morbo invisibile. E che in realtà spesso sono già a casa nostra. Un anno fa ha fatto scandalo la notizia di un’epidemia di tifo a Los Angeles, una malattia «medievale» nel pieno della California, lo Stato più ricco del Paese più ricco del mondo, in cui però si registra un record di senzatetto.

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lavoro culturale

La controversia fra integristi universalisti e antirazzisti

di Salvatore Palidda

copertina chiusiLa celebre rivista online francese Médiapart, con la penna del suo esperto culturale Joseh Confravreux, ha dedicato una serie di 6 articoli che passano in rassegna le diverse posizioni inerenti la cosiddetta “controversia sulla questione della razza” e quindi la letteratura in questo campo[1]. Una controversia esaminata nella sua versione francese, che accenna anche a quella in altri Paesi e in particolare negli Stati Uniti. La scelta di dare attenzione a questa disputa è dovuta anche all’esarcebante attacco da parte degli integristi universalisti di destra – e in parte di “sinistra” – nei confronti degli antirazzisti e razzializzati, accusati di esasperare la loro difesa delle identità delle minoranze (nera, femminista, ecc.) e di provocare una “guerra civile” (di carta).

La disputa ha dei connotati in gran parte palesemente francesi, ma agita questioni che sono ormai correnti in tutti i Paesi, in particolare a proposito dell’uso e abuso delle cosiddette rivendicazioni comunitaristiche o identitarie o delle minoranze. È soprattutto lo spettro dell’islamismo a condurre alla drammatizzazione estrema della controversia, ancor più a seguito degli attentati terroristi pseudo-islamici che dopo il 2015 hanno colpito la Francia e che si sono ripetuti anche recentemente. In questo contesto, l’ultimo attentato a una moschea per opera di persone di destra è stato letto come speculare a quelli pseudo-islamisti che lo hanno preceduto. Ma lo spettro islamista ha dato la stura a un attacco generalizzato contro ogni rivendicazione da parte delle diverse minoranze, così come nella tradizione sciovinista francese è sempre stata intollerabile ogni specificità culturale.

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paroleecose2

L'aula vuota e i suoi fantasmi*

di Mariangela Caprara

aula scolastica vuotaInquadrare l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia come ideologicamente reazionario non basta. L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), è un libro ardimentoso. Non esattamente un saggio sulla scuola. Un libro molto emotivo e pesantemente autobiografico, poco documentato, sostenuto da una passionalità acre, benché non proprio distruttiva. La nostalgia del tempo che fu, dominante (quando non ottundente) nel ragionare dell’autore, circola da mesi sintetizzata nell’immagine della ‘predella’, la pedana sotto la cattedra, divenuta correlativo oggettivo dell’autorità degli insegnanti in un editoriale dello stesso Galli della Loggia (“Corriere della Sera”, 5.6.2018), che conteneva dieci suggerimenti all’allora neo-ministro Bussetti; il libro rilancia il decalogo rispondendo in modo articolato alle critiche, anche violentissime, piovute sull’editoriale. Ma c’è dell’altro. Anche qui, come nel suo Credere, tradire, vivere (Il Mulino, 2016), l’autore fa i conti con una gioventù infuocata e ‘marxisteggiante’ atterrata in una adultità acquiescente, responsabile e complice della paralisi attuale del Paese. In una prospettiva personalissima, l’analisi è intrecciata a un’autoaccusa che travolge un’intera generazione di intellettuali cosiddetti ‘di sinistra’. L’autodenuncia riguarda comportamenti omertosi e complici: “Chi, per esempio, lavorava all’università (è stato il mio caso) vedeva, sì, giungere ai propri corsi in sempre maggior numero ragazzi e ragazze privi dei più elementari punti di riferimento, incapaci di ripetere ragionamenti anche semplici in modo coerente e comprensibile, da un certo momento in poi addirittura non più in grado nemmeno di usare la punteggiatura […]. Ma – io e molti altri – abbiamo mantenuto il silenzio” (pp. 16-17).

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conness precarie

Quello che Marx non ha visto

Paola Rudan intervista Silvia Federici

La versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 30 gennaio 2020

dmo 014 ucIn occasione dell’uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (Roma, DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. Risalta il rapporto conflittuale di Federici con il pensiero di Marx, che considera tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per lei la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne – indigene, migranti, proletarie – sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.

* * * *

Ti chiederei in primo luogo di dirci che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che in realtà è stato evidentemente centrale sin dai tuoi contributi alla lotta per il salario contro il lavoro domestico ma che oggi mi sembra essere più aspro e polemico di quanto non sia stato allora.

