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Perché comandano i ricchi

di Ferdinando Bilotti

Blog 02 A.jpgNella civilissima Europa, culla della democrazia e dei diritti, qualunque analisi politica che ambisca a valere qualcosa deve necessariamente partire da questo presupposto: oggi il potere politico è completamente subordinato al potere economico. Da oltre quarant’anni i governi, di destra o sinistra che siano, favoriscono in tutti i modi i grandi soggetti imprenditoriali: privatizzano e liberalizzano i servizi pubblici, indeboliscono la posizione dei lavoratori (introducendo contratti precari, limitando i diritti sindacali, creando disoccupazione tramite la contrazione del settore pubblico e l’accoglienza di manodopera straniera), tagliano la spesa sociale per abbassare le tasse sui redditi alti e sui profitti d’impresa (e anche per costringere i cittadini a usufruire di servizi scolastici, sanitari e pensionistici privati), consentono agli industriali di chiudere stabilimenti per rilocalizzarli in paesi dov’è più conveniente operare e di reimportare i manufatti lì realizzati, tollerano gestioni finanziarie che sono forme legalizzate di evasione fiscale... e probabilmente ho dimenticato qualcosa.

“Che c’è di strano?” commenterà il lettore blasé. “La democrazia è un sistema di governo fondato sul danaro. Chi ha il danaro controlla i politici, poiché fare politica costa, e direttamente o tramite le inserzioni pubblicitarie controlla i media, che formano l’opinione degli elettori. Quindi chi ha il danaro ha il potere sia di scegliere i candidati che di farli eleggere.”

Eppure non è stato sempre così. Come ho accennato, la situazione odierna è andata determinandosi sostanzialmente a partire dagli anni Ottanta. Prima abbiamo avuto alcuni decenni in cui il controllo dei ceti popolari sull’attività dei governi è andato crescendo: è stata la fase in cui abbiamo conosciuto la programmazione pubblica dell’economia e la statizzazione dei servizi essenziali, la tutela dei diritti dei lavoratori, l’espansione dei sistemi di sicurezza sociale, la tassazione progressiva. E allora dobbiamo chiederci: cosa è cambiato a un certo punto? Perché dopo esserci spinti così avanti siamo tornati indietro?

Molto banalmente, la risposta è che nel periodo storico che stiamo vivendo il potere politico è divenuto maggiormente dipendente dalle risorse che il potere economico era in grado di fornirgli, e che di conseguenza il secondo ha accresciuto la propria capacità di condizionamento del primo. Molto meno banale è capire per quali ragioni ciò sia avvenuto.

Partiamo da questo concetto fondamentale: la rappresentanza politica delle istanze popolari richiede l’esistenza di partiti di massa, i quali per funzionare devono poter contare su un gran numero di militanti e simpatizzanti disposti a sostenerli, mediante contributi economici e forme di attivismo. La sussistenza di tale condizione, a sua volta, presuppone l’esistenza di una classe politica in grado di attrarre a sé la società civile, facendo appello a richiami razionali (ovvero mostrandosi in grado di recepirne e rappresentarne le istanze) e identitari (ovvero aderendo a sistemi ideologici e valoriali - tipicamente, il cristianesimo e il marxismo - nei quali anche gli elettori possano riconoscersi); come pure di una società civile propensa a impegnarsi politicamente, in quanto innervata da un forte spirito comunitario e da un diffuso senso di responsabilità. Nell’Europa del dopoguerra, questi fattori esistevano; essi tuttavia furono progressivamente erosi dalla forte crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta, in ragione delle trasformazioni sociali e culturali che questa innescò.

Il primo dei due fattori indicati vide la propria sussistenza compromessa dalla modernizzazione sociale indotta dalla crescita economica, la quale complicò il lavoro di rappresentanza degli interessi, facendo diventare questi ultimi più articolati, e rese la popolazione meno sensibile ai richiami religiosi e ideologici. Il secondo pure scontò gli effetti di quella modernizzazione sociale, ma del versante negativo di essa: ovvero dell’affermazione di una mentalità improntata a un esasperato individualismo e a un infantile desiderio di appagamento senza sforzo. Fu questa una trasformazione riconducibile alla crescita della produttività del lavoro avutasi nel mondo capitalista, che indusse gli operatori economici a esasperare la propensione al consumo e quindi a promuovere (tramite i messaggi, pubblicitari e non, veicolati dai media) atteggiamenti quali la ricerca di gratificazioni immediate, l’esibizionismo, la pretesa di continue novità, la contraddittoria aspirazione a distinguersi dagli altri tramite l’imitazione di segni identitari imposti dall’esterno alle masse. L’allontanamento dei cittadini dall’impegno politico va inoltre considerato un aspetto di un più generale processo di desocializzazione (ossia di restrizione del perimetro della vita sociale di ciascuna persona), figlio in parte della perdita di spirito comunitario, ma in parte anche della perdita di possibilità concrete di esprimere la propria socialità, a sua volta dovuta alla forzata assunzione di stili di vita alienanti dal prossimo (lavori sfiancanti che minavano la capacità di essere attivi nel tempo libero, residenza in quartieri-dormitorio dove mancavano le occasioni di esprimere se stessi e conoscere gli altri) e anche al degrado subito dagli spazi pubblici suscettibili di fungere da luoghi di aggregazione (sempre più spesso abbandonati all’incuria e al vandalismo e popolati da figure moleste, quando non pericolose).

