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contropiano2

La parola allo Zio Ho a proposito di “Patriottismo e Internazionalismo”

di Michele Franco

ff6b93 612237f0a88b4f23aef60ba9f1a3a086Negli ultimi mesi la discussione sul concetto di “sovranità” è stata egemonizzata da concezioni teoriche e culturali reazionarie. Spesso qualsiasi allusione a questo tipo di categoria è stata bollata come una concessione al nazionalismo borghese o a presunte derive da “piccole patrie”.

Costantemente, specie da parte degli epigoni della “sinistra” tale ragionamento viene catalogato come una variante del leghismo e associato all’altro grande ossimoro di questa bizzarra stagione politica: il sovranismo.

Eppure il marxismo, particolarmente nei punti alti dell’esperienza del movimento comunista internazionale, ha sempre affrontato e trattato la “questione nazionale” non disdegnando – sulla base del fondamentale metodo “analisi concreta della situazione concreta” – di misurarsi, senza complessi di inferiorità teorica o di subordinazione politica, con lo stesso concetto di “patria”.

Questo cimento politico/pratico è avvenuto non solo nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dal vecchio ordine colonialista e/o imperialista, nei paesi del Sud del mondo, ma si è concretamente palesato anche nelle battaglie politiche che i comunisti hanno affrontato, a vario titolo, nel cuore dell’Occidente capitalista durante il Novecento.

Da tale punto di vista le resistenze antifasciste durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale (quella Jugoslava e Greca in primis, ma – per molti aspetti – anche quella Italiana) sono state paradigmatiche di come i comunisti declinarono il tema della “patria” nei vari contesti in cui agivano. Probabilmente, al giorno d’oggi, si può discutere e problematizzare gli esiti avveratisi, ma non possiamo non riconoscere la positiva e matura attitudine che i partiti comunisti riuscirono a mettere in campo quando furono chiamati ad intervenire dentro giganteschi sommovimenti sociali e politici.

Ma relegare al Novecento questa battaglia teorica e politica sarebbe una omissione storica ed un grave errore politico nei confronti dell’attuale corso generale della crisi capitalistica.

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sinistra

L’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista

di Eros Barone

258px Kirchner Berlin Street Scene 19131. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra

La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci1 presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.

Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’?

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tempofertile

Onofrio Romano, “La libertà verticale”

di Alessandro Visalli

Onofrio RomanoOnofrio Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo impegnativo libro nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione dell’occidente.

Lo scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].

Al termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” che abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.

Per arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la “critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte, riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda Partericostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la soluzione, ovvero la “libertà verticale”.

La Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”, “welfarismo”, “neo-liberismo”).

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senso comune

L’anatra-coniglio della nazione "a sinistra"

di Diego Melegari

cittadinanza 1024x683Nell’ancora minoritario mondo di quanti oggi tentano di intrecciare la riflessione sulla questione nazionale a politiche dalla parte delle classi popolari si assiste spesso ad un problema di focalizzazione non troppo diverso da quello segnalato dall’articolo di Matteo Masi sulla dialettica tra piano A e piano B relativamente alla questione euro [1] . Da un lato, abbiamo posizioni, come quella di Eurostop, in cui si pone correttamente il tema dell’irriformabilità dell’UE e, più recentemente, il riconoscimento del quadro nazionale come spazio di accumulo delle contraddizioni in vista della creazione di un’area euromediterranea[2], inibendosi però di definire il tipo di investimento soggettivo, “affettivo” direbbe Laclau, rispetto a questo stesso spazio. Dall’altro, ci sono posizioni come quelle espresse, ad esempio, da un recente articolo di Jacopo Custodi [3], ma anche da alcuni scimiottamenti della narrazione del primo Podemos (“patriottica” ma sostanzialmente ambigua sulla questione UE), in cui, nel comprensibile sforzo in termini emancipativi, inclusivi e aperti al conflitto, la questione della sovranità, si evita accuratamente di esprimersi sul problema dell’interesse nazionale, ovvero sullo Stato come ente giuridico distinto da altri (dunque delimitato da confini), in qualche modo indipendente dall’identificazione soggettiva con esso. “Patriottismo” diventa, allora, il contenitore per qualunque comportamento si ritenga moralmente e socialmente positivo. Un po’ come nella figura gestaltica dell’anatra-coniglio, chi vede la “patria” come orizzonte e riferimento di una politica di “sinistra” tende a non cogliere la cruda realtà degli interessi e dei rapporti di forza economici, istituzionali e geopolitici, chi pensa che anche in questi ultimi possa aprirsi un margine di contraddizione e, dunque, un suo utilizzo per una politica alternativa, magari socialista, fatica a costruire un discorso in cui sia possibile risignificare e rivendicare la propria appartenenza nazionale, il proprio “essere italiani”. Esiste, infine, chi, vedendo solo la figura nel suo complesso o soffermandosi su tratti particolari di essa, concepisce come mera illusione ottica quella di chi vi riconosce la forma dell’uno o dell’altro animale.