Credo di capire perché si presenta come un rapporto più aspro e penso che ci siano due motivazioni. Una, più immediata, è relativa alla necessità di una critica più intensa anche in risposta all’ondata di celebrazioni che si sono fatte – ho partecipato a molte conferenze, a molti dibattiti – in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. C’era il bisogno celebrare, ma anche di domandarsi in che modo fosse necessario andare oltre. Ma la seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica si concentrava soprattutto sul fatto che Marx non ha visto tutta l’area della riproduzione e quindi il lavoro delle donne, e anche se questa tematica rimane, ho compreso negli anni ‒ o comunque argomentato ‒ che questa sottovalutazione del processo della riproduzione è collegata anche a un limite più profondo del pensiero di Marx con cui ci si deve confrontare.

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sbilanciamoci

Società signorile di massa o società signorile e basta?

di Fabrizio Venafro, Salvatore Bianco

In un suo recente libro Luca Ricolfi descrive l’Italia come una “società signorile di massa” consumista, parassitaria, imbelle. Ma dietro questa interpretazione si cela il tentativo di salvare il sistema e soggettivizzare le colpe, trovando un capro espiatorio nelle vittime

dore dante coverSe si volesse rintracciare una forma esemplare, nei suoi tratti anche estremi, del tipo di racconto emergente intorno alla società italiana, occorrerebbe riferirsi senza esitazioni a Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, che in un recente saggio, La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019), corroborato da una serie di interviste, delinea un regime sociale, per l’appunto signorile e di massa, che si sarebbe instaurato da tempo in Italia: «La tesi che vorrei difendere – dichiara l’autore – è che l’Italia è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò società signorile di massa, perché è l’innesto, sul suo corpo principale, che rimane capitalistico, di elementi tipici della società signorile del passato feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavoro sono più numerosi dei cittadini che lavorano».

L’enunciato è preceduto dall’espediente retorico del marziano esploratore, che consente al sociologo di imporre il suo quadro di realtà, riducendo le altre fosche narrazioni circolanti a mere fantasie o a luoghi comuni; osservando la penisola, questo viaggiatore dello spazio troverebbe tantissima «gente che non lavora, oppure lavora poco e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di vacanza», famiglie con due o più case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni, eccetera.

Che la formula adottata non sia per nulla provocatoria, ma vada presa alla lettera, è dimostrato dalla mole impressionante di dati forniti per descrivere un Paese che prospera, a suo dire, come una nuova Bengodi, dedito a consumi opulenti e sfrenati che coinvolgerebbero perlomeno tre quarti della popolazione (nel conto sono inclusi pensionati e giovani in età scolare), a fronte di una minoranza di produttori di appena il 39,9% e con un sistema scolastico compiacente che forma una generazione di giovani che «può permettersi il lusso di consumare senza lavorare».

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resistenzealnanomondo

Considerazioni intorno alla nuova legge francese di bioetica1

di Silvia Guerini

È aperta la strada alla riproduzione artificiale dell’umano. Contro l’eugenetica e l’antropocidio riaffermiamo con forza l’indisponibilità dei corpi e del vivente

SKMBT C224e19121010540 0001 2 2 scaled«Il “diritto di avere un bambino” delle persone con una sterilità organica o dovuta all’avvelenamento chimico e industriale dell’ambiente, delle donne sole e delle coppie dello stesso sesso serve oggi come pretesto alla generalizzazione della riproduzione artificiale, asservita ai piani e processi degli scienziati eugenisti e transumanisti e diventata la nuova norma».2

Il 21 gennaio 2020 in Francia è stato approvato definitivamente al senato l’Art. 1 del progetto di legge sulla bioetica3 che riguarda le nuove norme per l’accesso alle tecniche di riproduzione artificiale. Tutto il mondo della sinistra, a parte rare eccezioni4 criticate e tacciate di essere omotransfobiche, lesbofobiche, fasciste e reazionarie, ha accolto questa legge con entusiasmo sotto il segno della libertà, ma la “PMA per tutti e tutte” non è un grido di libertà e autodeterminazione, è un futuro a cui potremmo essere tutti e tutte condannate. Siamo di fronte a dei passaggi epocali che vanno compresi nel loro pieno significato e per le loro conseguenze sull’intera umanità.

La retorica dell’uguaglianza per aver esteso le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) alle coppie di lesbiche e alle donne sole maschera il reale significato di questa legge: la nuova legge apre il diritto alle tecniche di PMA, tra cui la fecondazione in vitro (FIV) con iniezione introcitoplasmatica (ICSI) dello spermatozoo, a tutte le donne aprendo definitivamente alla riproduzione artificiale dell’umano attraverso un processo che inizia con il tubo di plastica dell’inseminazione per terminare con la selezione genetica degli embrioni. “Tutte le donne” significa che qualsiasi coppia eterosessuale, comprese le coppie fertili, può avere libero accesso alle tecniche di riproduzione artificiale.

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frontiere

Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla

di Pier Paolo Dal Monte

greta thunberg Jody Thomas Bristol«C’è grossa crisi», direbbe Quelo, quella sorta di parodistica crasi di santone e telepredicatore che fu interpretato da Corrado Guzzanti.

