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euronomade

L’infamia della guerra e della socialdemocrazia nel ’900

di Antonio Negri

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Essa si voleva legittimata dallo Stato, impiantata sull’identità della nazione, e pretendeva che popolo e nazione venissero considerati un unico concetto: e che quindi i sudditi – per amor di patria – fossero dallo Stato-nazione inviati al macello? Si rabbrividisce ora nel ricordare che alcuni fra i massimi intellettuali del XX secolo inneggiarono alla sovranità come bene assoluto e alla guerra e alla distruzione della nazione accanto, come necessità della vita dello Stato-nazione. Thomas Mann, 1914:

 Sotto la dittatura militare la Germania ha ritrovato la libertà … Oggi la Germania è Federico il Grande … A fronte del re tedesco sta Voltaire, il pallido borghese: il loro contrasto è quello di ragione e demone, spirito e genio, arida chiarezza e nebuloso destino, moralismo borghese e dovere eroico… La guerra fu lo stimolo che fece nascere la mia protesta contro l’esemplificazione moralistica del mondo attraverso la propaganda democratica della virtù.

E vi risparmio quel che dall’altro lato del Reno scriveva Henri Bergson, tra il novembre e il dicembre 1914, che è l’esatto rovescio di quanto fin qui ricordato: «C’è una forza che onora e una forza che abbrutisce», inutile aggiungere chi godesse dell’una e chi dell’altra. Sembra d’esser ritornati al Medioevo quando – come ci ricorda Kantorowicz – si proclamava che «coloro che dichiarano la guerra al Santo Regno di Francia dichiarano guerra al Re Gesù». Non ci resta, anche in questo caso, che stupirci della “banalità del male”.

Questi intellettuali interpretavano la tradizione nella quale s’affondano le radici dello Stato-nazione. La sua anima è inizialmente anti-illuminista e controrivoluzionaria; poi essa interpreta, nella volontà di mantenere l’unità nazionale dinnanzi alle difficoltà dell’accumulazione capitalista e all’esplosione della lotta di classe, un’ideologia che, nell’esaltazione dell’individualità storica (ma universale) della nazione, nasconde gli interessi di potere delle oligarchie dominanti. È in questa situazione che lo Stato-nazione europeo esprime la sua vocazione. Intendo con ciò: le pratiche dell’aggressione imperialista, le figure della conquista coloniale, le produzioni ideologiche fasciste, fino ad arrivare alla costruzione di mostruose macchine da guerra alle quali è subordinata l’esistenza stessa della nazione. Paradossalmente è proprio l’“amor di patria”, o piuttosto una commossa pietas, che m’impedisce di approfondire questo argomento e di descriverne le terribili derive. La violenza delle aggressioni imperialiste, la barbarie del colonialismo sono ben note: di volta in volta esse risorgono e riappaiono sullo sfondo della nostra attualità.

Certo, quel che dico è riduttivo rispetto alla dimensione del fenomeno “nazione”, e me ne scuso. È pur vero che, al di là di ogni mistificazione, quel concetto sia carico di pericolose contraddizioni: esso esalta i valori dell’identità e troppo spesso congiunge alla generosità patriottica il dispotismo sovrano, troppo spesso accorda al soggetto la cittadinanza, solo se questa è accompagnata dall’alienazione e dalla soggezione. Dov’è finita quell’idea di Ernest Renan della nazione come “plebiscito quotidiano”?

A mostrare queste derive vennero poi il fascismo e i milioni di morti che le guerre del XX secolo hanno lasciato sul campo. Sembrava quasi che i deliri spengleriani avessero trionfato: «la guerra è il fatto essenziale della vita, la vita stessa … L’animale da preda è la forma più elevata della vita animata … Nella Kultur faustiana il sangue ardito dell’animale da preda insorge contro la tirannide del pensiero puro». Nella guerra anima e destino si compongono.

