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Su Howard Zinn, storico radical del popolo americano

di Bruno Cartosio

… Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale

Mount RushmoreUn piccolo gioco di specchi: il 6 novembre 2008 Howard Zinn risponde su “The Nation” all’articolo con cui Edward Rothstein ha commemorato Studs Terkel sul “New York Times” di tre giorni prima. Terkel, giornalista radiofonico e storico era morto il 31 ottobre. Rothstein ha scritto che Terkel “sembrava un liberal incoerente…ma se lo guardi più da vicino non riesci a individuare il punto in cui il suo liberalismo scivola nel radicalismo”. Dello storico Studs Terkel – contro l’ideologia mistificante dell’obiettività come “assenza di ideologia” – Zinn difende il fatto che la sua “visione politica” sia presente nelle storie orali da lui raccolte e assemblate; ne difende le posizioni, che definisce “così ragionevoli da fare onore al ‘radicalismo’”.

Zinn contesta varie altre affermazioni e giudizi di Rothstein, ma per quanto riguarda la definizione della fisionomia ideologico-politico-umana di Terkel fa ricorso alle parole di un altro intellettuale, Norman Mailer. Infatti, Zinn cita una lettera che Mailer scrisse a “Playboy” nel 1962, dopo che la rivista lo aveva contrapposto come liberal al conservative William Buckley: “Non mi interessa se mi chiamano radical, ribelle, rosso, rivoluzionario, outsider, fuorilegge, bolscevico, anarchico, nichilista o perfino conservatore di sinistra, ma per piacere non mi si chiami liberal”. Probabilmente, scrive Zinn, Terkel avrebbe dato una simile definizione di se stesso.


Il gioco degli specchi sta nel cercare di mostrare Zinn facendo ricorso a quello che lo stesso Zinn valorizza in altre figure che gli sono vicine o avvicinabili. Studs Terkel è stato uno di queste figure, forse l’unico per cui si possano dire cose che molti altri hanno detto di Zinn: apertamente radical, mentalmente aperto; collocato sempre, inequivocabilmente da una parte; storico curioso che ha sempre scritto avendo in mente l’educazione (non l’indottrinamento) di quelli per cui scriveva; scrittore prolifico e mai mestierante opportunista; amato da due-tre generazioni diverse di giovani, che hanno continuato ad amarlo e leggerlo come un amico-maestro nei loro percorsi verso la maturità. Infine, persona di cui si ricordano con affetto tutti quelli che la hanno incontrata.

Un ultimo sguardo riflesso, questa volta sul solo Zinn da parte di Bob Herbert, un giornalista che sul “New York Times” ha la funzione istituzionale di osservare e commentare le ingiustizie, incoerenze e spiacevolezze del mondo locale e nazionale. Non ricordo più chi ha sottolineato il fatto paradossale che alla morte di Howard Zinn, all’età di 87 anni, il “Times” non aveva pronto il necrologio, quel pezzo che da noi viene chiamano “coccodrillo” e che viene preparato e di volta in volta aggiornato per averlo pronto in caso di morte improvvisa della persona. Sorpreso che il suo giornale avesse dovuto ricorrere alla scarna notizia fornita, mi pare, dall’Associated Press il 29 gennaio 2010, Herbert pubblicò un suo pezzo il giorno dopo. Il suo era anche un ricordo personale, caloroso e percettivo. “Mi sono sempre domandato perché Howard Zinn venisse considerato un radical (Lui stesso di definiva radical)”, scriveva Herbert. “Era una persona straordinariamente onesta che si sentiva obbligata a combattere l’ingiustizia e la prevaricazione dovunque le incontrasse. Che cosa c’era di così radical nell’essere convinti che i lavoratori debbano essere trattati giustamente sul lavoro?, che le corporations hanno un potere eccessivo sulle nostre vite e troppa influenza sul governo?, che le guerre sono così criminalmente distruttive da rendere necessario trovare alternative alla guerra?, che i neri e le altre minoranze razziali ed etniche devono avere gli stessi diritti dei bianchi?, che gli interessi dei leader politici e dei vertici imprenditoriali non sono gli stessi della gente comune che lotta una settimana dopo l’altra per riuscire a sbarcare il lunario?”

La prosa è giornalistica – e il “New York Times” è un giornale liberal, naturalmente – e le domande, retoriche, servono a dire le cose come stanno, ma anche a smussare gli spigoli. Tuttavia, Herbert coglie un aspetto reale della personalità di Zinn: direi, quella naturalità del suo essere radical che lo stesso Zinn aveva sottolineato in Studs Terkel quando aveva scritto che le sue posizioni erano “così ragionevoli da fare onore” all’essere radical.

