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Lotte sociali in Italia

In ordine sparso contro la Crisi


L'Italia, come altri paesi d'Europa e non solo (si pensi ai recenti scontri nel nordafrica), da qualche mese a questa parte è teatro di lotte sociali a cui non si assisteva da tempo, sia per numeri che per intensità.

Già due anni fa il movimento studentesco dell' »Onda Anomala« aveva coinvolto migliaia di studenti universitari contro l'ennesimo episodio di disinvestimento nei confronti dell'Università pubblica (i famigerati tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario presenti nel documento di programmazione economico-finanziaria estivo). Esso si unì alle più generali mobilitazioni del mondo della formazione che vedevano coinvolti studenti medi e insegnanti della scuola primaria e secondaria contro le riforme della scuola del Ministro Gelmini.

Esso però, non riuscendo ad intercettare un più generale malcontento della società (anche quello antigovernativo della sinistra »legalista«, nella veste del quotidiano La Repubblica, accompagnò solo i primi passi del movimento), rimase sostanzialmente isolato fino a spegnersi inesorabilmente con il calo fisiologico post-autunnale, ottenendo poco o nulla.

Con l'acuirsi della crisi economica il 2010 ha però visto il susseguirsi di lotte più o meno silenziose nel o per il posto di lavoro, per la tutela del territorio (l'Aquila, Terzigno) e diffusi episodi di malcontento antigovernativo; un momento importante di questa serie è stato rappresentato dal tentativo coraggioso di resistenza degli operai dello stabilimento FIAT di Pomigliano al ricatto dell'AD Marchionne, che, sotto la minaccia di delocalizzare gli impianti, ha operato una stretta pesante sui diritti sindacali nonché imposto delle condizioni di lavoro ancor più gravose.

Rimasta isolata dagli altri sindacati confederali (Fim-Cisl, Uilm-Uil), la FIOM, la categoria sindacale dei metalmeccanici della CGIL, e i sindacati di base, hanno ottenuto il sostegno e il consenso di larga parte del paese.

Contemporaneamente maturava la crisi interna alla maggioranza, con la definitiva rottura tra il presidente della camera Gianfranco Fini e Berlusconi. Mentre pezzi della borghesia italiana (soprattutto quella del grande capitale industriale) e straniera (si vedano i continui attacchi dell' Economist) abbandonavano progressivamente il loro sostegno al presidente del consiglio, i continui scandali sulla sua vita privata e sull'uso personale dei soldi e delle strutture pubbliche ne minavano inesorabilmente il consenso.

In tutto questo ricominciavano le agitazioni all'interno delle Università. La contestazione ad un'imminente riforma dell'istruzione terziaria, cominciata dalle proteste dei ricercatori penalizzati in termini economici e contrattuali, ha sin dall'inizio delle lezioni coinvolto molti studenti universitari contro questo disegno di legge che prevedeva un'ulteriore svolta in senso dirigista nella struttura gestionale dell'università (che avrebbe visto per la prima volta coinvolti soggetti non appartenenti al mondo accademico, ma possibilmente a quello economico e politico, nella sua diretta gestione), nonchè una fumosa ristrutturazione del »diritto allo studio« che, accompagnato alla riduzione delle risorse ad esso destinate, annunciava un suo sostanziae smantellamento.

Quando la Fiom chiamò una giornata di manifestazione per il 16 ottobre, queste diverse sensibilità trovarono il loro luogo e momento di convergenza. Un largo spettro di soggettività non solo legate alla condizione operaia (studenti, lavoratori della conoscenza, movimenti per l’acqua pubblica, associazioni di cittadini impegnati sui temi della legalità, popolo viola, ecc.), si aggregò attorno al sindacato dei metalmeccanici in quella partecipatissima giornata.

Quella data, seguita il giorno dopo da un'assemblea nazionale presso l'università La Sapienza di Roma, segnava il primo passo verso un tentativo di ricomposizione politica forse più annunciato che effettivamente praticato. Da quel giorno in poi una serie di assemblee, convegni, episodi di piazza condivisi, ecc., rappresenteranno il tentativo arduo, contraddittorio, spesso solo simbolico, di costruire un percorso di lotta comune tra il frammentato mondo del lavoro, e un mondo della formazione che, anche se quasi esclusivamente nelle pratiche politiche degli studenti universitari, manteneva un costante stato di agitazione nella battaglia contro le ristrutturazioni del ministro Gelmini.

