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tempofertile

Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”

di Alessandro Visalli

gramsci machiavelliAntonio Gramsci, ottenuto in carcere il permesso di scrivere, all’inizio del ’29, stende pochi anni dopo le sue “Notarelle” sul “Principe” di Machiavelli. Gli obiettivi della scrittura sono molteplici: dal tempo dei suoi studi filologici all’Università di Torino voleva scrivere del capolavoro del fiorentino ma, soprattutto, ora si pone il problema di indagare il rapporto del partito politico con le classi e lo Stato (Quaderno 4, 1930); cioè, di pensare “non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”.

È interessante rileggere oggi questa densissima riflessione di Gramsci, anche correndo il rischio della riattualizzazione e dunque del tradimento (ma non si può leggere senza inserire dei fili), perché è, attraverso lo schermo della trattazione del Principe, lo sforzo di confrontarsi con un momento di “crisi organica” e con l’insorgere in questa di momenti ‘cesaristi’ o ‘boulangeristi’[1], facendo leva sul “partito” e la ripresa della politica. Al momento ‘boulangerista’ si risponde con l’azione politica e la “filosofia della praxis”. Al “momento populista”, con il “momento politico” che ne incorpora tuttavia alcuni elementi: è in parte autonomo rispetto all’economico[2] e legato ad una componente emozionale e volontaristica, interamente connesso all’azione (l’obiettivo è sempre la “praxis”, l’azione pratica). Il “partito-principe” è, cioè, il suscitatore, quando se ne danno le condizioni, di una “volontà collettiva nazionale-popolare”, ed al contempo è “l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale” e quindi di una “forma superiore di civiltà moderna”.

Il Partito, vero “intellettuale collettivo”, attraverso quella che chiama l’azione della filosofia della prassi, si impegna a trasformare il senso comune[3] di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e necessariamente li muove all’azione collettiva. Questa azione, prendendo in qualche misura una certa distanza dalle forme più ingenue del marxismo, si muove a livello della “soprastruttura” ma non senza “una precedente riforma economica”. Anzi, continua subito, “il programma di riforma economica è il modo concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Le due cose, la riforma morale ed intellettuale, in seguito dirà di conoscenza, si connette internamente, indissolubilmente, all’azione. Questa serve a quella e quella senza questa non è possibile, né utile.

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lanatra di vaucan

La storia della terza rivoluzione industriale

4. L’ultima crociata del liberalismo

di Robert Kurz

Pubblichiamo il quarto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz

file 16168 media 620x365La terza rivoluzione industriale ha definitivamente precluso ogni possibilità di soluzione per l’autocontraddizione capitalistica. Esauritasi la sua dinamica compensatoria, perfino il pace-maker keynesiano applicato al decrepito sistema-feticcio non poteva che fallire. Il dogma di una forma sociale totalitaria, ben decisa a sottomettere l’umanità con immutata durezza alla legge della valorizzazione e al giogo dei mercati del lavoro, doveva allora assumere il carattere di una crociata contro la realtà.

Il ritorno ad una prospettiva radicalmente microeconomica equivale ad una politica dello struzzo che infila la testa nella sabbia: si liquida nuovamente il livello di riflessione macroeconomico, conquistato con tanta fatica e solo all’interno delle categorie capitalistiche, per dissolvere integralmente la società nei calcoli individuali degli atomi sociali e, in questo modo, rendere la crisi invisibile. Non c’è più nessuna autocontraddizione oggettiva del capitalismo, né alcun problema sociale, visto che apparentemente non fanno altro che obbedire tutti alla propria volontà autoresponsabile: «La disoccupazione può essere spiegata con una libera opzione per il tempo libero in un calcolo di ottimizzazione individuale»1 – questo almeno secondo la «teoria» dell’economista statunitense Robert Lucas. Per simili trovate oggi si vince il premio Nobel (il turno di Lucas è arrivato nel 1995). Con la sua effettivamente «semplice scoperta» secondo cui i liberi calcoli individuali non si lasciano impressionare e dirigere da misure macroeconomiche (di politica sociale), ma le rendono inefficaci con le loro «aspettative razionali» conformi al mercato – così recita la laudatio universale – egli avrebbe «rivoluzionato il pensiero politico-economico».2

Una riflessione grossolana quale quella della «teoria delle aspettative razionali» ci fa comprendere quale sia la strada che ha deciso di intraprendere la crociata neoliberale contro la realtà: l’«economia dell’offerta» («supply side») di Say deve essere applicata una volta per tutte anche ai mercati del lavoro. Chi è costretto a vendere la sua forza-lavoro deve comportarsi civilmente e in maniera altrettanto «conforme al mercato» di chi vende pomodori, mine anticarro o preservativi – ossia secondo la «legge della domanda e dell’offerta» sui mercati anonimi.