Parallelamente, l’evoluzione tecnologica conferì un ruolo centrale nella nostra società a dei processi di para-socializzazione fondati sulla condivisione delle esperienze offerte dai mezzi di comunicazione di massa (parliamo di ‘para-socializzazione’, in quanto il carattere monodirezionale della comunicazione da essi instaurata rendeva tali esperienze assai più povere di quelle garantite dal contatto diretto fra le persone). Questa duplice trasformazione - attenuazione del rapporto diretto dei partiti con la cittadinanza e affermazione di una nuova tipologia di rapporti, veicolata da tali strumenti - finì per conferire all’utilizzo dei medesimi un’importanza fondamentale ai fini della creazione del consenso politico. I partiti si trovarono così in condizione di doversi procacciare la benevolenza dei grandi operatori economici presenti nel comparto editoriale e delle telecomunicazioni e di dover investire notevoli risorse per condurre in autonomia attività di propaganda attraverso questi nuovi strumenti; e ciò mentre da una parte si riduceva il supporto finanziario e lavorativo che potevano ottenere dai ceti popolari e dall’altra l’evoluzione del sistema capitalistico creava sempre più grandi concentrazioni di capitali, i cui detentori avevano un’enorme capacità di esercitare, tramite le proprie elargizioni, pressioni sul sistema politico. Quest’ultimo fu così indotto a porsi in forma sempre più esclusiva al servizio delle forze del capitale, abbandonando qualunque prospettiva di rappresentanza dei lavoratori.

Abbiamo scritto “indotto” anziché più brutalmente “obbligato”, in quanto il ceto politico avrebbe potuto perlomeno tentare di arginare tale deriva, ad esempio accrescendo il finanziamento pubblico ai partiti o riservando ai medesimi degli spazi autogestiti gratuiti in seno ai media privati. Sarebbe stato logico attendersi un simile atteggiamento quantomeno da parte dei partiti di sinistra, i cui dirigenti - considerati gli ideali cui si rifacevano le formazioni di appartenenza - in teoria avrebbero dovuto trovare questa sottomissione ai voleri del potere economico particolarmente ripugnante. Ciò invece non accadde. Come mai?

Dobbiamo ancora una volta tenere presenti le trasformazioni cui la società andò incontro nel ventennio di forte sviluppo successivo alla seconda guerra mondiale. Il rapido avanzamento sia demografico, sia economico di quella fase ebbe tra i suoi effetti quello di ampliare i ranghi del ceto medio in misura tale da rendere problematico l’assorbimento delle sue nuove leve da parte delle università e poi del mercato del lavoro intellettuale. Alla fine degli anni Sessanta, questa incapacità del sistema sociale di soddisfare le ambizioni di formazione e di occupazione nutrite dai giovani esponenti di tale classe spinse molti di loro su posizioni fortemente critiche nei confronti dei esso: si spiegano così, almeno in parte, l’esplodere della protesta studentesca e più in generale l’assunzione da parte della gioventù dell’epoca di atteggiamenti radicali. Dal momento che questa contestazione degli assetti vigenti avvenne in nome della realizzazione di una società dalle maggiori capacità inclusive, era del tutto naturale che essa assumesse in massima parte una connotazione politica progressista. A orientarla in tal senso, tuttavia, dovette valere anche la parallela esplosione della protesta operaia, che faceva dell’adesione alla dottrina marxista un potenziale strumento di saldatura fra le due lotte, saldatura che avrebbe consentito agli intellettuali di avvalersi, per realizzare i propri obiettivi di trasformazione della società, della forza del numero su cui potevano contare le masse operaie.