In un certo senso si potrebbe dire: si è radicali perché o quando si è ragionevoli, e viceversa, e non è necessario ricorrere a una morale religiosa per ritenere inaccettabile l’ingiustizia. A volte però non la si vede; è in questi casi che occorrono l’etica e la ragione. Un esempio: nell’aprile 1945, Zinn, dagli otto o novemila metri del suo B-17, ha bombardato con le bombe e con il napalm la cittadina francese di Royan, sulla Gironda, contribuendo a fare centinaia di vittime civili. Ha visto le esplosioni, non i morti. Poi, su quei morti non visti – e sulle storie di Hiroshima – ha ragionato. Ha anche fatto ricerca storica su quel bombardamento, accertando che era stato un’azione ingiusta, inutile e criminale, compiuta solo per permettere a qualche generale francese di poter dire di avere contribuito alla vittoria. E siccome era un episodio dentro la guerra – che Terkel aveva definito ”The good war”, con le virgolette, come gli rimproverò Rothstein – Zinn ha ragionato su guerra giusta e guerra ingiusta, e infine sulla guerra americana in Vietnam, prendendo posizione da pacifista e manganellate dai poliziotti quando manifesta in piazza.

Un altro esempio. Nel 1956, gli capitò – capitò a lui e sua moglie, che l’ha sempre pensata come lui – l’occasione di andare a insegnare allo Spelman College, il college femminile nero di Atlanta, in Georgia, che John D. Rockefeller aveva finanziato all’inizio del Novecento e che aveva cambiato nome in onore della moglie del magnate del petrolio. Zinn, come tutti, sapeva che cos’era il Sud, ma non lo conosceva. Ad Atlanta lo vide di persona. La sua risposta fu ovvia: si schierò contro la segregazione razziale che era norma e legge e fece quello che poteva per infrangere quella regola. Ci sono racconti, come quello che ha scritto Alice Walker, che parlano della “sorpresa” delle ragazze dello Spelman di trovarsi a fare – con la naturalezza che Zinn e l’altro radical Staughton Lynd davano alla cosa – atti di protesta che il perbenismo della borghesia nera locale riteneva più che sconvenienti, impensabili. Per Zinn e per l’altro radical Staughton Lynd, anche lui presente ad Atlanta, “abbandonare la lezione per andare ai picchetti” (come scrive Zinn in un articolo del tempo) era naturale e ragionevole. Fino ai primi anni Sessanta, Zinn partecipò in prima persona al movimento contro la segregazione razziale e per i diritti civili nel Sud e la più combattiva delle organizzazioni nere del momento, lo Student Nonviolent Coordinating Committee, lo scelse come “consigliere anziano”, insieme con quell’altra grande figura del movimento nero che fu Ella Baker. Zinn diede anche un’interpretazioni del movimento nero di quegli anni che pochi allora avrebbero condiviso, definendoli i “nuovi abolizionisti”.

Ma c’è anche un altro aspetto, inseparabile da quello appena ricordato. Zinn è sempre stato un insegnante. “Ricordo di essere entrato in aula per la mia prima lezione”, racconta lui stesso, “e di avere visto sulla lavagna le scritte del docente che mi aveva preceduto. Era l’albero genealogico degli Stuart e dei Tudor. Queste giovani donne nere erano tenute a studiare i monarchi d’Inghilterra e le differenze tra Carlo I e Carlo II, ma [non studiavano] nulla della storia dei neri”. Avevano un corso obbligatorio sulla storia dell’Inghilterra, ma neppure una lezione sulla storia afroamericana. Il fatto – ovvio, naturale – di insegnare alla ragazze afroamericane la loro storia fu un atto di rottura che avrebbe avuto conseguenze qualche anno più tardi, insieme con la inaccettabilità della sua partecipazione pubblica al movimento contro la segregazione razziale. Zinn fu licenziato per insubordinazione nel 1963.

Ma che cosa fosse necessario insegnare e a chi si dovesse insegnare la storia rimase il filo che avrebbe tenuto legati insieme tutti gli anni successivi della sua vita. Ed esattamente come nella protesta contro la segregazione o contro la guerra o contro la discriminazione sessuale o nei conflitti di lavoro non si può stare da due parti allo stesso tempo, Zinn ha preso partito anche nella sua scrittura e interpretazione della storia. La sua Storia del popolo americano, pubblicata nel 1980, è il racconto di un lungo percorso che in tanti hanno fatto a piedi, mentre pochi altri lo facevano in carrozza. E’ una “contro-narrazione”, secondo la definizione che Henry Louis Gates ha dato del concetto, applicandolo però soltanto agli afroamericani: “Le persone capiscono se stesse e il mondo attraverso narrazioni – racconti trasmessi da insegnanti, giornalisti, ‘autorità’ e altri produttori di senso comune. E usano contro-narrazioni per contestare quella realtà dominante e i presupposti su cui si regge. In un certo senso, tutta la storia afroamericana è una contro-narrazione, documentata e legittimata da lenta e faticosa ricerca”.

Se si scrive storia da quel punto di vista, se cioè si scrive “storia dal basso”, o si fa “storia militante” oppure se, come scrive Jim Green, si “prende a cuore la storia”, ci si espone a critiche a volte pesanti. Può succedere di non soddisfare i palati fini di storici che sono fermamente convinti che la storia sociale non sia storia o che la storia “vera” sia quella delle grandi figure della politica e dell’economia, oppure ancora che l’unico motore della storia siano i ceti dominanti. Non sono stati soltanto i conservatori, o i reazionari a dileggiare la storia from the bottom up. Anche tra gli storici culturalmente più vicini a gente come Zinn, c’è stato chi non ha avuto simpatia per le contro-narrazioni.