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tempofertile

Mario Tronti, “Il popolo perduto”

di Alessandro Visalli

tronti il popolo perdutoLibro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità, riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica, di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico ed inaggirabile.

Capiterà di essere più facilmente in accordo con la seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza europeo-occidentale.

Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto, dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].

Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato (riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche in particolare).

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palermograd

L'ecomarxismo di James O'Connor*

di Riccardo Bellofiore​

Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo

greenmarxL'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.

L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.

La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i "nuovi movimenti sociali", e perciò anche il femminismo) puntano l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.

Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.

La prima mossa è costituita da un ritorno alle rigorose definizioni di base del Capitale , che tengono esplicitamente conto delle "condizioni di produzione" tanto "esterne" (natura in senso stretto) quanto "personali" (la forza-lavoro come elemento materiale e naturale essa stessa).

La seconda mossa consiste in una traduzione della teoria della crisi economica del marxismo - si tratta qui in particolare della crisi da realizzo - in una teoria della crisi ecologica: la distruzione della natura dà luogo ad un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni di produzione, quindi ad un uso improduttivo del capitale, che è costretto ad utilizzare una parte crescente del plusvalore per sanare le ferite che esso stesso procura all'ambiente invece di farne capitale addizionale.

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petiteplaisance

L’interpassività e il regno animale dello spirito

di Salvatore Bravo

Salvatore bravo legge Slavoj Žižek. Di fronte allo scollamento tra "Reale" e "realtà" occorre un pensiero che divenga esodo dal pensiero unico. All’interpassività che rafforza la gettatezza nel mondo bisogna agire nel silenzio del pensiero che diviene esodo dal pensiero unico e moltiplicatore delle resistenze

TREDICI VOLTE LENIN. PER SOVVERTIRE IL FALLIMENTO DEL PRESENTEL’interazione passiva

La prassi[1] in Aristotele è l’interazione sociale in cui il soggetto, gradualmente, vive l’esperienza della verità nella comunità, parte imprescindibile di sé. Essa si coniuga con il deliberare, con la saggezza:[2] prassi e phrònesis sono vita activa, poiché il fine di entrambe è comunitario oltre che individuale. La buona prassi, come il giusto deliberare, sono inscindibili dal vivere comunitario. La vita attiva è l’interazione tra saggezza e prassi. Il mezzo con cui – per riprodurre se stesso – l’attuale modo di produzione inibisce la prassi ed il giusto deliberare è l’interpassività. I soggetti sono in perenne attività, ma quest’ultima, in realtà, spinge verso la ripetizione di gesti automatici, la religione del vitello d’oro resta velata, occulta nei gesti meccanici la riflessione consapevole delle conseguenze dei propri atti, ogni accadimento è un evento che “sic ed simpliciter” avviene. Tutto accade, e nel contempo il modo di produzione, riproduce se stesso, il vitello d’oro, la merce ed il plusvalore attraverso i fedeli sudditi, sempre agiti, perennemente situati, i quali si percepiscono come “razza padrona”, ma in realtà sono interni ad un paradigma che impedisce il discernimento. L’essere è solo “esse=capi”, è attività del depredare; l’ontologia del saccheggio è l’unico paradigma del capitalismo assoluto. Gli enti che non sono ghermibili sono tagliati dall’orizzonte esperienziale: ogni ente non catalogabile come potenziale mezzo per il plusvalore è escluso, espulso dalla rappresentazione, la quale si autorappresenta solo ciò che è calcolabile. Non vi è spazio nell’osservazione che per l’ente da arpionare per eventuale investimento. L’homo oeconomicus non ha immaginazione empatica, pertanto il suo mondo è solo un borsino immobiliare. L’azione di conquista e consumo è l’unica attività che eternamente ritorna su se stessa per riprodursi infinitamente.