La crisi, è l’«ospite inquietante» dei nostri tempi, accompagna sempre qualunque presente, con un montante subentrare di tante crisi: Leconomia, Lecologia, Lademografia, Lemigrazioni, Lapovertà, Lepidemie, Linflazione, Ladeflazione... un incalzare di crisi che riduce i poveri esseri umani come tanti pugili suonati che, incapaci di reagire, ricevono tutti i colpi che i mezzi di informazione riversano sulle loro povere menti.

Ovviamente, ora non possiamo parlare di tutte le crisi portate alla ribalta dall'inesauribile cornucopia dei mezzi di comunicazione; ci concentreremo, pertanto, su una sola di esse che, periodicamente (e ora, anche, prepotentemente), viene portata all'attenzione dell’opinione pubblica, ovvero quella che viene definita «crisi climatica» o «riscaldamento globale» che dir si voglia.

Questa volta, per creare sgomento nelle vittime della mitologia mediatica su questo «fantasma che si aggira per il mondo», non è stato utilizzato uno scienziato dal linguaggio algido e un po’ astruso, non un politicante imbolsito alla Al Gore, o un attore Hollywoodiano al guinzaglio (che, non si sa mai, avrebbe potuto essere fotografato alla guida di una Lamborghini o a bordo di un jet privato). No, niente di tutto questo.

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effimera

Austerity sfruttamento alienazione suicidio

di Stefano Lucarelli

Alberto Burri Rosso Plastica 1963 1200x972“Colpisci il passato al cuore, le illusioni di sempre …
Abbatti il futuro, se non ti appartiene”[1]

0. Ci sono parole che richiamano dei precisi stati d’animo estremamente duri da sopportare. Parole che investono l’esistenza sebbene la nostra mente sia propensa a metterle in disparte, abile come è a imporsi compiti apparentemente più urgenti, guidata dall’esigenza della razionalità, dalle necessità del momento o assuefatta dalla stanchezza. Eppure quegli stati d’animo stanno là, inamovibili, come inamovibili sono le condizioni che li determinano e che ci spingono verso un futuro che tendiamo ad accettare in modo inesorabile. I contenuti di alcuni libri usciti negli ultimi tempi, tra l’agosto 2018 e il gennaio 2020, offrono l’opportunità di una riflessione attorno a quattro parole pesanti – austerity, sfruttamento, alienazione, suicidio. Parole che possono gettare una luce sui nostri stati d’animo più reconditi.

 

1. Why auserity persists? Questa domanda sfiancante, che può suscitare noia o disperazione, a seconda della condizione delle nostre esistenze, è il titolo di un recente libro di Jon Shefner e Cory Blad (Polity Press, 2020). Shefner e Blad, sociologi impegnati rispettivamente nella University of Tennessee e al Manhattan College, analizzano diversi casi studio nel corso degli ultimi 45 anni, proponendoci una storia dell’austerity, intendendola – qui sta il punto di massimo interesse – come vero e proprio modo di regolazione, un insieme di politiche volte a governare diverse tipologie di crisi realizzando, o meglio imponendo, delle nuove strutture istituzionali.

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contropiano2

Il business 5G, problema ancora troppo sottovalutato

Aspetti normativi e pericoli per la salute

di Rosanna Suozzi* e Arturo Raffaele Covella**

5 GLo scrittore statunitense Jonathan Franzen, nella sua recente raccolta di saggi, asserisce che “La tecnologia digitale è un capitalismo in iperguida, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto della nostra vita” ……“Forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità gratuita di Google, il conforto di Facebook e la fidata compagnia di un iPhone” (pagina 72) La fine della fine della terra”, di Jonathan Franzen, Einaudi, 2019.

Che sia un precipuo interesse, puramente economico, è evidente anche da quanto emerso nel corso della prima riunione del Consiglio dei ministri del governo Conte bis. In quella occasione, infatti, il nuovo esecutivo ha attribuito, ipso facto, piena facoltà, sulle operazioni di ben quattro società, relativamente agli accordi con Huawei e altri operatori extra-Ue, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza nazionale.

In pratica, siamo di fronte all’attivazione del cosiddetto “golden power” (letteralmente potere d’oro, in realtà particolari poteri, fruibili dal governo italiano, per rafforzare e proteggere una società che ha rilevanza strategica nazionale) che configura “l’esercizio dei poteri speciali esteso ai settori cosiddetti ad alta intensità tecnologica” (DL16 ottobre 2017, n.148 (convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2017, n.172). Si delineano, pertanto, precisi intrecci tra presunta sicurezza nazionale e business allo stato puro, allettando così operatori e partner extra-europei ad entrare nella rete 5g italiana.

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ilpedante

L'uomo artificiale

di Il Pedante

robot 3 b aNon passa giorno senza che ci si imbatta nell'annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell'intelligenza artificiale: quella all'indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l'uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l'avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell'Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell'essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell'ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l'illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell'assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.

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osservatorioglobalizzazione

Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega

Dibattito sull’Iri

di Andrea Muratore

Ilva TarantoNelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.

Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.

L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente.

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badialetringali

Sulle élite contemporanee

di Marino Badiale

0 18169I. La revoca del mandato celeste

Nelle analisi della situazione sociale e politica attuale nei paesi avanzati, è ormai un dato acquisito l’esistenza di una particolare frattura sociale e culturale. Abbiamo da una parte un ceto, relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova natura transnazionale del capitalismo contemporaneo: persone dotate di conoscenze e capacità (in primo luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo) che le rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto il globo, prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a forte componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu. Si tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle possibilità che la sua dinamica crea. All’interno di questo ceto spiccano ovviamente i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili occasioni; ma il ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto esclusivamente da uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo stile di vita e la visione del mondo degli attuali ceti dominanti. Per chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta cerchia di chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano a Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi globalizzati” intendendo quella strato sociale che abbiamo descritto nelle prime righe, minoritario ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”. Parleremo infine di “élite contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi.

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la citta futura

Il futuro dei movimenti nel XXI secolo

di Giovanni Bruno

Movimenti sovranisti, ambientalisti, democratici caratterizzano lo scenario politico internazionale. Che cosa rappresentano?

e2e115291caecd139c30bfc952dfef42 XLSi stanno diffondendo nel mondo attuale tre tipi di movimenti: quelli cosiddetti sovranisti, che sono sostanzialmente critpo o esplicitamente fascisti; quelli transnazionali, come il Fridays For Future e Extinction Rebellion per la salvaguardia del pianeta contro i cambiamenti climatici e il rischio di estinzione dell’umanità e della vita in generale; e movimenti politico-sociali che insorgono contro politiche antipopolari e iper-liberiste e governi illiberali e autoritari.

Il primo movimento rappresenta un vizio antico riproposto in forme apparentemente nuove: la tendenza autoritaria e protezionistica che emerge nelle fasi di crisi del sistema, quando da un ciclo espansivo si passa ad un ciclo recessivo, si presenta con caratteristiche costanti, pur nelle novità dovute all’epoca storica nuova.

Dopo la crisi del ’46-’47 del XIX secolo, allo scoppio rivoluzionario del “biennio rosso” ottocentesco 1848-49 seguì una “seconda restaurazione” (con l’avvento del Secondo Impero in Francia, e il riassetto del potere assolutistico in Germania, Austria, Italia), così come il crollo che provocò la prima “Grande Depressione” (1873-1896) indebolì i regimi liberali inasprendo gli elementi di autoritarismo (ad esempio in Germania, dove Bismarck fece emanare una legislazione anti-socialista, o in Italia in cui, dopo il governo Depretis, vi fu una svolta dai tratti bonapartisti con Francesco Crispi).

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figure

La sinistra e il movimento

di Figure

7c06c4 0032c00dc00c4248845ecda0916355d4 mv2Autunno 2018, il primo numero di Jacobin Italia esce con il titolo: Vivere in un paese senza sinistra. Autunno 2017, il centro sociale Je So Pazzo propone l’idea che darà vita al movimento-partito Potere al popolo!. Lo slogan di lancio era: Nessuno ci rappresenta: facciamolo noi!

Due immagini, fra le tante, indicative della situazione italiana. Un paese in cui il centro sinistra – con i suoi partiti più o meno grandi – si è appiattito su posizioni liberiste. Il centro sinistra è spesso nominato come sinistra liberal; tale nomignolo gli viene attribuito perché è formalmente attento alle diversità e ai diritti civili, ma arreso davanti al problema delle disuguaglianze socio-economiche. Si tratta della sinistra accusata di essere buonista e allo stesso tempo incapace di opporsi alla macelleria sociale del capitale, nostrano e forestiero. Il PD, i suoi tardi secessionisti di LeU, gli amici della liberista Emma Bonino e così via; tutti talmente impauriti che il sistema produttivo italiano possa scivolare nel baratro del terzo mondo da aprire le porte ai peggiori espropriatori di ricchezza, purché anche sopra l’Italia continui a passare qualche flusso internazionale. È la sinistra che ha archiviato i miraggi del comunismo per farsi anti-berlusconiana e poi più nulla: balbettante davanti all’ascesa del Movimento 5 Stelle e impotente di fronte all’irruenza della destra nazionalista di Salvini. È la sinistra che negli ultimi anni ha sostituito le sue parole chiave con quelle proprie del neoliberismo: libertà (d’impresa), tolleranza, differenza, merito, competizione. Ha abbracciato così i processi di invidualizzazione di massa cedendo al mercato il ruolo di pianificare la società. Il progetto ha mostrato le sue debolezze e si può dire fallito, non a caso le destre reazionarie battono i loro colpi su concetti diametralmente opposti, si torna a parlare di identità, nazione, razzismo, famiglia tradizionale (con il rischio di derive patriarcali).