In un clima di subbuglio sociale più o meno manifesto, proseguiva intanto la crisi interna alla maggioranza che si vedeva costretta a programmare il rinnovamento della fiducia delle camere al governo per il 14 Dicembre. I movimenti sociali coglievano allora l'occasione per manifestare la loro sfiducia, una sfiducia che non avesse bisogno di passare per gli equilibrismi parlamentari, ma fosse costruita dal basso; e lanciavano un appuntamento in piazza per la stessa data.

Quel giorno, mentre dentro al palazzo la compravendita di parlamentari garantiva appena la sopravvivenza del governo Berlusconi, in strada giovani studenti, lavoratori e disoccupati mettevano a ferro e fuoco la città. Le azioni di piazza hanno avuto il largo sostegno degli studenti, che si sono sottratti al gioco dei politici riformisti che cercavano di distinguere tra studenti »buoni« e »cattivi«. Un momento che, pur nelle sue contraddizioni e nel suo carattere sostanzialmente episodico, ha rappresentato un'occasione di incontro e cementificazione tra diverse soggettività nella pratica stessa del conflitto. Questo avrebbe avuto in parte conferma quando poco tempo dopo l'AD della Fiat Marchionne tornava a ricattare gli operai della fabbrica torinese, minacciando ancora una volta che avrebbe chiuso lo stabilimento di Mirafiori (il più grande complesso industriale italiano) se non fosse stato accettato un nuovo accordo che comportava, oltre ad un appesantimento delle condizioni di lavoro, la sostanziale abdicazione ai più importanti diritti sindacali, e la Fiom e i sindacati di base (gli altri sindacati confederali si schieravano nuovamente a fianco della dirigenza aziendale) non si sarebbero trovati soli nel contestarlo. Nonostante la sconfitta di poco nel referendum, che ha comunque dato un segnale della determinazione dei lavoratori nel non cedere al ricatto, molteplici episodi di sostegno e solidarietà sono giunti da larga parte del movimento studentesco e non solo, che ha subito aderito allo sciopero del 28 Gennaio.

La Fiom, il sindacato dei metalmeccanici italiani, è stata ed è, rispetto al capitale, un contropotere o un cogestore, a seconda delle situazioni; il suo radicamento di base è classicamente operaio, sebbene, oggi, con una nuova composizione sociale e politica (giovani, migranti e anche donne). A differenza di quanto avviene in altri Paesi europei non stanno sorgendo in Italia, accanto ai sindacati storici, nuove forme di organizzazione operaia. Piuttosto si è dato negli ultimi mesi un'alleanza informale sotto il nome di "Uniti contro la crisi" tra la Fiom e altri soggetti di base (*alcuni centri sociali che gravitano intorno ai cosiddetti disobbedienti*). Si tratta al momento di un tentativo di tenere insieme le proposte più prettamente welfaristiche (reddito di cittadinanza) con quelle storiche dei sindacati (condizioni di lavoro); significativamente lo slogan con cui si sono aperti i cortei allo sciopero del 28 gennaio 2011 era: »Il lavoro è un bene comune«.

Oscillando tra genuini momenti di confronto e di conflitto attraversati insieme e alleanze tattiche, manovre para-istituzionali e incontri più o meno simbolici, continuano ad intessersi relazioni tra il mondo del lavoro e quello della formazione in lotta.
Le radici del disagio

L’Italia ha una economia che negli ultimi due decenni ha visto l’abbandono della grande impresa (che pare ora compiersi con il destino della Fiat), la privatizzazione del pubblico trasformato in facile rendita per il privato, la crisi dei distretti industriali, il perdurante nanismo industriale. Allo stesso tempo ha visto l’emergere di una piccola e media impresa vitale, le c.d. multinazionali tascabili. Quello che viene chiamato il »quarto capitalismo« d’Italia è quindi una combinazione del primato nella deregolamentazione del mercato del lavoro, la sua frantumazione nelle imprese grandi e piccole, la precarizzazione sempre più accelerata, con la capacità di essere il secondo esportatore di manufatti in Europa, anche in nicchie e settori significativi. Essa è dunque un anello di congiunzione tra la produzione ad alta composizione tecnica di capitale del nord, che produce beni di consumo di alta gamma, e quella ad alto sfruttamento dell’est europeo e asiatico, dove condizioni di lavoro a basso costo e alta durata e intensità di lavoro si accompagnano talora, a differenza del vecchio sottosviluppo, a una capacità di ingresso in settori non maturi, e in produzioni relativamente avanzate.