Tutto ciò è orribile ma lo diventa in maniera odiosa quando, a coprire queste derive dello Stato-nazione e a collaborare alle sue espressioni, a farsi corresponsabili di carneficine e di violenze, si accompagnarono organizzazioni e partiti che si richiamavano al socialismo. Sì, al socialismo, a quella religione dell’eguaglianza dei lavoratori e della libertà dei popoli che si era fragorosamente imposta nel trentennio che terminava il secolo XIX. A quel socialismo che, nella Comune di Parigi, aveva costruito, nella resistenza all’invasore tedesco e contro la borghesia francese, un modello di organizzazione democratica del potere. Dopo neppur mezzo secolo, nel 1914 e poi lungo tutto il XX secolo, altri socialisti furono tratti dal loro riformismo e dall’illusione di ottenere vantaggi attraverso compromessi con il capitale (e dalla indiscutibile fiducia e lealtà nella nazione) alla collaborazione con le élites capitaliste nella guerra contro popoli fratelli, ad avventure coloniali di conquista e asservimento di popoli interi – fino, infine, a partecipare alla guerra quotidiana che lo Stato-nazione conduceva contro i propri figli, considerandoli nemici in quanto lavoratori che avevano conquistato coscienza del loro sfruttamento. “Socialpatrioti” che avevano abbandonato la pratica della lotta di classe e che si erano lasciati ideologicamente trascinare da un positivismo cieco, da un darwinismo sociale immune da ogni dimensione etica, e avevano interpretato appunto, ancora, la classe e la nazione nel segno dell’identità – di una metafisica unità che in realtà non era altro che un coacervo della “ragion di Stato” e di sporchi interessi corporativi.

Sotto i colpi omicidi della guerra mondiale imperialistica il nostro orgoglio e la nostra speranza, l’Internazionale della classe operaia, è ignominiosamente crollata; e più ignominiosamente di tutte è crollata la nostra sezione tedesca, quella predestinata a marciare alla testa del proletariato.

Così nel 1914 Rosa Luxemburg. E continua:

Lo spaventoso macello reciproco di milioni di proletari, al quale oggi con orrore assistiamo, queste orge dell’imperialismo omicida, che hanno luogo sotto le ipocrite insegne di “patria”, di “civiltà”, di “libertà”, di “diritto delle genti” devastano paesi e città, disonorano la civiltà, calpestano la libertà e il diritto delle genti, rappresentano un autentico tradimento del socialismo.

E in quell’occasione Lenin fondava una nuova Internazionale, destinata a lottare contro tutte le guerre e a ridare senso a “pace, lavoro e uguaglianza”. Il “secolo breve” cominciava.

È dentro il “secolo breve” che ho vissuto. E lo ho vissuto con la sofferenza di chi di esso ha assorbito gioie e speranze per vederle trasformate in lutti e disfatte. Non voglio intrattenervi sul senso di quel secolo, temporalmente breve ma con una risonanza che ne supera i limiti. Nel parlarne avverto che dal quadro storico qui si discende a quello della vita, dalle considerazioni dell’intelletto alle reazioni della passione. Permettetemi perciò, a questo proposito, di far riferimento a tre esperienze legate alla mia vita.

Mancavano vent’anni alla mia nascita quando nel ’14 scoppiò la Prima guerra mondiale. Mio padre, che allora aveva 18 anni, se la fece tutta, quell’orribile guerra, nel fango delle trincee. Ne uscì malato, più tardi le persecuzioni dei fascisti lo fecero morire. Mio padre era allora socialista. Quante volte maledisse quei socialisti tedeschi che nel Reichstag (erano cento deputati e potevano bloccare la dichiarazione di guerra) votarono invece a favore. E maledisse i socialisti italiani che in gran parte fecero lo stesso e il loro populismo interventista, e la nascita del “fascio” di Mussolini in questo frangente. Li maledisse sino a quando, negli anni ’20, non aderì al comunismo – contro la guerra, per l’internazionale dei popoli. Io parlo qui contro quell’infame connubio fra socialismo e nazionalismo che produsse milioni di uomini morti nelle trincee e negli assalti all’arma bianca. Ne parlo nel nome dei disertori e dei soldati ribelli, fucilati a migliaia, solo perché volevano pace.