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chefare

Che cos’è il nuovo lavoro culturale, dal boom dei creativi al crollo del valore

di Bertram Niessen

Il saggio di Bertram Niessen è estratto dal volume Platform Capitalism (Mimesis) a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, Maurizio Teli. Questo testo racconta la storia di un circolo vizioso. Il numero di lavoratori delle industrie culturali e creative è aumentato costantemente per decenni, mentre il valore del loro lavoro è tendenzialmente declinato. Ma quali sono, nel dettaglio, i meccanismi di questo crollo? E quali sono le risposte possibili che si profilano all’orizzonte?

980px Memory and intellectual improvementNella prima parte di questo capitolo analizzerò brevemente alcune delle principali dinamiche sociali, tecnologiche e politiche che hanno causato questa situazione. Nella seconda, prenderò in considerazione alcune delle principali pratiche utilizzate per cercare delle soluzioni.

 

ICC: la promessa del nuovo boom, la classe creativa e il nuovo spirito del capitalismo

Negli ultimi decenni è aumentato esponenzialmente il numero di figure con curricula professionali legati alla creatività, alla cultura e all’arte, di pari passo con l’ampliamento di quel vasto settore del terziario avanzato che va sotto la definizione di Industrie Culturali e Creative (ICC).

Sotto la definizione di ICC ricadono settori molto diversi tra loro. Una tassonomia utile per quanto trattato in questo capitolo è quella adottata dalla Fondazione Symbola, che include: arti performative e arti visive; gestione del patrimonio storico artistico (che comprende tutte le attività che hanno a che fare con la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio, come musei, archivi, biblioteche, monumenti, ecc.); industrie culturali (attività orientate alla produzione di beni che operano con modalità industriali basandosi su contenuti ad alto tasso creativo o culturale: cinema, televisione, editoria, industria musicale, videogiochi, ecc.); industrie creative (attività legate al mondo dei servizi che hanno negli elementi immateriali il loro carburante principale: design, architettura e comunicazione); produzione di beni e servizi creative-driven (quelle attività che trovano il proprio valore aggiunto nella cultura e nella creatività pur senza esservi direttamente collegate).

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kabulmagazine

Non-paradossi delle mobilità umane del XXI secolo

di Salvatore “Turi” Palidda

Schermata a 2019 12 08 08 27 13Da diversi anni la cosiddetta “questione demografica” è diventata una delle principali preoccupazioni di alcuni demografi, anche se le autorità politiche sembrano evitare di parlarne. Che si tratti dello spettro dell’aumento considerato incontrollato della popolazione mondiale, che alcuni sovrappongono alle conseguenze dei cambiamenti climatici e quindi al terrore per migrazioni che a certi dominanti appaiono come minacce di future invasioni distruttive dei paesi detti benestanti, o che si tratti del continuo declino demografico nella vecchia Europa (dall’Atlantico agli Urali), la questione demografica e le migrazioni (e anche l’emigrazione degli stessi abitanti dei paesi ricchi) appaiono come il più grosso problema che incombe sul pianeta tanto quanto la sola questione del riscaldamento climatico. In realtà, il primo gigantesco problema sta nello sviluppo economico che esaspera le diseguaglianze tra una minoranza di miliardari e milionari e delle loro lobby e la maggioranza della popolazione che, sia nei paesi poveri che in quelli ricchi, è a rischio di impoverimento e delle devastazioni che provocano malattie e morti da contaminazioni tossiche oltre che da incidenti sul lavoro ed economie sommerse. Ricordiamo che la maggioranza dei decessi è dovuta a malattie da contaminazioni tossiche, incidenti sul lavoro, malnutrizione, mancanza di cure, e in generale a invivibili condizioni di lavoro e di vita (e questo riguarda sia la maggioranza dei circa 60 milioni di morti l’anno a livello mondiale sia quelli nei paesi detti “ricchi”).

Tuttavia, di tali questioni se ne parla poco e anche gli esperti democratici e gli umanitari ne discutono restando spesso pervasi da categorie e paradigmi assai discutibili. È invece proprio su tali questioni che appare cruciale la necessità di decostruire i discorsi dominanti e adottare un approccio critico che possa permettere di dire la verità al potere, come insegna la pratica della parresia di Socrate ripresa da Foucault.

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tempofertile

Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”