Da parte di alcuni di loro è stato rimproverato a Zinn – così come veniva rimproverato a Studs Terkel – di essere un “divulgatore” e quindi un semplificatore. La sua visione della storia, ha scritto Sean Wilentz, un antico giovane radical che insegna a Princeton, “è capovolta: fa degli eroi di quelli che erano i reietti, ma dopo un po’ la trama [del racconto] mostra la corda”. Il radical Eric Foner, pur essendo molto più simpatetico di Wilentz, fu quasi ugualmente critico in una recensione alla Storia. Allora Foner scrisse che la storia “dal basso” di Zinn era spesso troppo parziale e che Zinn presentava la gente comune un po’ troppo come “o ribelli o vittime”, e troppo poco come “gente che tenta di vivere con dignità in circostanze difficili”. Anni dopo, nel ricordo pubblicato da “The Nation” in occasione della morte di Zinn, Foner correggeva un po’ il giudizio: “A volte, a dire il vero, il suo racconto tendeva e essere manicheo, a essere una narrazione ipersemplificata della battaglia tra le forze della luce e delle tenebre. Ma la Storia del popolo americano ha insegnato una lezione alta e salutare: che nonostante le repressioni troppo frequenti, se gli Stati Uniti hanno una storia da celebrare questa storia sta nei movimenti sociali che hanno fatto di questo paese un paese migliore”. E aggiungeva, sintetizzando la lettura della storia di Zinn: gli eroi del passato non vanno cercati tra i presidenti o i capitani d’industria, ma tra radicals come l’ex schiavo e abolizionista Frederick Douglass, la femminista Susan B. Anthony e il sindacalista socialista Eugene V. Debs. E altri come loro, naturalmente.

Che Zinn abbia a volte semplificato e reso fin troppo lineare la sua narrazione è giusto dirlo. Non avrebbe avuto milioni di lettori se non fosse stato così, se la sua narrazione storica fosse una puntigliosa esercitazione della professione, invece di essere quello che è: una dimostrazione appassionata che la storia di una nazione è percorsa da molti fili intrecciati, che è caratterizzata da equilibri e squilibri nei rapporti di potere sociali, economico e politico, che non è un viaggio trionfale di una classe o di un ceto, ma il prodotto di una dinamica o dialettica incessante. Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale. E’ giusto puntare il dito sugli errori fattuali o le forzature interpretative e le diversità di giudizio rispetto a chi ci precede nella scrittura; fare questo è parte integrante del mestiere dello storico. Ma non è lecito gonfiare surrettiziamente i “difetti” fino a dimensioni che portino a delegittimare l’opera in quanto tale e la prospettiva di cui essa è portatrice. Non è lecito nascondere il proprio disagio, magari derivante dal non avere detto noi cose che lo storico radical invece dice senza peli sulla lingua, dietro il paravento di quello che Peter Novick ha definito il “nobile sogno” dell’obiettività.

Quanti, fino a pochi anni fa hanno scritto la storia tenendo conto del modo in cui la realtà poteva essere vista dagli indiani, dagli schiavi, dalle donne, dai lavoratori, immigrati o nativi che fossero? Quanti sono gli storici che hanno fatto l’apologia di Thomas Jefferson senza dire una parola dei suoi rapporti con la sua schiava Sally Hemings, madre dei suoi figli? Quanti hanno spiegato il fordismo e scritto di Henry Ford senza dire che era un virulento antisemita, insignito della massima onorificenza hitleriana e un “disprezzatore” della gente comune? Quanti apologeti della “democrazia jacksoniana”  hanno scritto che Andrew Jackson era proprietario di schiavi e sostenitore della schiavitù, che deportò le popolazioni indiane per fare spazio per le piantagioni di cotone? Quanti si sono scrollati di dosso la soggezione al mito di Theodore Roosevelt e ne hanno denunciato l’aggressività espansionistica, l’imperialismo? Mi riferisco non ai biografi accademici o agli autori di monografie, cioè agli specialisti che scrivono per specialisti, ma agli estensori dei libri di storia per le scuole, i college e le università. Contro tutti questi, nel 1980 ha fatto la sua comparsa, per fortuna, la Storia di Howard Zinn, che per prima ha cercato di rispondere a domande come quelle appena formulate. Se quelle cose non sono più la faccia nascosta della luna è anche grazie a quella sua prima esplorazione.

Bruno Cartosio (1943) insegna storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti, collabora con varie testate giornalistiche (tra cui “il manifesto”) ed è autore di numerose pubblicazioni. Dirige, con Alessandro Portelli e Giorgio Mariani, “Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”. Tra i suoi volumi: Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy (1992), L’autunno degli Stati Uniti (1998), Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti, scrittori nel Sud-ovest, 1865-2002 (2002), Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (2005), New York e il moderno (2007).

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