Con l’interpassività si ha l’impressione di agire, di modificare il mondo, ma in realtà si conferma il sistema capitale. Il vitello d’oro, dopo il superamento della convertibilità delle monete in oro, si è liquefatto, ha perso con la forma ogni limite, è ovunque, pervade e feconda ogni spazio e tempo con le sue leggi inevitabili e fatali. Dietro l’attività conclamata vi è la passività, l’alienazione (Entfremdung), cifra vivente della religione del vitello d’oro e della mortificazione:

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tempofertile

Carlo Formenti, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!”

di Alessandro Visalli

sediaPremessa

Il libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” è stato pubblicato in questo 2019 e segue altri due notevoli libri dell’autore, tutti pubblicati a tre anni di distanza, “Utopie letali. Il capitalismo senza democrazia”, del 2013, e “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo”, del 2016 (che abbiamo letto qui). I tre testi individuano, insieme alle esplorazioni precedenti[1], molto attente alle evoluzioni della sfera pubblica e delle tecnologie che vi impattano, una vasta ricostruzione, ancora in corso sulle trasformazioni del socialismo in questo avvio di millennio.

Se il socialismo novecentesco è davvero morto le sinistre attuali ne sono il becchino che cerca di guadagnarci ancora qualcosa. Ma se è morto occorre andare verso ciò che nasce, ciò che ‘deve’ nascere: ancora viva il socialismo!

Il libro cercherà di sviluppare questo difficilissimo programma concentrandosi, per così dire, sulla ‘transizione’. Ovvero, per dir meglio, sulle condizioni nella quali può essere avviata una ‘transizione alla transizione’.

Per compiere questa paradossale operazione occorre, secondo Formenti, come prima cosa capire in che modo le sinistre sono diventate il becchino del socialismo morto, lasciandolo marcire. Per farlo ripercorre le tesi (dodici) dei due precedenti libri.

Come seconda cosa, necessaria per assumere il dovere di far nascere il nuovo, c’è bisogno di rapportarsi al ‘momento populista’ in modo creativo, aggregando un “blocco sociale” con quel che c’è, intorno a rivendicazioni anche diverse, purché incompatibili con il sistema capitalistico nell’attuale forma neoliberale. L’idea è di partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali capace di riforme radicali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista, rafforzando le forze che possono incarnarlo. Una simile strategia, nella prima fase prevedibile, dovrà quindi assumere carattere nazional-popolare e neo-giocobino con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del socialismo) di reale partecipazione al processo decisionale e di redistribuzione del reddito.