di Alessandro Visalli

folkert de jong f01fced4 2a64 47fd a783 b58939f5a7d resize 750 1Il libro di Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume[1], che fa del dato uno scopo morale, è un testo a tema, costruito intorno ad un’aspra forzatura linguistica e un violento strattonamento, sia del linguaggio sia dei dati stessi. Un testo infarcito, anzi intessuto, di ideologismi e di autentici falsi, non numerosi ma decisivi. Alcune delle cose che scrive l’autore sono anche interessanti, alcune sono pezzi di verità, anche dolorosa, ma tutto è fondato su un’attitudine a far passare la descrizione del reale proposto per inevitabile stato del mondo ed il particolare come generale, il contingente come strutturale, la causa come effetto. I pensionati che sostengono i nipoti, in parte o in sostanza, in Italia sono solo il 14%, ovvero sono circa duemilioni, ovviamente da individuare nello strato più abbiente, dato che dei 17 milioni di pensionati 10 vivono con meno di 750,00 euro al mese, e l’importo medio erogato è di 1.100,00 euro al mese[2]. Il reddito lordo procapite è di 21.000,00 euro all’anno, sotto la media europea[3], ad onta dell’essere un paese con consumi di massa “opulenti”. Soprattutto gli “insoddisfatti” del proprio livello di reddito sono in Italia la metà della popolazione, con grandi differenze geografiche, dal minimo del 40% al Nord al quasi 70% nelle isole[4], e se si passa al giudizio sulla situazione familiare non è molto diverso, il 57% la giudica “adeguata” (63% al nord). Come si faccia, su questa base, a giudicare la società italiana una “società dei tre quarti” si spiega solo se i dati sono selezionati tra quelli presenti e le definizioni, come è, tra quelle degli anni che vanno dai settanta ai novanta e dalla letteratura della insorgenza neoliberista[5].

Tutto questo indicherebbe, naturalmente dando altri e ben selezionati numeri e stime, per Ricolfi una condizione “signorile di massa”. Una condizione che si associa ad una condizione “servile” di alcuni milioni di immigrati e di italiani in condizione di semi-povertà.

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Coordinamenta2

“Venezia”

di Elisabetta Teghil

venezia 3 1024x681… e adesso s’è rivà el momento de dirghe basta e de cambià…                                      Giudeca, canzone di Alberto D’Amico,1973

Ho passato a Venezia una parte di tutte le estati della mia vita fino a vent’anni. Poi i tamburi di rivolta sono stati coinvolgenti e totalizzanti e non c’è più stato spazio neanche per Venezia. Mi è rimasto per sempre stampato nelle mie sensazioni l’odore dell’acqua salsa dei canali, il rumore delle onde leggere che sbattono sulle rive, il risuonare dei passi, nella calli lontane dal turismo, della vita quotidiana di una città che va sempre a piedi. Ora, quando, per qualche motivo, ci torno mi ritrovo a camminare inconsapevolmente con piede leggero quasi a non volere pesarci su. Da anni ormai, Venezia è sommersa dall’acqua alta in maniera più violenta e continuativa che mai, la sua laguna è percorsa da navi da crociera più alte del campanile di San Marco per non parlare delle petroliere che vanno e vengono da Marghera, è invasa da masse debordanti di turisti. Ma al di là delle belle parole, delle frasi fatte e delle vesti stracciate, di Venezia non gliene importa niente a nessuno. Non importa niente ai politici locali e nazionali perché altrimenti in tutti questi anni avrebbero fatto ben altre leggi e preso ben altri provvedimenti, non importa ai turisti che si riversano in ondate, questa volta umane, incontenibili e che, se fossero coscienti di quello che fanno, a Venezia non ci dovrebbero venire, non gliene importa niente neanche alla maggior parte dei veneziani perché <fin che ghe semo noi, no che non va zò>. D’altra parte il capitalismo è un modello economico basato sul profitto e nella sua attuale fase neoliberista, caratterizzata da un delirio di onnipotenza, tutto è merce, il turismo è merce, le navi da crociera sono merce, il Mo.s.e. è business, Venezia è merce, è una gallina dalle uova d’oro e le faranno fare le uova d’oro finché non stramazzerà per terra.

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la citta futura

La scuola delle competenze?

di Alessandro Pascale

Si è svolto il 14/11/2019 alla Casa della Cultura di Milano un incontro sul tema “Una scuola senza cultura e senza conoscenza? Dalla cancellazione del tema di storia a quella delle discipline”, relatori i docenti Giovanni Carosotti, Vittorio Perego, Marco Cuzzi (UNIMI, Milano), Lucio Russo (Uni Tor Vergata, Roma)

baaf5d6d38e5d33511540930e16b192b XLLa storia sotto attacco e i progetti ministeriali

Mentre inizia a parlare, Carosotti mostra una dichiarazione dell'Associazione Nazionale Presidi (ANP): “Scuola senza materie, la sfida della scuola del futuro”. Una follia, eppure Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli sulla Stampa porta avanti periodicamente questa campagna, senza contraddittorio. Secondo Carosotti l'abolizione del tema di storia non è parte di una politica disciplinare ma rientra nell'ambito di un progetto sistematico che va avanti da 25 anni e la cui ultima tappa è la modifica dell'esame di Stato che fa sparire di fatto l'interrogazione sui contenuti disciplinari. I dirigenti ora tendono a imporre ai dipartimenti le programmazioni per macro-argomenti (UDA), che insistono nell'indicazione delle “competenze” più che sui contenuti, suggerendo di ridurre al minimo le lezioni frontali in classe da parte del docente. È la trasformazione delle discipline in discipline trasversali. Che dire poi dell'ultima uscita del ministro Fioramonti che propone di introdurre la “educazione ambientale”? Carosotti spiega che è una cosa che si fa già di fatto, a partire dalle materie coinvolte. Riguardo all'insegnamento di storia e filosofia le indicazioni ministeriali sono portate a vederle come qualcosa che fornisce “pillole”, “spunti per gli studenti”. Quali sono le conseguenze sul lungo periodo per studenti che non conoscono argomenti non trattati dal docente perché non inseribili nelle UDA?