Questa radicalizzazione delle nuove generazioni di intellettuali, però, evidentemente in molti casi non mise radici profonde negli animi degli interessati, rimanendo così legata alle loro condizioni del momento e dunque risultando suscettibile di venir meno una volta che essi fossero riusciti a integrarsi nella società. In ragione di ciò, a partire dai tardi anni Sessanta i partiti di sinistra furono colonizzati da un gran numero di militanti la cui adesione ai loro ideali di progresso sociale era sincera ma superficiale, perché figlia di contingenti motivazioni personali, o peggio ancora opportunistica, perché finalizzata a volgere a proprio vantaggio la forza del movimento operaio, e quindi in entrambi i casi destinata a scomparire una volta che il raggiungimento di una posizione elevata in seno alle strutture partitiche li avesse resi soddisfatti della propria condizione. Venuta meno l’adesione ai valori inizialmente professati, nell’animo di tali politici rimase poi soltanto la volontà di affermazione personale, che aveva costituito il movente originario della loro militanza: essi pertanto non esitarono a tramutarsi da nemici in servitori del potere economico, in modo da facilitare la propria ulteriore ascesa procurandosi il sostegno di quest’ultimo.

La contestazione giovanile ebbe anche motivazioni culturali. Come a suo tempo rilevò Daniel Bell (nel suo “The cultural contradictions of capitalism”), la società capitalista si fonda su due sistemi di valori in opposizione fra di loro, uno funzionale a sostenere la produzione e l’altro a spingere il consumo. Nel ventennio di forte sviluppo 1950-70, l’incremento della produttività del lavoro da una parte rese più agevole la produzione di beni, facendo perdere rilevanza alle tradizionali virtù borghesi funzionali al compimento d’investimenti e a un’efficiente conduzione delle attività economiche (risparmio, laboriosità, disciplina); e dall’altra, come abbiamo già spiegato, fece sorgere la necessità di valorizzare questa sempre più ingente quantità di beni prodotta, imponendo perciò la promozione di una mentalità di segno opposto. Inoltre, la crescita del benessere rese non più necessaria la concentrazione delle risorse nelle mani dei capifamiglia, consentendo l’assunzione di decisioni di consumo autonome (e quindi una più generale autonomia di pensiero e di azione) da parte di soggetti tradizionalmente subalterni, quali le donne e per l’appunto i giovani. Questi, pertanto, divennero propensi a mettere in discussione l’autoritarismo e la gerarchizzazione che alla fine degli anni Sessanta ancora informavano la vita sociale (sia pure in misura già spontaneamente calante). Logicamente, un simile atteggiamento critico nei riguardi della cultura e dei valori dominanti induceva ad assumere una posizione critica anche verso le situazioni di ineguaglianza e di sfruttamento che connotavano i rapporti fra i ceti. Questo orientamento antisistema di marca progressista, però, si fondava su una visione della società individualista e libertaria che coincideva con l’apparato valoriale del capitalismo consumista ed era suscettibile di sposarsi anche con una mentalità improntata al più gretto egoismo di classe. Nel lungo periodo, pertanto, la cultura della contestazione non fu in grado di fare da argine, nelle coscienze dei reduci da quell’esperienza, alla pressione che la convenienza personale esercitò in direzione dell’accettazione del ‘patto col diavolo’ costituito dalla propria trasformazione in rappresentanti degli interessi capitalistici.

Naturalmente, va precisato che questo processo di subordinazione dei partiti di sinistra al potere economico non ha riguardato l’intero arco politico della sinistra stessa, in quanto al suo interno hanno comunque continuato ad esistere delle forze di ispirazione marxista fortemente orientate in difesa dei lavoratori. Esse, tuttavia, hanno mantenuto un peso politico modesto, non riuscendo quindi a diventare i nuovi punti di riferimento dei ceti abbandonati dai grandi partiti socialdemocratici. Ciò si spiega, in parte, con la difficoltà di fare presa sulle coscienze di una cittadinanza la cui cultura e il cui immaginario sono stati manipolati in maniera tale da renderla largamente priva di coscienza politica e votata a un individualismo che esclude dall’orizzonte mentale la prospettiva di una salvezza collettiva; in parte ancora, con le ridotte possibilità di fare proseliti che inevitabilmente hanno connotato movimenti poveri di risorse finanziarie e condannati a operare in un ambiente mediatico ad essi ostile; ma in parte anche col fatto che le proposte politiche di tali formazioni sono state segnate da gravi elementi di criticità, i quali hanno finito per respingere molti loro potenziali elettori. Sulla natura e sulla ragion d’essere di tali manchevolezze ci sarebbe molto da dire; e per questo dedicheremo loro un articolo ad hoc.

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