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azioni parallele

Gramsci e i gruppi subalterni

di Lelio Laporta

Gramsci 1922Nel Quaderno 251 (1934) Gramsci propone alcuni criteri di metodo con cui procedere nell’analisi della storia delle classi subalterne caratterizzata dal formarsi dei gruppi subalterni, dalla loro iniziale difficoltà a liberarsi dalla tutela di altri gruppi preesistenti, dallo sforzo di imporre delle svolte in senso progressivo alle politiche dei gruppi dominanti, dalla creazione di formazioni specifiche dei gruppi subalterni al fine di costruire una posizione autonoma rispetto a quella precedentemente, seppure in parte, condivisa dagli stessi gruppi subalterni con altri gruppi. Quindi, va storicamente analizzata ed individuata, continua Gramsci, la linea di sviluppo storico nel corso della quale si sia manifestato lo spirito di scissione, cioè

«il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica» (Q3, 49, 333), ossia il processo necessario allo sviluppo delle «forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti», dotate di «autonomia integrale» e unificate in uno Stato (Q25, 5, 2288)2.

Spetta allo storico il compito di rintracciare anche la minima iniziativa autonoma dei gruppi subalterni per ricomporre il quadro generale di una storia degli stessi gruppi subalterni;

da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere (Q25, 2, 2284).

 

Labriola e fra Dolcino

L’applicazione della premessa metodologica che Gramsci indica nel Q25 è individuabile nei corsi universitari che Antonio Labriola tenne, tra il 1896-97 e il 1899-1900, su Fra Dolcino3. Negli appunti preparatori dei corsi Labriola, infatti, procede a partire dalla fissazione di necessari punti di riferimento storici senza i quali non sarebbe comprensibile la vicenda di Fra Dolcino:

Il punto capitale è la formazione dei comuni, ossia la loro autonomia, e poi l’inizio delle libertà civiliossia la preformazione della borghesia e la liberazione della campagna dalla servitù personale dalla gleba e dal fitto perpetuo; l’assimilazione giuridica della terra al libero contrattante e quindi il fitto a tempo (di cui la mezzadria non è che una sottospecie), il predominio della città su la campagna, e l’impossibilità che si formasse un ceto di contadini piccoli proprietarii. Questo fatto primordiale ha deciso di tutta la sorte ulteriore della fisionomia sociale dell’Italia dove una classe di contadini (Germania, Norvegia) non c’è mai stata e viceversa non c’è stata che in modo minimo quella lotta che ha dato luogo alla guerra dei contadini4.

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sinistra

Giustizia

di Salvatore Bravo

giustizia shutterstock 220284814La scomparsa delle parole

Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci, i tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica, il fondamento, la casa della politica come della comunità parafrasando Heidegger, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme, il riferimento è alla perenna scenetta tragicomica Di Maio-Salvini. In realtà non si tratta di casi politici, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni politiche segnate dai processo liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio, al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario per anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.

La parola della politica, della comunità di cui nessuno osa proferire parola, è la parola giustizia. La filosofia politica dell’occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci, si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia.

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paginauno

Fra Stato e Mercato. L'ossimoro cinese

di Giovanna Baer

cina criptovaluta di statoFondata nel 1949 come Paese socialista, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato in seguito, a partire dalle riforme economiche del 1978, un approccio ‘capitalista’ sui generis, che l’ha trasformata nella seconda economia mondiale e che le permetterà con ogni probabilità di strappare la leadership agli Stati Uniti entro la fine del secolo. Qualunque mutamento della politica economica cinese ha ormai implicazioni globali. Il progetto denominato “Made in China 2025”, un ambizioso programma elaborato e gestito da Pechino per trasformare la Cina nel principale leader tecnologico mondiale, costituisce di fatto non solo una sfida globale per le economie di mercato, ma soprattutto il primo tentativo di esportazione del sistema economico cinese. Da qui le tensioni fra la Cina e il suo partner commerciale più importante, ma anche il suo principale concorrente: gli Stati Uniti d’America.