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carmilla

La barricata mobile delle resistenze urbane

di Fabio Ciabatti

Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli, a cura del Laboratorio Crash, Red Star Press 2019, pp. 297, € 17,00

8275582470 96e4f3a88a z“Il cittadino e l’abitante della città sono stati dissociati”, sostiene Henri Lefebvre in uno dei suoi ultimi scritti. Di fronte a questo fenomeno bisogna rilanciare il diritto alla città e cioè una “concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica”. Sebbene le analisi di Lefebvre rimangano imprescindibili per comprendere il nostro presente, possiamo ancora oggi fare nostra la sua prospettiva di un nuovo incontro tra cittadino e abitante urbano o dobbiamo fare un passo oltre? Si può partire da questa domanda per esporre i contenuti del libro Il campo di battaglia urbano, volume che presenta una selezione di testi, compreso l’articolo da cui abbiamo tratto le citazioni di Lefebvre1 e un’intervista a David Harvey, emersi da un percorso di elaborazione teorica sull’urbano articolato in convegni, dibattiti e produzione di scritti, promosso tra il 2017 e il 2018 dal Laboratorio Crash di Bologna.

Come possiamo concettualizzare le dinamiche che investono oggi la città? Secondo il Laboratorio Crash il territorio non va ridotto a un ambiente ostile alle classi subalterne come se esso fosse meramente funzionale alla produzione capitalistica e alla vita degli abitanti più ricchi. Allo stesso tempo nelle città facciamo fatica a trovare ancora i vecchi quartieri proletari, solidali e pronti alla lotta, perché in assenza di intervento politico spesso prevalgono l’anomia, la solitudine, la disgregazione, la rabbia cieca. Prodotto di una relazione antagonistica il territorio non esiste come forma predefinita e unitaria: non è un background ma un battleground.

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linterferenza

Marx e la maternità surrogata

di Gabriele Pastrello

Condivido completamente questo articolo dell’amico Gabriele Pastrello, docente universitario e rigoroso studioso e intellettuale marxista.

Mi permetto solo una sola ma importante nota. Gabriele analizza (e stigmatizza) giustamente la pratica della “maternità surrogata” (leggi utero in affitto) e l’ideologia (capitalista), cioè il processo di mercificazione ideologica e pratica che gli sta alle spalle. La sua analisi si concentra però “solo” sugli effetti subiti dalle donne, sulla mercificazione (di fatto spesso coatta) del loro corpo e delle loro vite.

Non fa cenno però delle altre vittime di tale processo, e cioè i figli concepiti con tale pratica, di fatto ridotti a oggetti che possono essere venduti e comprati, con tutti i (devastanti) risvolti psicologici e umani che tutto ciò comporterà sulle loro vite.

Ma sono certo che non si tratti di una omissione e che Gabriele sia ben consapevole della questione che sicuramente non tarderà ad affrontare. [Fabrizio Marchi]

utero affitto 1 large 300x2191) Premessa (un ripasso di Marx)

Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili (anche se qualche eco di quegli scritti risuonerà qui sotto), né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.

Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la propria novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.

Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare che ciò di cui si trattava la vendita era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica (idealistica?), o forse non di comprensione immediata, la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro).

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tempofertile

Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”

di Alessandro Visalli

malpasoIl libro del 2017 di Nick Srnicek, autore con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista[1], svolge un’analisi della nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente nel manifesto.

Anche ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O, almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.

La lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”. Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.

Per capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi in cui essa si è sviluppata.

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figurerivista

Il sogno di Achille

Cosa resterà di questi anni ottanta

di Figure

Ciò che dà spinta al mondo non è il crollo ma il sorgere ovunque di realtà nuove. Tutto nasce dal muro di Berlino. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede il movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica

Avvertenza: Tutte le parti scritte in corsivo sono parole di Achille Occhetto tratte variamente da: il Comitato Centrale del PCI tenutosi tra il 20 e il 24 Novembre 1989 a Roma, il XIX Congresso straordinario del PCI tenutosi tra il 7 e il 11 Marzo 1990 a Roma e il XX Congresso del PCI – PDS tenutosi tra il 31 Gennaio e il 3 Febbraio 1991 a Rimini