Interi settori delle ricerca tecnologica italiana, come la chimica e l’elettronica, sono stati smantellati e si sono cantate le lodi del miracolo economico del nord-est: un’economia a bassi investimenti che ha compensato l’impiego di bassa tecnologia e la ricerca quasi inesistente con orari di lavoro elevati ed estesi al sabato e alla domenica, con la polverizzazione del tessuto produttivo e la desindacalizzazione del territorio. Dove sono rimasti l’investimento e la tecnologia, la subalternità del lavoro si è comunque mantenuta e aggravata, anche in forza di una strutturazione a rete del nuovo capitalismo che ha superato la dicotomia tra grande impresa (nella quale si dava unità di tetto, unità di condizione lavorativa, unità di contratto) e piccola impresa. Questa centralizzazione senza concentrazione di capitali è stata resa certamente possibile dalle innovazioni nei trasporti e nelle comunicazioni, come anche nell’elettronica e nell’informazione, ma è stata anche e soprattutto la risposta ad un’alta conflittualità che induce ancora nella classe capitalista la paura di fronte alle grandi concentrazioni operaie.

I processi di individualizzazione dei contratti di lavoro e di smembramento del collettivo lavorativo hanno raggiunto livelli parossistici e talvolta controproducenti per la stessa attività lavorativa. Ma in questo scenario le giovani generazioni hanno trovato anche il mare in cui nuotare, rifiutando, quando possibile, di rimanere incastrati a vita in lavori monotoni, ripetitivi o a basso salario. Le giovani generazioni vivono grazie a sussidi, risparmi dei genitori e, spesso, nella casa in proprietà dei genitori, con una restrizione die consumi e con il lavoro nero. Quasi un terzo dei giovani italiani è disoccupato: ma tra di essi, molti sfuggono a un destino di precarietà o di abbassamento delle loro aspettative. Quello che i sociologi chiamano mismatch nel mercato del lavoro, cioè la presenza di disoccupati e posti di lavoro disponibile, si sta incrementando. I giovani con elevate credenziali formative non trovano un lavoro corrispondente. Sono questi giovani, insieme con chi è ancora all’interno del sistema formativo e ha già capito le misere prospettive future, lo zoccolo duro della protesta.
Il recupero di una dimensione collettiva

In questo quadro di dissesto economico e sociale, a cui si è sovrapposta la crisi istituzionale e politica del governo Berlusconi, si sono inscritte le lotte dell'ultimo anno.

Se in questi ultimi anni la precarizzazione agìta come strumento psicologico e ideologico di governo della manodopera ha messo gli uni contro gli altri, queste lotte sembrano lentamente riprendere il filo rosso della dimensione collettiva. Se in una parte ancora consistente di lavoratori e studenti permane la paura e la rassegnazione, dall’altro quanti sono risucchiati nella crisi rispondono, come abbiamo visto, con pratiche di apertura verso altri soggetti sociali e lavorativi.

Fino ad arrivare a rispondere duramente, a Roma come ad Atene con il tentato assalto al parlamento e a Londra con il compiuto assalto al palazzo dei Tories, alla violenta autoreferenzialità di una classe politica che ha reciso ogni rapporto con la cosiddetta »società civile«. Se i manifestanti sono stati violenti, lo sono stati solo per porre fine alla violenza dei governi europei. Questa violenza, che oggi si manifesta in stati di eccezione divenuti norma e prassi governative in continua situazione di emergenza, non può essere riportata nei limiti dello Stato di diritto, perché essa costituisce ed esprime la natura stessa dello Stato. Così come le cariche della polizia esprimono la natura »democratica« del mantenimento dell’ordine pubblico in nome del popolo. La violenza che oggi si esprime senza fronzoli da parte dello Stato non è frutto di un deficit di democrazia, correggibile insufflando un po’ di partecipazione democratica e »società civile«, ma è l’esito di un corso iniziato simbolicamente nel 1987 con le parole di Margaret Thatcher: »there is no such thing as society. There are individual men and women, and there are families«.