L’ultima volta che due sistemi economici incompatibili e in competizione fra loro si sono fronteggiati – erano i tempi della guerra fredda – ogni lato ha eretto dei muri. Ma, oltre alla vendita occasionale di alcuni articoli di consumo (è il caso della Pepsi in Russia), c’erano pochissimi scambi o investimenti tra le nazioni basate sul libero mercato e le nazioni comuniste. Al contrario, l’adesione della Cina alla WTO (World Trade Organization, Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 2001 è stata caldamente sostenuta dagli Stati capitalisti, nella speranza che l’appartenenza a un’organizzazione con regole comuni e condivise di matrice occidentale conducesse Pechino a compiere i passi necessari affinché la Repubblica Popolare diventasse una vera e propria economia di mercato. Secondo l’allora presidente della WTO, Supachai Panitchpakdi, la richiesta testimoniava “la volontà della Cina di giocare secondo le regole del commercio internazionale e di portare il suo apparato governativo spesso opaco e ingombrante in armonia con un ordine mondiale che richiede chiarezza ed equità”. Ciò non è accaduto, e fra gli impegni cinesi in seno alla WTO e le sue effettive pratiche commerciali ed economiche il divario è rimasto eclatante (1), con il risultato che in un’economia globale profondamente integrata, oggi coesistono – per ora pacificamente – due sistemi molto diversi.

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Democrazia sostanziale e formale

di Pierluigi Fagan

Questo post sarebbe riservato ad un dialogo di approfondimento con due miei contatti ( Vincenzo CucinottaGabriele Pastrello col quale mi scuso per il carattere minuscolo) ma poiché contiene opinioni di valore più generale, da commento diventa post. Se non siete interessati alla teorizzazione politica, evitatelo è molto lungo e molto palloso

images619In una precedente discussione, ci si imbatteva nella differenza tra formale e sostanziale a proposito della democrazia, ma la distinzione non era chiara, vedrò quindi di chiarirla. Innanzitutto per intenderci reciprocamente, debbo ancorare il punto di vista di partenza o quantomeno chiarirlo. Chi scrive aderisce ad una ideologia democratica. L’ideologia democratica sembra molto popolare ma c’è un profondo disguido sulla questione, non è probabilmente quella che pensate di conoscere voi.

Ideologia democratica ha ben poca teorizzazione di base. Compare inizialmente nelle Storie di Erodoto, se ne dà qualche specifica in Politica di Aristotele, se ne dà versione critica negativa nella Costituzione degli Ateniesi (versione c.d. Anonimo Oligarca o Pseudo Senofonte), viene sistematicamente massacrata da Platone, teorico massimo di ogni forma piramidale gerarchica, dalla metafisica in giù. Scompare dai radar della teoria politica lungo tutto il periodo romano e medioevale. Nel primo moderno ci sarebbero i diggers ed i levellers della Guerra Civile inglese di metà XVII secolo ma non scrivevano le loro idee. Per altro vennero tutti fisicamente massacrati da Cromwell delle cui truppe facevano parte. Ricompare sostanzialmente con J.J.Rousseau, seguito da qualche fazione dei moti pre e durante la Rivoluzione francese (giacobini-montagnardi, socialisti detti da Marx “utopisti”, anarchici della Comune del 1871). Ha qualche ripresa più recente ma non possiamo qui entrare nel merito.

Nel periodo moderno sostanzialmente scompare, sostituita da una forma giustificata teoricamente da B. Constant nel 1819 che titola: “La libertà degli antichi comparata alla libertà dei moderni”, corroborato poi da J. Stuart Mill (liberale, inglese). Constant era un liberale franco-svizzero e la sua comparazione muove dai principi teorici di Rousseau, dicendo però che -ovviamente- negli stati moderni composti da milioni di persone, non si poteva certo fare la “democrazia diretta” tipo Atene o Ginevra, bisognava passare a quella rappresentativa entro ovviamente lo stato moderno liberale à la Montesquieu con tripartizione dei poteri etc. etc. Constant chiama “libertà” la democrazia, facendo il verso a Rousseau che ironizzava sulla forma rappresentativa liberale che presupponeva di dare libertà di partecipazione al processo politico ai cittadini, “una volta ogni quattro anni” (riferendosi a gli inglesi).