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dialetticaefilosofia

Il populismo socialsciovinista bianco, l’Europa e la ricolonizzazione del mondo

L’emergere di una democrazia bonapartista postmoderna e plebiscitaria e la rivolta “sovranista” contro la Grande Convergenza

di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)

Presento qui la postfazione a un’antologia di testi di Domenico Losurdo dal titolo Imperialismo e questione europea, curata da Emiliano Alessandroni e in uscita presso La scuola di Pitagora. Ringrazio “Dialettica e Filosofia” per avermi consentito di anticiparlo e diffonderlo in Open Access

Il ratto di Europa Mosaico III sec. d.C BeirutAbstract

Il mito transpolitico di un superamento epocale delle categorie di destra e sinistra copre in realtà l’esito ultimo di un gigantesco processo decennale di concentrazione del potere che ha determinato la fine della democrazia moderna e l’avvio di una fase di sperimentazioni di forme postmoderne di democrazia. Analogamente, la rivolta populista dei ceti medi e della piccola borghesia, che risponde a una crisi di legittimazione delle “caste” politiche, economiche e culturali europee, è in primo luogo la copertura di una furibonda guerra interna alle classi tra élites stabilite liberoscambiste e élites outsider protezioniste, le quali ultime contestano il consensus universalista e liberaldemocratico imponendo un nuovo consensus particolarista e riconducendo il liberalismo alle proprie origini conservatrici. Questa rivolta è però anche la reazione alla Grande Convergenza del mondo ex coloniale e a quel catastrofico management della crisi (l’Austerity per i poveri) attraverso il quale il capitalismo in Occidente ha scaricato sulle classi subalterne i costi della redistribuzione globale del potere e della ricchezza, scatenando risposte xenofobe indotte e un socialsciovinismo di massa che sta finendo per erodere quanto rimaneva della sinistra novecentesca.

* * * *

1. Una gigantesca concentrazione di potere neoliberale nel solco del bonapartismo postmoderno

È stato notato come l’Italia abbia spesso svolto il ruolo di un laboratorio capace di anticipare tendenze che si sarebbero manifestate in seguito anche in altri paesi, segnando a volte un’intera epoca storica.

Lo è stata e forse lo è ancora sul piano intellettuale, come ha rivendicato Roberto Esposito già negli anni Ottanta e di nuovo più di recente, rinviando ai nomi di Machiavelli e Vico e a una costante spinta di mondanizzazione resasi infine esplicita nel concetto di biopolitica1. Ma possiamo dire che lo sia stata e lo sia anche sul piano politico in senso stretto e cioè su quello delle forme della governance e, ancor prima, delle forme del conflitto.

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sinistra

Rosa Luxemburg e la sinistra

di Salvatore Bravo

r311Destra e Sinistra

La differenza tra destra e sinistra di governo si assottiglia fino a renderle perfettamente speculare, per cui la sinistra annaspa e si lascia strumentalizzare dalla destra in una pericolosa e complice relazione biunivoca. Porre il problema della differenza significa rendere palese la paralisi programmatica e politica, ed il congelamento nella storia attuale. La sinistra è flatus vocis, siamo in pieno nominalismo, la sinistra di governo risponde alla funzione del capitale, anzi lo blandisce, non è solo dimentica di sé, si lascia colonizzare, diviene parte attivo del dispositivo anonimo del capitalismo assoluto.

La presenza puramente formale della sinistra, nella storia occidentale attuale, ha la sua causa “principale-immediata” nella caduta del muro di Berlino (1989), dopo la caduta dei paesi a socialismo reale non vi è stato che un lungo frammentarsi per adattarsi al capitale, per rendersi visibile e spendibile sul mercato del voto. La sconfitta storica ha palesato un’altra verità: il progressivo emergere del nichilismo economicistico delle sinistre. La sconfitta è l’effetto della verità profonda della sinistra, ovvero il progressivo svuotarsi di un progetto, dell’umanesimo per un accomodarsi curvato sull’economia della sola quantità, per cui l’avanzamento della cultura liberista ha trovato un mondo simbolico già disposto all’economicismo, al verticismo del potere, all’antiumanesimo. Il capitalismo di stato dei paesi a socialismo reale non è stato antitetico, ma competitivo al capitalismo liberista, le destre del capitale sono avanzate su un terreno già arato, pronto a prediligere la quantità sulla qualità, la propaganda all’attività soggettiva consapevole.

Non tutta l’esperienza è stata nefasta, ma il “tradimento culturale” rispetto ai grandi propositi teoretici ed ideologici ha indotto gli elettori a scegliere l’autentico (capitalismo liberista) rispetto all’imitazione (capitalismo di stato).

Per poter riaffermare la differenza tra destra e sinistra mediata dalla condizione storica attuale, non è sufficiente affermare che destra e sinistra sono categorie vetuste, dovrebbero essere riformulate con nuovi contenuti, è necessario l’esodo dagli steccati ideologici. Ricostruire le posizioni ideologiche è operazione lenta e faticosa nella quale lo strato teoretico incontra la prassi.

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marx xxi

La "Questione nazionale" nel XXI secolo

di Alessandro Pascale

mano falce«L'emancipazione della classe operaia deve essere l'opera della classe operaia stessa» (Karl Marx) [1]

Da quando esiste il socialismo scientifico i comunisti sanno che l'obiettivo primo della loro azione pratica deve essere la conquista del potere politico. Per giungere a tale obiettivo tutti gli autori fondamentali (da Marx a Gramsci, da Lenin a Mao, ecc.) concordano sul fatto che il partito comunista debba saper coniugare patriottismo ed internazionalismo.

Anche se è più nota l'affermazione che «gli operai non hanno patria», Marx ed Engels precisano nel Manifesto del Partito Comunista:

«ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale [nell'edizione inglese del 1888 si precisa “classe dirigente della nazione”, nota di Luciano Gruppi], costituirsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia». [2]

Inoltre «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia». [3]

Non è un caso infatti, come sottolinea Domenico Losurdo nel suo monumentale La lotta di classe [4], che tutte le rivoluzioni socialiste siano nate dalla capacità di coniugare la salvezza della nazione in rovina con un programma radicale di trasformazioni sociali. E che già Marx ed Engels perseguissero «non solo la liberazione/emancipazione della classe oppressa (il proletariato), ma anche la liberazione/emancipazione delle nazioni oppresse» [5], ricordando l'appoggio che diedero alle oppressioni subite dai polacchi e dagli irlandesi. Il sostegno ai movimenti nazionali locali viene dato nonostante vi partecipino anche esponenti della nobiltà. Ciò perché «se il proletariato è il protagonista del processo di liberazione/emancipazione che spezza le catene del dominio capitalista, più largo è lo schieramento chiamato a infrangere le catene dell'oppressione nazionale» [6]; nel caso irlandese, Marx fa coincidere la “questione sociale” con la “questione nazionale” [7].

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sinistra

Pianificabilità, pianificazione, piano

di Ivan Mikhajlovič Syroežin

II parte – Pianificazione

Capitolo 4. L’autoregolamentazione nei sistemi economici (parte I)

2.cap4 1Introduzione di Paolo Selmi

Cari compagni,

non potevo non iniziare questa seconda parte di lavoro con la foto di questo nonnino, dall’aria simpatica, ritratto con la sia nipotina. Il suo nome non dirà nulla a nessuno ma, siccome proprio nessuno non fu, è il caso che cominci a dire qualcosa a qualcuno, specialmente a chi come noi è ormai da un anno in parete e, moschettone dopo moschettone, sta puntando alla stessa cima da lui scalata più e più volte.

Si chiamava Nikolaj Konstantinovič Bajbakov (7 marzo 1911, Sabunçu, Impero Russo, attuale Azerbaigian, 31 marzo 2008, Mosca), uno che dal 1963 poteva permettersi di girare con, appuntata sulla giacca, una delle massime onorificenze dell’URSS, il premio Lenin (Лeнинская прeмия) e, dal 1981, la massima onorificenza sovietica in assoluto: Eroe del lavoro socialista (Герой Социалистического Труда), al netto di tutte le altre onorificenze conferitegli nella sua lunga vita.

La foto che segue lo ritrae nel lontano 26 giugno 1972, sul posto di lavoro. È il secondo da sinistra attorniato, oltre che dall’interprete e dalle immancabili alte cariche, anche da un ospite straniero che non ha bisogno di presentazioni.

Ebbene si: quel giorno Fidel Alejandro Castro Ruiz (1926-2016) stava visitando il Centro principale di calcolo del Gosplan dell’URSS (Главный вычислительный центр Госплана СССР1) e, a fianco, aveva il Presidente del Gosplan stesso, vicepresidente del Consiglio dei ministri dell’URSS, Nikolaj Bajbakov. Di quell’incontro è lo stesso Bajbakov, nelle sue memorie, a fornirci dettagli concreti, come la sua raccomandazione a Fidel, per esempio, di non puntare sulla monocoltura o di differenziare i salari operai in base al merito. È un libro prezioso, come tutte le autobiografie di personaggi di un certo spessore, scritto nel 1998, negli anni più neri della neonata Federazione Russa2.

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il rasoio di occam

La rete intrappola la democrazia

di Antonio Cecere

Paolo Ercolani è tornato, in Figli di un io minore (Marsilio 2019), a riesaminare, da una prospettiva alternativa a quella popperiana, il rapporto fra democrazia e conoscenza. Vi si collega una proposta di costruzione di una nuova società della conoscenza che merita di essere attentamente valutata

82a91bc4 334c 4638 85a9 581797f451a9 smallA distanza di sette anni da L’ultimo di Dio (Dedalo 2012), Paolo Ercolani torna ad approfondire un tema essenziale per il dibattito intellettuale e politico dei nostri giorni: la democrazia intrappolata nella rete. Il filosofo romano è impegnato da anni nello studio e nell’analisi dei processi politici e dei cambiamenti in seno alle democrazie occidentali in virtù dell’impatto dei nuovi media.

In questo saggio l’analisi si allarga a tematiche antropologiche e pedagogiche, frutto di anni di confronti con studenti e di una propria esperienza diretta nel mondo virtuale dei social networks.

Il libro è suddiviso essenzialmente in due parti: una prima è costituita da un’importante prefazione di Luciano Canfora e dai sei capitoli che l’autore ha strutturato in modo che siano leggibili anche da un pubblico non specialista; nella seconda parte, pensata per un circuito di studiosi, l’autore elabora un impianto di note molto consistente e soprattutto una bibliografia aggiornatissima e di grande respiro internazionale.

Nella prefazione (pp. 7-9) Luciano Canfora mette in evidenza l’argomento più radicale e corrosivo del saggio di Ercolani, ovvero l’idea che il suffragio universale, vero totemdelle democrazie moderne, abbia mostrato tutta la sua natura superflua, confermando la teoria secondo la quale la rete, il massimo strumento di comunicazione di massa, non produca maggioranze rivoluzionarie, ma, al contrario, sia un veicolo di consolidamento per le élite più reazionarie.

Nel primo capitolo (pp. 27-84), L’uomo senza pensiero, Ercolani fa i conti con la vulgata popperiana che tanto aveva contribuito a fomentare illusioni circa l’avvento di una società aperta, quando il web cominciò a mostrare la propria vocazione di strumento di massa. L’autore, grazie a una scrittura agile e comprensibile, ma allo stesso tempo tagliente, riesce a cogliere con precisione tutte le più evidenti contraddizioni fra le speranze dei primi osservatori del fenomeno web negli anni ottanta e la realtà dei giorni nostri. L’aver puntato sulla difficoltà del libero pensiero nella società attuale pone l’analisi del testo all’interno della già consistente letteratura sociologica di un maestro come Edgar Morin, il quale aveva già notato come lo «Tsunami di informazioni», che piovono ogni giorno sui nostri dispositivi tecnologici, invece che favorire riflessioni e partecipazione al dibattito pubblico, favorisce una passiva acquisizione di slogan buoni per un atteggiamento da sostenitore di idee altrui.

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anticitera

Umanità, tecnica e natura (ricordando lo sbarco sulla luna)

di Alessandro Della Corte, Stefano Isola e Lucio Russo

everest 1Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, e lo ricordiamo formulando una domanda i cui legami con quell’evento speriamo appariranno più chiari nel seguito.

Perché l’ideale platonico di un potere legittimato soltanto dalle superiori conoscenze dei suoi detentori sembra oggi tornato così seducente?

Alcune ragioni ci sembrano abbastanza ovvie. Il crollo del livello culturale medio della classe politica dà origine per reazione a una fisiologica ribellione contro “l’ignoranza al potere”, che facilmente può generare o alimentare l’ideale platonico.