Quella frase non era un inizio, ma era già un epilogo di una serie di lotte e sconfitte. Iniziava un nuovo round di attacco a tutto ciò che ancora aveva un’eco di »comune« e »collettivo«: diritti, contratti di lavoro, sanità, servizi, alloggi. Diritti e contratti collettivi che non sono cresciuti per una sorta di maturazione naturale della civiltà del diritto, ma sono stati conquistati dalle lotte del movimento operaio, che li ha difesi fin che ha potuto. Quei diritti collettivi sono una anomalia nel corso normale dello Stato moderno, che invece, quando è necessario o utile, ridefinisce il rapporto tra potere da un lato e massa di individui dall’altro; svuotando alla radice o abolendo le supposte garanzie o i presunti diritti, assunti invece come »normalità« dello Stato di diritto sia dalla politica sia dai sindacati di »sinistra«, moderata o radicale che sia. Si tratta piuttosto, non di rimettere la macchina statale lungo i binari della normalità giuridica, ma di ripristinare l’anomalia. L’inganno degli anni ’80 e ’90 non è relativo a una classe politica che non si è presa cura dei propri figlioletti, ma è espressione di una neutralizzazione della politica attraverso il diritto. Le cosiddette sinistre hanno pensato di democratizzare lo Stato attraverso la creazione di nuovi diritti da riconoscere a individui e minoranze svantaggiate. Mano a mano che questa logica acquistava legittimità anche tra i rappresentanti del movimento operaio, venivano minati i diritti collettivi ed eroso il diritto della classe operaia di esercitare violenza per difenderli. Questo scenario è diventato un immaginario. Almeno fino a qualche mese fa.

Le mobilitazioni odierne hanno contribuito a scalfire quell’immaginario, a mostrare l’inganno della rappresentanza politica, a segnare il passo di una conflittualità per la conquista di diritti e beni comuni.

Il capitalismo, che pure sviluppa le condizioni di una lotta per la democrazia, le erode allo stesso tempo. Il capitale è alla sua base incompatibile con la democrazia, ed ha anzi una natura in senso stretto totalitaria. La democrazia gli viene dal di fuori, da quella alterità radicale che deve pur sempre »incorporare«, gli viene cioè dal »lavoro vivo«, dalla sua dipendenza dalle lotte di lavoratrici e lavoratori in carne ed ossa, mente e corpo. O i diritti si fondano su un potere che attraversa i luoghi del lavoro, o semplicemente diventano, presto o tardi, un simulacro vuoto. Ma questo impone la costruzione di una diversa politica e pratica della democrazia: di un altro genere di democrazia. Che muove i suoi passi con incertezza, prefigurazione e anticipazioni ogni giorno, nelle lotte concrete e materiali.
Alla ricerca di un terreno comune

Finché però la categoria unificante delle diverse soggettività coinvolte in questa pratica politica viene individuata nella comune condizione »precaria«, una categoria descrittiva e psicologica che più che dare un nome alla rabbia espressa negli episodi di rivolta collettiva non può fare, ogni ipotesi di comunanza reale rimane sostanzialmente vulnerabile.

Fin tanto che le rivolte studentesche rimangono l'espressione della rabbia di una giovane generazione che teme di essere »senza futuro«, sente di essere »predestinata a vivere vite di scarto«, »precarie«, e scende in piazza per »inchiodare i vecchi alle loro responsabilità«, questa rabbia, indefinita tanto quanto l’espressione »precariato«, come va di moda dire in Italia sostantivando gli aggettivi, rimane la rabbia di chi se la prende contro qualcuno che li ha traditi, qualcuno che doveva prendersi cura di lui, o di lei, e non l’ha fatto. Sembra molto la rabbia adolescenziale contro il maternalismo sociale, che prima aveva quasi annegato i propri figli nel latte tiepido e mieloso di una socialità totalmente organizzata e protetta da istituzioni benevole e genitori amici, e poi tradisce le aspettative di quegli stessi giovani che pretendono come proprio diritto individuale un posto di lavoro garantito e adeguato al titolo di studio. Fin che si continua a parlare di »giovani« e di »studenti« e fin che loro continuano a rappresentarsi in questo modo, possono reclamare un basic income, che non è nulla di diverso dal prolungamento della paghetta data da mamma e papà, ma lo scenario non si è mosso di un solo millimetro da quello presentato dalla Thatcher: There are individual men and women, and there are families.

Quando poi questa rabbia sembra limitarsi ad essere, come si palesa in particolare nelle rivendicazioni degli studenti di ingegneria e scienze naturali, quella contro una classe politica colpevole di non cogliere il sillogismo in base al quale gli investimenti per la ricerca producono innovazione, e l’innovazione alla competizione con i Paesi di serie A; insomma, contro una classe politica colpevole di gestire un capitalismo straccione, appare manifesto come questo terreno anziché costituire la base per una »ricomposizione« dei movimenti sociali, si presti facilmente ad una sua scomposizione, dato che la difesa dei »giovani« e degli »studenti« dalla precarietà potrebbe essere un carico da accollare sulle spalle dei più »anziani«, dei »garantiti«, magari tagliando le pensioni o altri pezzi di welfare state, oppure spremendo ulteriormente i lavoratori nel ciclo produttivo. O ancora ottenuta attraverso una »migliore« collocazione dell'Italia all'interno della divisione internazionale del lavoro, chiedendo al sistema pubblico (ma anche a quello privato) maggiori investimenti in ricerca e sviluppo.

Che si reclami infatti un »reddito di esistenza« sulla base di una illusoria produttività di valore di essere umani del tutto generici in ogni loro attività (o inattività), o che si reclami un posto al sole in quanto »uomini di scienza« preziosi per la crescita economica, il risultato politico è lo stesso: invece di lottare per una sussistenza storica e sociale come parte della classe, autonomamente da qualsiasi contributo alla valorizzazione del capitale o a valori d’uso marchiati dal segno capitalistico, ci si limita a rivendicare un'elevazione del proprio status, un miglioramento delle condizioni della propria categoria anche a costo che questo passi attraverso lo sfruttamento di qualcun altro. [Si tratta di distinguere tra reddito minimo garantito e basic income.] Ma la questione politica è superare il piano redistributivo per coniugare le lotte sul salario al cosa, come, quanto produrre.

La dinamica dello sviluppo capitalistico, in Italia e non solo, ci mostra quanto fragile possa essere questa prospettiva. La cosiddetta »via alta alla competitività« – invocata da chi richiede maggiori investimenti per la ricerca e esalta una troppo generica economia della conoscenza, contrapponendola al lavoro »materiale« – è produttiva di plusvalore soltanto grazie alla sinergia di una più alta forza produttiva del lavoro, di una più alta intensità del lavoro, e di una più lunga giornata lavorativa. Questa contemporanea estrazione di plusvalore relativo e di plusvalore assoluto si dà ovunque, lungo le catene transnazionali della valorizzazione. È cioè una combinazione che si ritrova tanto nelle diverse aree geografiche (nelle metropoli occidentali, nell'Est e Sud dell'Europa, e così via) quanto nei diversi settori produttivi (unità capitalistiche ad »alta« e »bassa« tecnologia). Lo stesso caso Marchionne dimostra come nelle produzioni ritenute ad alto plusvalore relativo aumenti vertiginosamente la violenza con cui il capitale impone la propria autocrazia di fabbrica, mostrandosi sempre più platealmente indifferente alla salute fisica e mentale delle lavoratrici e dei lavoratori.

E le riforme del ciclo della formazione da quindici anni a questa parte, di cui la »riforma Gelmini« è solo l'ultimo episodio di una serie caratterizzata da una sostanziale continuità, non sono un errore partorito da sprovveduti burocrati della politica, ma un tentativo di sincronizzare il meccanismo formativo con i processi di razionalizzazione capitalistica dei saperi. La loro riduzione a pacchetti di informazioni non richiede grandi investimenti perché quei pacchetti sono disponibili socialmente grazie a tecnologie a basso costo e possono essere insegnati nelle scuole secondarie e nelle università da docenti »precari« quanto le informazioni che trasmettono. Questi pacchetti sono merci accanto ad altre merci, possono essere comprati nel mercato e la loro produzione, cioè i laboratori di ricerca, delocalizzata.

La formazione, come sistema produttivo, ha invece un’altra funzione, e cioè quella di produrre lavoratori. Produzione essenziale quanto la produzione di merci. Per una parte della produzione »dopo il fordismo« i lavoratori prodotti dal ciclo della formazione non devono avere particolari qualità, ma devono apprendere un’attitudine particolare, quella di »imparare ad imparare«, una competenza inserita dall’UE tra le competenze chiave della formazione. »Imparare« i pacchetti di informazioni »usa e getta« somministrati durante l’iter formativo per »imparare« che l’istruzione ha ormai la funzione delle »istruzioni d’uso« di una nuova procedura che diventerà rapidamente obsoleta, e che richiederà nuove istruzioni d’uso in un percorso di »formazione continua«.

Dall'altro lato c'è la produzione che richiede davvero una maggiore qualità e partecipazione del lavoro, e questa sì necessita (più di sempre) una attività dei lavoratori: per la costruzione di valori d’uso che sembrino idiosincratici e non massificati, per la flessibilità imposta a un ciclo lavorativo soggetto a mille sbalzi e scosse, per l’impiego del valore di mezzi di produzione a rischio di obsolescenza sempre più veloce. Ma la parziale riqualificazione del lavoro, la limitata autonomia di donne e uomini della produzione costituiscono un rischio insopportabile. Vanno dunque controllati, non più con l’arma del controllo diretto o di una dequalificazione troppo lineare, ma con l’apparenza di un dominio del mercato sulla produzione (la borsa che ritma la valorizzazione del capitale, i vincoli spuri del commercio estero o del bilancio pubblico, ma anche il make or buy, il decentramento, l’esternalizzazione, l'in-house-outsourcing). Attraverso la rincorsa all'ottenimento dei Crediti Formativi, già da studenti si viene educati non solo a trattare con la massima indifferenza il contenuto di ciò che si studia, ma a rispettare ed adeguarsi alle tempistiche e le logiche del mercato. Dentro le lotte degli studenti, dunque, confusamente si agitano anche la coscienza che non tutti possono o debbono accedere a questa sezione dell’istruzione, sinora nominalmente aperta a tutti, e la delusione o rabbia di chi vede le sue attese smentite.

Ma il processo di razionalizzazione capitalistica del sapere non ha modificato solo gli istituti preposti alla formazione, ma la natura stessa del sapere, che è, da un lato, diventato scomponibile in pacchetti costruiti secondo il codice di funzionamento della loro oggettivazione macchinina, dall’altro invece deve fornire qualificazioni e specificazioni cui deve sfuggire il senso e il contesto in cui si collocano. Si deve insegnare il »come« senza che possa sorgere la domanda sul »perché«, e »per chi«. L’alternativa non è più tra scuola pubblica e privata, e nemmeno l’appropriazione comune di questo sapere intrinsecamente capitalistico e informatizzato: questi sono sogni, vagheggiamenti di chi è stato formato nella scuola gentiliana e da giovani in cerca di facili parole d’ordine.

Si tratta dunque di discutere di formazione, sapere e lavoro a partire dai propri bisogni, per determinare cosa, quanto e come si produce; tanto in una fabbrica o in un call center, dove quelle conoscenze, incorporate nei mezzi di produzione, servono a spremere il lavoro, tanto in quelli in cui questi saperi vengono prodotti, anche qui indipendentemente dalla loro vera qualità, da un loro significato scevro dalla loro spendibilità. Il tutto per perpetuare un modello di sviluppo tanto dedito al profitto quanto indifferente alla devastazione fisica, morale ed ambientale.

Idee, queste, che fino a pochi anni fa sarebbero state considerate mera ideologia, e che ora ricompaiono, imposte dalla crisi oggettiva del capitale e dalle lotte dei soggetti dentro e contro questo infernale meccanismo. Oggi possono costituire il terreno comune sul quale lavoratori e chi lotta in Università, ricercatori e studenti innanzi tutto, si possono incontrare, come già si sono incontrati nelle lotte degli ultimi mesi.

Compagni italiani, Marzo 2011

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