Rinnovo altri ricordi. Negli anni ’50 studiavo in Francia. I socialisti erano al potere. Guy Mollet era il loro leader e capo del governo. In Algeria scoppia una rivolta contro i colonialisti francesi, una rivolta che, nel quadro dei movimenti d’indipendenza dal colonialismo nel secondo dopoguerra, percorse l’Africa e l’Asia. Miei coetanei furono allora chiamati alle armi. Con due di essi, di cui ero amico, mantenni il contatto. Tormentati fra l’amor di patria in nome del quale erano stati chiamati a combattere e il senso di giustizia che li spingeva ad abbracciare gli insorti e a condividerne la lotta; fra la lealtà con i commilitoni e il disprezzo per l’ipocrisia e la crudeltà dei comandanti dei loro battaglioni, l’uno si immerse in una gravissima depressione, l’altro, tornato in Francia, collaborò con la resistenza algerina metropolitana. Divennero allora entrambi comunisti ma non aderirono mai al PCF che in quel periodo non aveva scrupolo a ripetere le infami opportuniste scelte di collaborazione che aveva condannato nei socialisti. Anche i comunisti, ora, al servizio della nazione – che pretendevano fosse la France di Descartes e di Robespierre – mentre conduceva una guerra che era semplicemente una propaggine dell’egoismo borghese e della ragion di Stato. Se mi si chiede a nome di chi io qui parli, dirò subito che lo faccio a nome di quei fratelli, Philippe e Bruno e degli algerini torturati che essi non torturarono – ma ne sentirono responsabilità e vergogna – e dei mille ribelli uccisi e dei mille innocenti massacrati.

Ancora un ricordo. Fuori dal “secolo breve” e dalla guerra fredda. Quasi nel presente, vent’anni fa, nell’ultimo decennio del secolo, eppure ancora a soli cent’anni dalla nascita del socialismo politico. Fu allora che il Labour, nella scia della Thatcher, legittimò la politica del più feroce liberismo più feroce e lo impose in nome degli interessi finanziari di una nazione che aveva smantellato ogni altra industria e ridotto alla miseria la sua gloriosa classe operaia. In solo cent’anni i “socialpatrioti” avevano appreso, dopo aver fatto la guerra ai lavoratori di altri Paesi, dopo aver massacrato i popoli coloniali – ad attaccare anche la propria base, gli operai, i loro sindacati, la povera gente. Da allora il modello neoliberale, la cui innocenza era garantita dai socialisti, fu imposto in Europa – anche e soprattutto a coloro che avevano voluto fare dell’Europa la loro nuova patria. Alla fine del XX secolo, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del dualismo delle storie d’Occidente e d’Oriente, la globalizzazione è stata accompagnata da un grande sforzo per ricostruire nuovi sistemi giuridici e politici a livello planetario. Il fallimento delle élites mondiali nel costruire un nuovo ordine è stato tuttavia clamoroso. Ne misuriamo oggi le conseguenze – e tali conseguenze si manifestano nella crisi dei mercati, nella caduta della produzione globale, nelle incertezze monetarie, nella difficoltà a controllare i movimenti della finanza. Chi avrebbe potuto prevedere che sarebbero state di questa natura le conseguenze dell’emergere di un nuovo ordine – e della caduta del muro di Berlino che tutti noi salutammo con tanta gioia? In nome dell’austerità neoliberale iniziò allora l’inferno per i lavoratori e tutti i subordinati. Assistemmo e assistiamo alla governance delle grandi coalizioni. Agendo con modi che non è improprio chiamare terroristici (molti li riconoscono come prodotto di quell’“estremismo del centro” che ha travolto le nostre istituzioni politiche) – in nome dell’austerità hanno dunque prodotto miseria, dissoluzione del Welfare State, e affidamento ad una legge di mercato crudele e corruttiva. Corruzione: sì, perché dalla imposizione della miseria non viene mai generazione ma sempre corruzione delle residue strutture dello Stato democratico. Non ci resta che sottolineare che questo disastro viene perpetrato in nome dell’indipendenza, della dignità e dell’economia nazionali – proprio quando l’egemonia del capitale finanziario investe e subordina ogni Paese ad un comando globale, irresponsabile, riducendone quindi ogni autonomia e redendo illusoria la rappresentanza popolare esercitata nell’ambito delle Costituzioni nazionali. Qui, io parlo in nome di coloro che sono sfruttati, di coloro che non hanno un lavoro, di coloro che sono alla fame.

Oggi, quando i movimenti dicono di non esser più “né di destra né di sinistra”, e sviluppano la loro resistenza contro ogni etica del comando e dell’austerità, ci si deve chiedere perché ciò avvenga. Che i movimenti non possano essere di destra, lo si comprende immediatamente: la destra è reazionaria e nello stesso momento in cui nega l’eguaglianza limita e offende le libertà. Quanto alla sinistra: i movimenti riconoscono che la destra ha sempre giocato a suo favore le inflessioni corporative della socialdemocrazia, l’ha sempre tenuta al guinzaglio, neutralizzata, resa impotente. Oggi, dire in nome di “socialismo”, non ha più alcun senso. Quindi, riconoscersi nella sinistra o votarla significa semplicemente star dentro ad un innocuo scambio istituzionale fra l’uno e l’altro padrone, uno scambio nel quale le caratteristiche sociali e progressive della democrazia sono totalmente venute meno e l’opportunismo è invece trionfante. Noi non siamo né di destra né di sinistra perché siamo altro, dicono i movimenti. Altro anche nella nostra tradizione socialista, perché non possiamo neppure dire come fecero molti prima di noi – ed erano fra noi i migliori –: non siamo socialisti ma comunisti. Non possiamo dirlo perché la speranza e la forza di donne e uomini come Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci sono state distrutte dal “socialismo reale” nel “secolo breve”. Ma se non abbiamo riparo contro le sciagure politiche del XX secolo, possiamo e dobbiamo continuare a protestare, a resistere, a costruire una nuova società. A lottare contro la guerra, contro ogni forma di schiavitù coloniale, contro l’impero della finanza – e in ogni caso contro i feticci di nazione e di socialismo – che hanno infine svelato la loro orrida sostanza nel nazionalsocialismo. E tuttavia, se non siamo di “sinistra” e neppure più “comunisti”, abbiamo un’ancora di salvezza, un altro dentro cui combattere: è la lotta di classe. La riscopriamo tuttavia in una società ridotta in macerie. Se i grandi storici dell’antichità poterono scrivere: latifundia ruinere Romam, noi possiamo legittimamente dire: lo Stato-nazione ha distrutto l’Europa e la sua storia di libertà.

C’è un tribunale al quale mi possa rivolgere? A nessun tribunale, solo ai cittadini e ai lavoratori che giudicano corrotta la democrazia che il secolo XX ci ha consegnato. E che vogliono agire per ricondurla alla pace e alla giustizia. Ricordo qui Machiavelli, quando racconta della rivolta dei Ciompi, gli operai della lana nella Firenze del XIV secolo. Scioperano e aspramente resistono alle minacce del “popolo grasso” e alle armi della Signoria. Ed ecco un anonimo ribelle levarsi strappandosi le vesti: «spogliateci tutti ignudi: voi ci troverete simili, rivestite noi delle vesti dei nobili padroni ed eglino delle nostre». Così continua l’anonimo agitatore rivolgendosi ai ricchi proprietari dell’arte della manifattura della lana: «Noi senza dubbio nobili ed eglino ignobili parranno». Non c’è alcuna ragione per cui i poveri provino rimorso per la violenza della loro ribellione dato che «dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carceri, non può né debbe quella dell’inferno capere». I servi fedeli sono sempre servi e gli uomini buoni sono sempre poveri. È venuto il momento, ripete l’anonimo agitatore: «non solamente di liberarsi da loro, ma di diventare in tanto loro superiore, che eglino abbiano più a dolersi e temere da voi, che voi di loro».
Eccoci qui pronti a ripetere quella sfida. Tribunale = giustizia? No – solo mille tribunali possono avvicinare una giustizia che qui si chiama radicale azione di trasformazione di questo mondo e di costruzione di un altro.

* Intervento letto a “GLOBALE: Tribunal – A Trial Against the Transgressions of the 20th Century”, ZKM Center for Art and Media, Karlsruhe, 19-21 giugno 2015 [qui il testo inglese]. Tutte le immagini sono testimonianze della guerra d’Algeria.

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