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idiavoli

Contro la trappola della rassegnazione

Leggere e rileggere Luca Rastello

di Paolo Ortelli

immagine art rastello 1Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo, post mortem. Lo conoscevano in pochi, forse perché era mosso dall’amore per la verità e aveva uno spirito avverso a ogni conformismo e, quindi, alle logiche da cui dipende la visibilità mediatica. Ha vissuto molte vite – giornalista culturale, reporter, analista politico, viaggiatore, narratore, filosofo, redattore, operatore solidale– e ogni volta ha saputo reinventare sé stesso. Ha lottato fino alla fine contro la sua malattia, e lo ha saputo raccontare in maniera per niente retorica nel suo ultimo libro (pubblicato postumo, nel terzo anniversario della sua morte avvenuta nel 2015) “Dopodomani non ci sarà”, romanzo che si presenta più come un laboratorio di scrittura, una miniera di riflessioni filosofiche e politiche, spiazzanti e memorabili. Figura complessa, irriducibile e da riscoprire per i più, l’opera di Rastello rappresenta un prisma formidabile attraverso cui guardare il presente e per «non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione»

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Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo – post mortem. Le parole che, per esempio, hanno speso per lui intellettuali come Goffredo Fofi, Nicola Lagioia, Alessandro Baricco, Roberto Saviano, Walter Siti, Wu Ming, Giorgio Vasta, si riservano solo ai grandi del pensiero e della letteratura.

Non è un caso che Un passo più in là, documentario sulla sua vita trasmesso da RaiStoria, inizi con una domanda: «Perché erano così in pochi a conoscerlo?». E si potrebbe aggiungere: perché soltanto dopo la sua morte, avvenuta il 6 luglio 2015, è diventato un “mito” letterario?

Lo conoscevano in pochi perché Luca Rastello era mosso dall’amore per la verità (anzi, per le tante verità possibili), da una sconfinata curiosità e un senso purissimo della giustizia; aveva uno spirito inflessibilmente critico e perciò avverso a ogni conformismo, alle orazioni civili e alle logiche markettare da cui dipende la visibilità mediatica.

Ha vissuto molte vite – giornalista culturale, reporter, analista politico, viaggiatore, narratore, filosofo, redattore, operatore solidale, in gioventù persino militare – e ogni volta ha saputo reinventare sé stesso in tempo per sfuggire a qualunque sclerotizzazione del pensiero, prima che lo facessero diventare un guru, un totem, uno di quegli esperti che si invitano in televisione perché si sa in anticipo che cosa dirà.

Era allergico alla notorietà, alle scelte facili, alle letture consolatorie. Era uno di quegli scrittori che obbligano il lettore a fare i conti con il mondo e con sé stessi.

Quasi sempre, i frutti dell’onestà intellettuale si raccolgono solo a distanza di tempo. Ma se oggi la sua vita e le sue opere vengono celebrate è anche perché – con la sua morte – sono venuti meno gli argini che le proteggevano dalla retorica, da lui presidiati in maniera quasi ossessiva.

Del resto, «oggi agire bene è un segreto da nascondere con vergogna, a meno di volersi arruolare nell’esercito chiassoso del bene e del suo mercato». Sono parole tratte da Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime, libro postumo di Luca Rastello che Chiarelettere ha pubblicato in occasione del terzo anniversario della morte.

Il volume – curato dalla moglie, Monica Bardi – è un assemblaggio di testi preparatori alla stesura di un romanzo sull’esperienza della malattia, sull’imbarazzo e la cialtroneria con cui accade che venga affrontata da amici, volontari, testimonial, sull’istituzione-ospedale – microcosmo in cui la forza del potere e del mercato si esercita in maniera più ambigua ed emblematica, privando il malato di ogni riservatezza, costringendolo a cure e diete, ma anche a rituali, frequentazioni, modi di esprimersi.

Per dieci anni Rastello ha affrontato un tumore che, secondo i medici, gli avrebbe concesso soltanto pochi mesi di vita. È sfuggito alla morte rifiutandosi di «cedere alla logica della malattia che voleva che si occupasse più di lei che di sé stesso» (così nell’Introduzione di Monica Bardi) e, quando il momento è arrivato, ha voluto «morire in piedi». Scrivendo fino all’ultimo.

 Dopodomani non ci sarà è un laboratorio di scrittura, la traccia solo abbozzata di una narrazione, una miniera di riflessioni filosofiche e politiche, di aforismi spiazzanti e memorabili, di riferimenti autobiografici e richiami al mito, alla tragedia greca, a grandi autori dell’Est come Musil, Mandel’štam,Ugrešić.

Una lezione su come si prepara un romanzo, che da un lato aumenta il rimpianto per ciò che Rastello avrebbe potuto scrivere se solo avesse avuto più tempo, ma dall’altro si pone come un prezioso testamento spirituale (dovunque sia, Luca ci perdonerà per questo cedimento retorico), capace di porre sotto una più chiara luce teorica anche le altre sue opere.

Tra i personaggi già ritratti con cura da Rastello troviamo Ottavio-Beniamino, clochard dal tormentato passato politico che ha deciso di vivere in ospedale, il dottor Faini, giovane oncologo capace di entrare in sintonia con i pazienti, il che lo rende sospetto agli occhi dei colleghi; e c’è Iris, moderna Antigone che arriverà al gesto estremo di dare la morte al fratellino malato, pur di sottrarlo al “Creonte collettivo e impersonale incarnato nel connubio fra mercato e comunicazione”.

C’è infine l’alter ego di Rastello: il Malato riottoso, con il suo blog immaginario, nel quale racconta i viaggi e gli stratagemmi (che richiamano l’amato TristramShandydi Lawrence Sterne) per ingannare “Madame Problema”, e in cui non risparmia strali e sarcasmi a certi amici compassionevoli che suggeriscono cure alternative e inanellano frasi fatte prive di senso, o a clown e volontari che, sotto sotto, vanno in ospedale per farsi “curare l’ego” dai pazienti.

Rastello non affronta solo l’angoscia della morte (la cui condanna diviene grandioso «moltiplicatore di vita», come scrive Daniele Giglioli sulla Lettura). La sua riottosità non è soltanto resistenza alla malattia: è anche il rifiuto di piegarsi al mondo «così com’è», anch’egli insofferente al «connubio fra mercato e comunicazione» che impoverisce il significato di ogni esperienza umana.

«Se io stessi fuggendo, quindi, da che cosa? Per esempio dall’ipertrofia della comunicazione, dal mio lavoro che vive di sola rappresentazione e, peggio, di autorappresentazione virtuosa: quel lavoro occulto che impegna la mente a rendere tollerabile la connivenza, la resa, la vita da curvi intorno al potere, all’ombra del potere.

Il mondo che promette repubbliche delle idee e minaccia colli spezzati ai funzionari subalterni che non portano pubblico allo show. E quel lavoro che ha bisogno di bambini morti per titolare di angeli e rabbia e funerali. Dal potere. Dalla retorica della memoria che dovrebbe essere nemica dell’oblio e invece lo è della precisione. Dalla velocità, dal cellulare, dal cemento e dalla finanza. […] Dal consenso. […] Dagli indignati professionali e dagli eroi civili che cantano – in voce di contrappunto – nello stesso coro che condannano, dai loro lacchè e dai gruppi dei loro fan su Facebook.

E dagli umoristi ingordi. E dai giornalisti d’inchiesta. Da tutti quelli che hanno parte giusta nella commedia del mondo com’è, anche se per la platea è la parte di chi sta contro. Dalle maggioranze, anche quando si proclamano minoranze. Dagli eventi.»

La malattia assume allora una valenza metaforica. Non è un caso che, come racconta Nicole Janigro, Rastello regalasse ai suoi visitatori una copia La malattia come metafora di Susan Sontag, celebre libro sulla mitologia che circonda il cancro proprio come circondò la tubercolosi, e che si esprime in metafore socio-religiose, eufemismi e allusioni.

Allo stesso modo, la religione postmoderna del mercato e del consumo che affligge l’intera società non solo non risparmia il mondo della malattia e dell’ospedalizzazione, ma anzi vi si riverbera in modo particolarmente subdolo, imponendo il suo linguaggio contraffatto, le sue logiche di marketing e culto della leadership (i divi in corsia, i doni griffati, i testimonial…), i valori irrigiditi nella predica dei “Buoni”.

Già, I Buoni, a cui Rastello aveva dedicato l’omonimo romanzo, uscito nel 2014, che tanto scandalo destò per le critiche feroci alle contraddizioni del mondo del non profit: il libro che ci ha insegnato come una relazione di aiuto e solidarietà rischi sempre di sottendere un ricatto morale o addirittura una relazione di potere – nel caso macroscopico e sanguinoso delle sedicenti “guerre umanitarie” così come in quello dell’associazionismo antimafia o… del volontariato in ospedale.

Che cosa sarebbe stato il romanzo Dopodomani non ci sarà, dunque, se non il secondo volume di una dilogia, avviata con I Buoni, sull’eterno conflitto tra il potere e l’essenza umana più intima? Un conflitto che Rastello sceglie di mettere in scena proprio là dove può nascondersi dietro la cortina fumogena dei buoni sentimenti.

Se c’è un filo conduttore, nell’opera variegata e in realtà ancora poco studiata dello scrittore torinese, è la capacità, foucaltiana, di problematizzare l’evidente, di decostruire i meccanismi del potere in tutte le loro sfaccettature, in particolare quelle a cui la maggior parte delle persone si abitua o si anestetizza più facilmente.

La scrittura come «lettura critica del contingente», il giornalismo come «indagine di contraddizioni», secondo le parole che usava Rastello quand’era chiamato a descrivere il senso della propria missione intellettuale.

E se volessimo ricercare l’origine di questa urgenza critica, questa riottosa indisponibilità a scendere a patti con il suo tempo, potremmo forse trovarla – simbolicamente – nell’amara presa d’atto sul destino dei movimenti del ’77, cui Rastello partecipò da giovanissimo (una stagione che seppe raffigurare con riconosciuta efficacia nel romanzo Piove all’insù).

Quella generazione, scriveva sulla «Repubblica»in occasione del quarantennale, ha visto i propri sogni di libertà avverarsi in forma di incubo.

«Volevano liberarsi dal lavoro e il lavoro si è liberato di loro, sognavano ritmi dettati dai bisogni del corpo invece che dalle logiche produttive e si sono trovati nella società del fitness e del narcisismo di massa, violentavano i linguaggi come pratica di liberazione e hanno fornito il loro sapere ai pubblicitari e alla comunicazione di mercato, veloce, insensata, spietata, quella per cui oggi, anche in politica, “si può dire tutto tanto è lo stesso”.»

Si tratta forse di uno dei ritratti politico-antropologici più ficcanti dell’Italia dello scorso decennio. E chissà che cosa avrebbe detto Rastello della spirale in cui oggi sembra essere stato risucchiato il nostro Paese.

Certo è che i suoi “sguardi sul mondo” rappresentano un prisma formidabile attraverso cui guardare il presente. E per «non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione», come esorta a fare nella straordinaria lettera alle figlie, letta il giorno del funerale e riportata in coda a Dopodomani non ci sarà:

«Quasi sempre quella che si presenta come “la vita com’è”, secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa.

Si può uscire, scartare, fare ancora un giro, magari due, magari di più, e poi sorprendersi di come era facile e possibile quello che sembrava impedito dalla logica ferrea di un mondo che ci mettiamo addosso come una prigione ed è invece solo fantasia, malata fantasia che si spaccia per realtà.»


Luca Rastello, giornalista e scrittore italiano (Torino 1961 – ivi 2015). Laureatosi in filosofia all’università di Torino,  è stato redattore e poi direttore (2000-01) della rivista «L’Indice dei libri del mese». Fondatore nel 1993 del Comitato torinese di accoglienza ai profughi dell’ex Iugoslavia, nel 1998 ha pubblicato La guerra in casa, romanzo-reportage sulla guerra degli anni Novanta nei Balcani. Già direttore della testata on line «Osservatorio Balcani» e della rivista «Narcomafie», scrive per «la Repubblica». Tra i volumi pubblicati: il romanzo Piove all’insù (2006); Undici buone ragioni per una pausa (2009); Io sono il mercato (2009); La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani (2010); Democrazia: cosa può fare uno scrittore? (in collab. con Antonio Pascale, 2011); Binario morto (in collab. con A. De Benedetti, 2013); I buoni (2014); Dopodomani non ci sarà (post., 2018).

[La breve biografia di Rastello su Treccani.it]

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