occhettodalIl 9 Novembre 1989 cade il Muro di Berlino. Tre giorni dopo, il 12 Novembre, a Bologna il segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, dichiara di voler proporre al partito – e di fatto con quel gesto propone – di concludere l’esperienza del PCI e costituire una nuova forza politica. Il 3 Febbraio 1991 a Rimini si scioglie il PCI e nasce il Partito Democratico della Sinistra; qualche mese dopo, il 12 Dicembre, i contrari alla liquidazione del PCI fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Il 26 Dicembre dello stesso anno ufficialmente l’Unione Sovietica smette di esistere. Un mondo l’ordine delle cose per come era stato conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale finisce. La configurazione internazionale definita al tavolo di Jalta da Churchill, Stalin e Roosevelt e caratterizzata dalla divisione del globo in due blocchi ideologicamente contrapposti, finisce. Finisce la conformazione del sistema politico italiano per come si era stabilizzata dopo la costituente a rispecchiamento della situazione internazionale: un governo a trainante democristiana di volta in volta appoggiato dal centro sinistra o dalla destra, e il PCI all’opposizione. Non è solo una questione di alte sfere della politica, in Italia sono le identità individuali di almeno tre generazioni di comunisti cresciuti tra le braccia del partito che vedono la realtà e la loro posizione in questa diventare incomprensibili; e non è solo una questione di comunisti: sull’anticomunismo sulla paura dei rossi e della loro incapacità a governare la DC ha costruito durante tutta la Prima Repubblica la sua legittimità, malgrado il marcio e gli scandali, malgrado le bombe, i tentativi di golpe e la mafia; malgrado tutto. È la fine di un mondo e, come al solito, l’inizio di uno nuovo.

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Anticapitalismo

di Figure

mustoOrmai da decenni il concetto di lotta di classe appare insufficiente per le pratiche politiche che si vogliono anticapitaliste. I discorsi più diffusi negli studi accademici e nella sinistra anticapitalista – che si tratti di partiti, sindacati o movimenti – attribuiscono questa insufficienza principalmente a due ragioni. La prima riguarda un cambiamento del sistema produttivo; la seconda l’emersione di nuovi soggetti politici.

Iniziamo dalla prima. Si narra che da quando ha avuto inizio la fase post-fordista l’operaio abbia perso la sua centralità nel sistema produttivo. Esagerando possiamo dire che non ci sono più abbastanza operai sufficientemente concentrati in grandi complessi industriali da poter creare conflitto nei luoghi di lavoro, anche in virtù di una diminuzione del loro potere all’interno della produzione capitalistica.

Di certo questa è un’esagerazione. Fine della fabbrica fordista non significa fine del lavoro operario. Fine del lavoro operaio non significa fine del lavoro. Inoltre, quello di classe è sempre stato un concetto sfuggente e variamente interpretato, ma non si è mai trattato di una semplice constatazione sociologica, dire classe non ha mai solo voluto dire; operai, impiegati, ingegneri, architetti, insegnanti, imprenditori, precari, garantiti e via dicendo. La classe è piuttosto l’indicatore di un rapporto di potere: sfruttati e sfruttatori; padroni e servi; lavoratori e capitalisti.

Il concetto di lotta di classe appare insufficiente per le pratiche politiche che si vogliono anticapitaliste

Tale rapporto evidentemente non si è esaurito nemmeno con il passaggio al post-fordismo, ma sicuramente è mutato.

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paginauno

Smart city

Sorveglianza, mercificazione, alienazione, ricatto, tecnocrazia

di Elisabetta Groppo

Chinas Big Brother smart cities 1Ciao cittadino. Sono la tua Smart City. Abbandona i bigliettini appesi al frigo, le biglietterie, le code. Dimentica gli sportelli del Comune, le sale di attesa. Scarica la app e dammi accesso a tutti i tuoi dati e permettimi di geolocalizzarti. Penserò a rilevare l’inquinamento atmosferico nel tuo giardino, a calibrare l’energia della tua casa, a controllare chi si aggira nel tuo quartiere e quante car sharing vi transitano. Controllerò anche se fai bene la raccolta differenziata dei tuoi rifiuti. Segui le notifiche che ti trasmetto: stai pagando le bollette, mentre il cardiologo sta visitando per via telematica i tuoi anziani genitori; i tuoi figli sono arrivati a scuola. La tua idea è già start up. Ho appena integrato il tuo fascicolo sanitario elettronico alla nuova polizza che hai stipulato. Hai raggiunto l’obiettivo green di questo mese: hai usato mille volte la ciclabile.

Non è Black Mirror, è la Smart City: efficiente, alla moda, coinvolgente, amicale, ambientalista, ricca di opportunità. Un’idea e una narrazione positiva divenute dominanti. Ma che cos’è davvero una Smart City? Chi, come, quando, perché?

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Il quadro programmatico

Nel 2013 la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) redige un report monografico: “Smart City. Progetti di sviluppo e strumenti di finanziamento”. La Smart City è descritta come “una proiezione astratta di comunità del futuro”, un perimetro “applicativo e concettuale” all’interno del quale i “bisogni trovano risposte in tecnologie, servizi e applicazioni”. Una sfida, secondo la CDP, dove al centro è posta “la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica e immateriale che faccia dialogare persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano”.