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sollevazione2

Per una critica del populismo

di Mauro Pasquinelli

Non sono poche le occasioni in cui SOLLEVAZIONE ha ospitato riflessioni sulla questione del "populismo". Anni addietro, non solo noi, promuovemmo sul tema convegni di studio. Una categoria politica, quella del "populismo", polisemica e insidiosa quant'altre mai. Il terremoto elettorale del 4 marzo 2018, l'avvento al potere di due formazioni considerate populiste, il fatto dunque che l'Italia diventa il principale laboratorio politico europeo, obbliga a tornare sul punto ed a riaprire la discussione. Iniziamo con questo contributo. Inutile ricordare che pubblicare un contributo non significa che la redazione lo condivida. Il dibattito proseguirà

populismoPopulismi senza popolo, popoli senza socialismo

Ai tempi di Marx l’opposizione destra-sinistra non esisteva ma si presentava nelle vesti di alternativa tra Monarchia o Repubblica democratico-borghese. Non diverso era ai tempi di Lenin, dove destra significava fascismo, bonapartismo, reazione, militarismo e sinistra socialdemocrazia, democrazia, riformismo, pacifismo. Mai, tuttavia, abbiamo visto dirigenti o teorici del socialismo, tranne quelli di matrice riformista, posizionarsi nel secondo campo delle opzioni della classe dominante. Dal terzo campo rivoluzionario, si poteva al massimo fornire un appoggio tattico al secondo campo per porre un argine o battere l’ipotesi del primo, quella più autoritaria.

Al dualismo storico destra sinistra nel campo delle opzioni borghesi, che data dall’affare Dreyfus (1894) oggi si aggiunge, o forse si sostituisce, quello tra popolo ed élite, per la precisione tra populismo e globalismo, sovranismo e cosmopolitismo.

Cercherò di dimostrare perché il populismo non è un alternativa vera al cosmopolitismo, come la sinistra non lo è mai stata alla destra.

Queste riflessioni vogliono essere un invito alla discussione sul tema del populismo all’interno dellasinistra patriottica, per una ridefinizione del suo posizionamento tattico e strategico, che tutt’ora, ahimè, staziona all’interno del secondo campo populista, presidiato in Occidente da forze politiche per lo più xenofobe e rozzo-brune.

Lancio subito una provocazione concettuale che sarà più chiara dopo aver letto questo breve saggio, e che a me serve per renderlo più appetitoso: il populismo agisce in nome del popolo. Il socialista agisce per il popolo e con il popolo. Questione di preposizioni? No questioni di sostanza e lo vedremo alla fine.

“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi” scriveva Marx in esergo al proclama di fondazione della Prima internazionale. Ed aveva ragione: il socialismo è la prima forma sociale, nella storia dell’umanità che per essere realizzata richiede il protagonismo e la partecipazione attiva e permanente della comunità degli uomini.

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paroleecose2

Democracy and its crises. Le lezioni berlinesi di Charles Taylor

di Paolo Costa

[Dal 17 al 19 giugno 2019 Charles Taylor ha tenuto a Berlino la prima edizione delle Benjamin Lectures, istituite dallo Humanities and Social Change Center, diretto da Rahel Jaeggi. Tema delle tre lezioni era la crisi delle democrazie contemporanee. Negli stessi giorni, sempre nella capitale tedesca, l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato una settimana di eventi entro la cornice del progetto DediKa per celebrare Giorgio Agamben]

charles taylor ueber demokratie engl bild 100 1280x720Ho l’impressione, a volte, che non si rifletta a sufficienza sul peso che il culto delle celebrities ha anche nella ricerca scientifica – e sulla stranezza di tutto ciò.