Un tale ideale diviene particolarmente comprensibile, anche se non necessariamente condivisibile, ammettendo di vivere in un mondo che soltanto gli “scienziati” possono comprendere e modificare. Ciò darebbe loro il diritto, si potrebbe sostenere, di decidere anche per i non-scienziati, ovvero per coloro che per ignoranza non sono in grado di discernere la verità dietro le apparenze e conseguentemente agiscono come gli incatenati nella caverna platonica.

Un mondo di questo tipo è stato immaginato molte volte nella storia. Ad esempio da Francesco Bacone, il quale vedeva negli scienziati i soli esseri dotati di un sapere in grado di trasformare la realtà e di assicurare una vita migliore all’intera umanità. Idee di questo tipo, per altro, hanno avuto largo spazio tra la fine del XVII e il XVIII secolo, grazie alle società scientifiche impegnate, tra le altre cose, ad applicare la scienza a problemi che interessavano gli Stati nazionali, nonché alla stessa visione strategica tipica del dispotismo illuminato.

D’altra parte, al tempo in cui viveva Platone, e ancora in quello di Bacone, gli esseri umani si muovevano con una certa fiducia in un mondo regolato da una molteplicità di fattori: la cultura, il linguaggio, la politica, le istituzioni, le arti, le attività pratiche, etc., e anche chi non riteneva desiderabile l’ideale platonico, difficilmente poteva crederlo una reale minaccia per la libertà e la dignità umane. E questo anche perché quell’ideale, e il mondo che lo avrebbe potuto legittimare, non poteva stabilirsi se non come una proiezione dell’immaginazione, poiché l’insieme delle possibilità d’intervento tecnico sul mondo era incommensurabile con la varietà dell’esperienza umana, per orientarsi nella quale si continuava ad avvalersi perlopiù del senso comune e del linguaggio quotidiano.

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antropologiafilosofica

Quale socialismo?

di Andrea Zhok

Starry Night

1. Introduzione

In tempi recenti, con il chiarirsi dell’inadeguatezza politica e teorica di ciò che va sotto il nome di ‘sinistra’, si è riproposta l’esigenza di usare termini meno ambigui e più sostanziali per definire visioni alternative al dominio dell’ordinamento capitalistico e della teorizzazione liberale. La direzione più semplice in cui si può operare tale chiarimento è recuperando il concetto di ‘socialismo’.

E tuttavia si fa presto a parlare di ‘socialismo’.

Nel tempo il termine è venuto a significare cose assai diverse, e le discussioni sull’essenza del socialismo (o comunismo) e sulla loro versione autentica occupano intere biblioteche. È totalmente impensabile ripercorrere qui un’esegesi storica di quel dibattito. Di socialismo parla per primo Saint-Simon, opponendolo all’individualismo liberale, ma il concetto si consolida sul piano teorico solo con la riflessione marxiana, dove esso emerge come teoria che sostiene la proprietà sociale (comune, collettiva, pubblica, o cooperativa) dei mezzi di produzione.

Nelle pagine di Marx il termine socialismo venne tuttavia subordinato al termine ‘comunismo’, che però a sua volta cadde in parziale disuso negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Negli ultimi decenni prima della Prima Guerra Mondiale sarà il termine socialismo ad occupare quello spazio concettuale, fino alla Rivoluzione d’Ottobre, quando Lenin userà socialismo e comunismo con accezioni divergenti: egli contrapporrà lo Stato socialista come necessario momento intermedio, alla Società Comunista, come ideale futuro.

Dopo il 1918 il termine ‘comunismo’ riprese perciò quota, anche nel tentativo di distanziarsi dal fallimento dei partiti socialisti europei di fronte all’ingresso in guerra, e rimarrà termine diffuso e prevalente, seguendo le sorti dell’avventura storica sovietica, fino al suo collasso. Nel frattempo il termine ‘socialismo’, spesso nella sua variante ‘socialdemocratica’, si sposterà sempre di più in posizione antitetica al comunismo sovietico.

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sinistra

Mestruazione: liberazione

di Karlo Raveli

tener y serLa basilare ricchezza, risorsa, realizzazione e prosperità umana non sorge certamente da patrimoni o cosiddette fortune – materiali, tecniche, intellettuali, creative... - ma prima di tutto dalla fertilità femminile. È la riproduzione della specie. E la mestruazione ne è la sua armonica rivelazione sanguigna. Ciò che segnala ben materialmente tangibilità di vita e prosperità reale di una società. Come la nostra che però si sviluppa ora in modo sempre meno naturale infettando il divenire del proprio ecosistema vitale.

Commettiamo un errore (solo un lapsus?) gravissimo quando affermiamo, ormai sempre più di frequente, che “dobbiamo salvare il pianeta”. No, il pianeta Terra esisterà ancora per milioni o miliardi d’anni e l’attuale nefasto Capitalocene sarà superato da più periodi geologici. Con altre ere ed estinzioni dopo la nostra, ormai sempre più probabile e vicina! Ciò che dobbiamo (tentare di?) salvare non è il pianeta ma la specie umana, assieme ai milioni di altre varietà viventi sopravvissute a infezioni e disastri provocati proprio da quest’ultimo periodo di svolgimento dell’umanità. Che poi chiamano evoluzione, sviluppo o progresso, però sempre più contro natura. La nostra e di tutto l’ecosistema.

Ed ecco il fulcro vitale non solo per affrontare una possibile liberazione sociale generale, ma appunto ormai per la stessa sopravvivenza del homo cosiddetto sapiens: il recupero di una comprensione intelligente e naturale di questa nostra primordiale finalità e ricchezza: la riproduzione della specie. Cominciando dal significato della mestruazione come sua notifica, manifesto e decisivo passaggio operativo. Vincendone le patologiche alienazioni generate negli ultimi millenni da un percorso patriarcale che ha umiliato il ciclo femminile con pregiudizi e tabù. Come passo essenziale per istituire decorsi e finalità maschiliste sempre più sofisticate sulla cultura umana di riproduzione: dalla nascita e crescita dei figli e poi via via con sempre più multiformi ammaestramenti, organizzazioni, istituzioni e sistemi sociali.

Ma perché a partire sostanzialmente dalla mestruazione? E come?

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Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”

di Alessandro Visalli

p28 02Proseguendo la lettura della “teoria della dipendenza” e delle sue diramazioni, ed in particolare in continuità con l’analisi della posizione, estesa su quattro decenni e soggetta a notevoli mutamenti, di Andre Gunder Frank, vale la pena affrontare questo libro del 2008 di Hosea Jaffe che affronta, attraverso un serrato corpo-a-corpo con la tradizione marxiana, una questione decisiva e tenta di risolverla negando radicalmente la funzione progressiva del capitalismo. Vediamo però prima qualche consonanza con gli altri orientamenti teorici di cui abbiamo già parlato: come il suo amico Frank, in particolare dopo la svolta[1] degli anni zero, Jaffe pensa che sia l’eurocentrismo del XIX secolo ad aver portato fuori strada molta parte della tradizione marxista, ed è convinto che non sia tanto la presunta superiorità tecnologica o istituzionale ad aver consentito all’occidente di prevalere, ma il colonialismo[2]. Concorda quindi con la tesi di fondo della “teoria della dipendenza”, sin dalle prime formulazioni in Baran[3], per la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo, ma la sua presenza. Il capitalismo, cioè, estendendo le sue pratiche di sfruttamento, determina per sua natura una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena con connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo. Come concluderà, il capitalismo non è progressivo, ma antagonistico dello sviluppo umano.

Hosea Jaffe nasce a Città del Capo nel 1921 e muore in Italia, a San Martino Valle Caudina nel 2014, è stato uno storico ed economista sudafricano. Ha insegnato in mezzo mondo e tre continenti, ed ha svolto una funzione critica verso l’evoluzione della globalizzazione prima e l’Unione Europea dopo. La prima è intrinseca al capitalismo (una tesi che è propria in qualche modo di tutta la scuola e che evolve a partire dalle analisi sull’imperialismo di primi novecento), la seconda, che il nostro tratta in alcuni libri sulla Germania[4] già negli anni ottanta e poi nei primi anni novanta, è individuata come dispositivo concorrenziale ad egemonia tedesca.

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marx xxi

Una discussione sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento

di Giorgio Galli - Roberto Sidoli

99 Doppio segretoNel corso degli ultimi mesi si è avviata una discussione multilaterale fra l’autore del libro I rapporti di forza e il professor Giorgio Galli, dibattito che fra le altre cose ha avuto come oggetto anche lo schema teorico dell’effetto di sdoppiamento e la centralità della sfera politica, intesa in senso leninistico come “espressione concentrata dell’economia”, all’interno del processo di riproduzione delle variegate e diverse società via via apparse sull’arena storica nel corso degli ultimi undicimila anni, a partire dalla protocittà collettivistica di Gerico. Il risultato e il sottoprodotto del confronto avviato in questo ultimo periodo è costituito dallo scambio epistolare sotto riprodotto, che spera e intende avviare un percorso di confronto teorico su tali temi nella sinistra antagonista [Daniele Burgio]

* * * *

Commento

di Giorgio Galli

“Il cruciale biennio novembre 1989 (abbattimento del muro di Berlino) – agosto 1991 (implosione dell’Urss, col colpo di stato di Eltsin), poté essere presentato come riprova del fallimento del marxismo e come sua scomparsa dall’orizzonte politico-teorico europeo, che aveva dominato per un secolo, dall’ultimo ventennio del XIX secolo al citato biennio del XX. In realtà, la struttura di pensiero che ha preso nome da Marx non scomparve da quell’orizzonte culturale: per limitarci all’Italia, hanno continuato ad essere pubblicati prodotti ad alto livello a quel pensiero ispirati: ne cito soltanto due, che hanno diretta attinenza col terzo (dattiloscritto di Roberto Sidoli, “I rapporti di forza – Analisi della dinamica politico-sociale dal 9000 a.C. fino ai nostri giorni”), al quale questo commento è dedicato.

Dei due testi che qui segnalo, il primo è “Guida alla lettura de ‘Il Capitale’” (di Luigi Ferrari, ed. Del Pavone, 2019). Vi si dimostra l’assoluta scientificità del pensiero di Marx, che viene collocato, ne “L’ascesa dell’individualismo economico”, sempre di Ferrari, stesso editore, 2017), con base sul rapporto tra individualismo e collettivismo (la “linea nera” e la “linea rossa” di Sidoli).

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contraddizione

Sul Salario minimo

di Carla Filosa*

Di seguito un breve intervento di Carla Filosa sulle ipotesi di Salario minimo. La questione è stata affrontata con Carla nella trasmissione domenicale di Radio onda rossa 87.9 a Roma – http://www.ondarossa.info – proprio al ridosso della sua iniziale pubblicazione su La Città Futura. Qui il podcast

salario minimo thegem blog defaultPer leggere anche i disegni di legge sul salario minimo (PD: n. 310 ; 5Stelle: ddl n. 658; LEU: ddl n. 862) non è sufficiente conoscere il significato comune o apparente delle parole ivi contenute: è necessario riconoscerne il significato, sempre sottinteso se non ignorato, per comprenderne il contenuto reale o scientificamente concreto. Per la corretta individuazione di quest’ultimo si accolgono qui le categorie dell’analisi marxiana della critica dell’economia politica, alla luce della quale soltanto è possibile cogliere la forma attuale, ma celata, di questo sistema di uso profittevole del lavoro, inconsapevolmente destinato, lui, all’immiserimento progressivo. Per forma è da intendere la sostanza, l’organizzazione, l’edificio interno ed esterno entro il quale prende vita e si racchiude di necessità ogni relazione sociale, nelle sue modalità altrimenti inconoscibili perché queste non evidenziano la natura, le cause reali del loro apparire, come fossero sufficienti a sé stesse, senza rinvio ad altro che non sia l’essere così come sembrano. Comprendere la concretezza dei rapporti sociali, delle cose e delle parole è possibile allora solo conoscendo in quale forma storica e logica essi si presentano e vengono usati. Ad esempio il lavoro salariato è la forma specifica in cui bisogna comprendere cosa sia il lavoro in questo sistema capitalistico, in cui si presenta libero e separato dai mezzi di produzione. L’accesso al salario è qui finalizzato alla produzione di un valore (tempo di lavoro erogato) eccedente (che non viene pagato) il necessario (pagato) per vivere. Il salario insomma non ripaga tutto il lavoro contrattato ma solo una parte e questa viene continuamente ristretta, compressa. Il lavoratore oggi incarna una forma di proprietà privata nel senso che questa lo esclude, lo priva del prodotto del suo lavoro come della maggior parte della ricchezza sociale appropriata da una minoranza di espropriatori.

All’esame del disegno del PD si evidenzia immediatamente, nelle finalità della proposta, l’ambiguo obiettivo di fornire al lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente….”, richiamando l’art. 36 della Costituzione.

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sinistra

Contro le ideologie del monopolio e contro il neopositivismo

Problemi e alternative della critica marxista in Italia (1955-1960)

di Eros Barone

conoscenza7Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza, perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà.

Bertolt Brecht, La linea di condotta.

1. Analisi della risoluzione Contro le ideologie del monopolio

Il documento in parola 1 costituisce senza dubbio una tappa essenziale della politica culturale del PCI durante gli anni Cinquanta del secolo scorso. Lo sforzo di aggiornamento e di affinamento degli strumenti di analisi e di elaborazione teorica, mutuati dal ‘laboratorio’ dello storicismo gramsciano, si colloca su un terreno largamente ignoto alla tradizione retorico-umanistica che per diversi anni, durante il periodo post-Liberazione, aveva condizionato gli stessi intellettuali comunisti; sul terreno, cioè, di una serrata critica delle ideologie tecnocratiche, aziendaliste e interclassiste sorte nel quadro della espansione dei monopoli e delle innovazioni organizzative introdotte nei moderni processi produttivi, particolarmente in alcuni grandi complessi industriali del Nord-Italia.

La parola d’ordine che illuminava le finalità politico-culturali della risoluzione riprendeva l’appello alla storica lotta “tra progresso e reazione” nella cultura moderna e riecheggiava gli anni delle battaglie per la laicità dell’istruzione e della cultura contro l’invadenza clericale e l’offensiva oscurantista scatenata dalla DC e dalla Chiesa di Pio XII dopo il 1948, nel periodo della restaurazione capitalistica. La parola d’ordine era infatti: “Per l’ulteriore sviluppo di una cultura libera, moderna e nazionale alla luce dell’umanesimo e dello storicismo marxista”.

Nel primo dei quattro paragrafi in cui si articolava il documento veniva tracciato in termini di severa autocritica un bilancio dell’azione del partito e degli intellettuali comunisti sul classico “terzo fronte”. Questa azione si era venuta svolgendo, nel quadro di una ricerca strategica in quel settore specifico delle alleanze politiche rappresentato dalle alleanze culturali, attraverso lo sforzo di promuovere una “cultura libera, moderna e nazionale”, sforzo parallelo alla lotta per l’affermazione del marxismo.

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ragionipolitiche

Pensiero forte in tempi minacciosi

di Carlo Galli

ph 233Per chi appartiene alla mia generazione ha l’effetto di una madeleine reincontrare Marcuse filosofo politico. Questi testi inediti o poco conosciuti risvegliano nella memoria le antiche emozioni intellettuali, le antiche ingenuità e gli antichi ambivalenti ideali. Per parafrasare quanto fu detto di Heidegger da Löwith, nel leggere Marcuse era incerto se ci si dovesse dedicare a tempo pieno allo studio della Fenomenologia dello Spirito o insorgere contro il dominio filisteo e repressivo del ‘sistema’. O forse entrambe le cose, poiché in fondo si trattava, nella testa dei giovani che siamo stati – e dello stesso Marcuse –, della medesima cosa.

La potenza della filosofia classica tedesca, che qui risuona, sta proprio in questa confusione (o fusione) fra vita e sapere, fra politica e gesto conoscitivo, fra analisi e passione intellettuale, fra rigore scientifico ed emozione. È difficile che chi non ne ha fatto esperienza – o chi a ciò sia sordo – possa comprendere e consentire alla potenza del pensiero; come è difficile che ancora oggi parte della gioventù vi si possa sottrarre, anche se oggi il veicolo dell’innamoramento filosofico-politico può non essere Marcuse ma qualche altro pensatore più di moda.

Ma la lettura di Marcuse non attinge l’unico risultato di farci ripensare con rimpianto a un’età di giovanili entusiasmi – che hanno dovuto essere disciplinati per altre vie, e messi alla prova di altre strutture di pensiero –; c’è, in queste pagine, persistente, una sfida, connaturata alla forma della sua espressione filosofica. Una sfida che è ancora e sempre la nostra sfida: decifrare la politica attraverso la filosofia, e così intervenire in quella, per criticare le sue strutture reali e i suoi saperi specialistici – le scienze economiche e sociali in primo luogo – con quello «spirito di contraddizione reso sistema» che è il sapere filosofico. Una contraddizione che non vuol essere ignoranza ma superiore sapienza; e che consiste nello storicizzare i saperi della politica (in entrambi i sensi del genitivo), nell’attraversarli per mobilitarli, nel mostrarne la riconducibilità a un orizzonte epocale determinato e quindi all’esigenza del suo superamento.