Lo scambio tra celebrità e sapere è noto e reciprocamente vantaggioso. La celebrity intellettuale porta in dotazione un condensato di reputazione che non è più oggetto di discussione e tale reputazione cristallizzata gratifica di luce riflessa anche l’istituzione che riesce a reclutarla. La celebrity, a sua volta, se non ha scrupoli, può massimizzare l’Effetto San Matteo di cui gode per default e ricevere in cambio denaro, opportunità e, last but not least, vagonate di adulazione. Questo caso da manuale di ingiustizia epistemica ribadisce una delle leggi più affidabili della socialità umana: the rich are bound to get richer and the poor to get poorer: that’s the way it is.

Soprattutto per istituzioni che faticano oggi a legittimarsi, come i centri di ricerca umanistici, la notorietà – un indicatore incontestabile del fatidico “impact factor” – è spesso l’unico surrogato plausibile dell’utilità percepita, ovvero delle remuneratività.

Ma vi siete mai messi nei panni di una celebrity? Si direbbe un esperimento mentale interessante. Se la reputazione scientifica è meritata, questa dovrebbe andare di pari passo con l’umiltà. Il detto socratico “so di non sapere”, non è infatti un tributo alle buone maniere o, peggio ancora, un gesto di falsa modestia. È il riconoscimento prudente della sproporzione tra l’estensione e la profondità delle grandi questioni filosofiche che stanno sullo sfondo di qualsiasi indagine scientifica e la portata reale delle capacità della mente umana, o meglio delle episodiche performance cognitive di una persona in carne e ossa.

Ora, immaginate che un nuovo Centro di ricerca, con sede in una prestigiosa capitale europea, vi inviti a tenere un ciclo di lezioni pubbliche su una questione cruciale della contemporaneità – ad esempio, la crisi della democrazia – voi come vi disporrete psicologicamente all’evento?

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costituzionalismo

I limiti del Cosmopolitismo

La sovranità nazionale nel conflitto tra democrazia e capitalismo

di Alessandro Somma

Il cosmopolitismo mira a promuovere la pace e dunque a rappresentare un argine al ripetersi dei conflitti che hanno caratterizzato il secolo breve. L’esperienza ha mostrato come il superamento della sovranità nazionale abbia alimentato lo sviluppo di un ordine economico neoliberale, in quanto tale minaccioso per la giustizia sociale e in ultima analisi per la pace. Di qui la necessità di un recupero della dimensione nazionale non certo per affermare identità escludenti, bensì per ripristinare un accettabile equilibrio tra democrazia e capitalismo

Chenier 622e1. Sovranità nazionale, pace ed emancipazione sociale

Il cosmopolitismo inteso come teoria e pratica relativa alla dissoluzione della sovranità nazionale, pur potendo vantare radici affondate in un tempo lontano1, assume la valenza attuale in tempi relativamente recenti: quando si combina con quanto Norberto Bobbio chiamava pacifismo attivo, ovvero con il riconoscimento che la pace non costituisce «un’evoluzione fatale della società umana», bensì «il risultato dello sforzo intelligente e organizzato dell’uomo diretto allo scopo voluto»2. È invero per effetto delle due guerre mondiali che matura la convinzione che lo Stato nazionale rappresenta un ostacolo insormontabile al perseguimento di quello scopo, e anzi costituisce un catalizzatore di insanabili conflitti. Il tutto nell’ambito di riflessioni in cui il cosmopolitismo, che pure è concetto ambiguo e poliedrico3, assume spesso e volentieri le vesti del federalismo europeo, la cui traiettoria intellettuale intreccia continuamente le tematiche pacifiste.

Certo, in ambito cosmopolita si riconosce che lo Stato nazionale era nato per liberare i popoli e che da questo punto di vista, almeno per un certo periodo, si è effettivamente rivelato essere «un potente lievito di progresso». Si aggiunge però che lo Stato ha ben presto cessato di essere strumento per la realizzazione di fini per divenire fine a se stesso, assumendo addirittura i connotati di «un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo». Di qui la tendenza invincibile a provocare conflitti bellici e a vivere la pace unicamente come momento preparatorio di quei conflitti, tendenza stigmatizzata con particolare veemenza nel celeberrimo Manifesto di Ventotene:

«Lo Stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica.