- Details
- Hits: 4184
I moti del '98 fra rivolta del proletariato e colpo di stato della borghesia
di Eros Barone
“A questo mondo si rassegna solo chi non ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la filosofia di chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere sconfitto nella lotta, a dormire sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza fra gli altri vantaggi che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e l’avesse sofferta in compagnia dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere davanti a sé sempre la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la filosofia della rassegnazione non sarebbe fatta per Lei….”.
Lettera di Gaetano Salvemini all’amico Carlo Placci del 15 giugno 1898.
-
Le premesse
“Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Il ’98 rappresenta, non solo a Milano ma in tutta Italia, il culmine di una crisi sociale e politica che per profondità, durata ed estensione ha indotto gli storici a qualificare tale periodo, riferendosi ai conflitti di classe e alle repressioni statuali degli anni ’90, attuate con il continuo ricorso allo “stato di assedio” e quindi all’intervento militare, come ‘decennio di sangue’. Quei conflitti avevano trovato la loro espressione, durante il biennio 1893-1894, nel movimento popolare dei Fasci siciliani, che alla protesta contro il fiscalismo e il dominio del latifondo univa la rivendicazione di terre da coltivare, e nel tentativo insurrezionale anarchico in Lunigiana.
- Details
- Hits: 2033
Uno Stato che non era un moloch
di Roberto Salerno
Qualche giorno fa, Franco Calamida – che proprio nei giorni del sequestro Moro fu tra i fondatori di Democrazia Proletaria – ha ricordato come il terrorismo sia stato “il nostro peggior nemico”. Dopo il massacro dei cinque uomini della scorta, “l’omicidio del leader democristiano, l’atto irreversibile della sua morte trasformava l’oppressore – l’uomo del potere – in vittima e, al contrario, chi si affermava come vendicatore… diventava a sua volta oppressore”, scrisse all’epoca Ninetta Zandegiacomi (su Unità Proletaria, giugno-luglio 1978). A partire dai ragionamenti “alti” di Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, fino all’ultimo improvvisato “dietrologo” fuori tempo massimo, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro non si è mai smesso di parlare, lungo questi 40 anni che ci separano dal tragico epilogo di via Caetani. In questo intervento Roberto Salerno fa giustizia dei tanti mediocri complottismi, proponendo invece una riflessione sul ruolo transitorio e il fragile potere di chi temporaneamente ha “in mano le redini” delle strutture statali [PalermoGrad].
* * * *
La mattina del 9 maggio del 1978 a due passi da Via delle Botteghe Oscure e a qualcuno di più da Piazza del Gesù venne ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il presidente (dimissionario) della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, il 16 marzo, da un gruppo formato da almeno dieci persone.
Per quanto queste due affermazioni possano sembrare – e siano – asettiche, persino su queste alcuni hanno avanzato dei dubbi e ci sono poche certezze. Per esempio sull’orario del ritrovamento ci sono varie incongruenze.
- Details
- Hits: 2467
Ma esiste veramente un futuro a sinistra?
di Riccardo Achilli
Sono reduce dall’Assemblea annuale del Network per il Socialismo Europeo, il cui titolo, significativo, consisteva in un domanda: “C’è futuro per la sinistra in Italia?” Devo dire che, alle volte, le risposte più significative ai grandi quesiti derivano da impressioni e sensazioni, più che da complessi ragionamenti. E’ nel corpo vivo della militanza della politica che si colgono i segnali di consapevolezza della situazione e della capacità di riscossa, dopo le sconfitte storiche. Da questo punto di vista, la sensazione è quella di un mondo piuttosto cristallizzato su schemi tradizionali e speranze fideistiche. Nel suo intervento, Giovanni Paglia rimanda ad un imprecisato lungo periodo la speranza incrollabile di una rinascita della sinistra, poiché le contraddizioni del neo-capitalismo produrrebbero inevitabilmente, prima o poi, una nuova forza di sinistra. Si tratta evidentemente di un cascame di cultura politica otto-novecentesca, che positivisticamente attribuisce alla dinamica storica un avanzamento in senso progressivo, scaturente dalle contraddizioni intrinseche della struttura.
Quello che è evidente, invece, è che a protrarsi nel tempo, ed a rafforzarsi nelle fasi di ristrutturazione in senso regressivo del sistema, sono le istanze sottostanti le ragioni storiche della sinistra: la giustizia sociale, l’eguaglianza formale e sostanziale, la liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione dal modo di produzione. Ma non è affatto detto che tali istanza saranno, in futuro, rappresentate da una sinistra politica autonoma. Non è una disquisizione teorica.
- Details
- Hits: 2537
Che cos’è il lavoro oggi
di Nicole Siri
Works di Vitaliano Trevisan e Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi, rispettivamente 2016 e 2017) sono due mémoires che, apparentemente, condividono intento e impianto architettonico: raccontare una formazione di scrittore attraverso il resoconto cronologico dei lavori svolti. Addentrandosi in queste due costruzioni, però, ci si accorge subito che l’atmosfera che si respira è profondamente diversa: le due opere a confronto testimoniano, anzitutto, della faglia storica che le separa.
Vitaliano Trevisan è nato nel 1960, Giorgio Falco nel 1967. I due autori condividono, grossomodo, la classe sociale di provenienza, le prime esperienze lavorative (un lavoro estivo in fabbrica durante gli studi superiori), l’altezza cronologica dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro — poco dopo l’esame di maturità, dopo una breve parentesi universitaria che si conclude per entrambi con l’abbandono degli studi.
Gli anni che li separano, però, sono anni cruciali. Trevisan inizia a lavorare a tempo pieno nel dicembre del 1979, Giorgio Falco (cercando di ricostruire la cronologia: i riferimenti temporali espliciti sono meno frequenti nel suo romanzo) all’incirca nel 1988: sono gli anni in cui il lavoro inizia a smaterializzarsi, si compie il passaggio dal capitalismo novecentesco al capitalismo flessibile di impronta sempre più marcatamente neoliberista, inizia a prendere forma il precariato cognitivo.
- Details
- Hits: 2684
Nella situazione, più che mai
di Anselm Jappe
Guy Debord ha detto spesso che, più di ogni altra cosa, egli si considerava come uno «stratega». E, in effetti, l'interesse che continua a suscitare, più di cinquant'anni dopo la pubblicazione della sua opera principale, La Società dello Spettacolo, ha molto a che fare con la sua capacità di ottenere con uno sforzo minimo quello che si proponeva. In questo modo, è riuscito a vincere la sua scommessa contro lo «spettacolo» senza apparire sulla scena, ed in modo che lo giudicassero indispensabile tutti gli altri nemici giurati dell'ordine esistente: Debord non si è mai esibito in pubblico, non ha mai concesso alcuna intervista, non ha mai scritto sulla stampa, ha comunicato unicamente attraverso i mezzi che egli stesso aveva scelto (la rivista Internazionale Situazionista, i suoi libri, i suoi film, promossi da produttori ed editori amici). In breve, era inaccessibile.
Tutto questo ha contribuito al mito che era riuscito a creare intorno a sé stesso. Fino al suo suicidio nel 1994, ha saputo difendere la sua «cattiva reputazione» (il titolo del suo ultimo libro, del 1993) di sovversivo infrequentabile. È stato un caso pressoché unico. Tuttavia, subito dopo la sua morte, ha avuto inizio una diffusione del suo pensiero che ha sfiorato perfino la "panteificazione", e che ha fatto di lui un «grande autore francese», in generale a spese del contenuto sovversivo della sua vita e della sua opera.
- Details
- Hits: 3336
Da Schaüble a Schulz a Scholz: cosa si sta preparando in Europa?
di Sergio Cesaratto
Traccia dell'intervento all'incontro C'è un futuro per la sinistra?, VI assemblea nazionale del Network per il Socialismo Europeo, Fiuggi, 5-6 marzo 2, (non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
La risposta al quesito che mi ponete è incoraggiante: per ora non si sta preparando nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona cosa. Ma non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo non sia già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da festeggiare.
Non è neppure facile districare i termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).
L’eurozona nasce male, non si fa una moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è un’area valutaria ottimale, anche questo è common knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
- Details
- Hits: 4787
Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli*
Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
- Details
- Hits: 2680
Quel che resta del giorno
di Alfonso Gianni
La debacle elettorale della sinistra richiede un’analisi di fondo delle sue cause. Queste non risiedono solo negli ultimi mesi, ma hanno radici lontane. Affondano nella incapacità di fronteggiare in tutti i suoi aspetti l’offensiva neoliberista che ha cambiato il mondo. E ha cambiato l’antropologia e il modo di pensare. L’individualismo competitivo è penetrato nel profondo. La risposta non può essere solo sulla difensiva o puntiforme, ma deve avanzare un’idea di società e di modelli di vita alternativi. La sinistra radicale non ha saputo contrastare la sfida populista. E’ passata da una elezione all’altra non solo perdendo voti, ma cambiando ogni volta la loro composizione. Dimostrando una incapacità a trasformarli in partecipazione attiva e costante. Nello stesso tempo gli insediamenti sociali, quand’anche ci sono, non garantiscono nei tempi brevi i ritorni di voto attesi. Del resto il voto stesso cambia di senso nella postdemocrazia del maggioritario. Eppure le nuove figure del precariato creato dal capitalismo delle piattaforme indicano un campo di iniziativa da cui ripartire.
* * * *
Le elezioni del nostro scontento si sono inevitabilmente trasformate in quelle del nostro sconforto. Tale è lo stato d’animo generale – salvo qualche euforia di facciata del tutto fuor di luogo – che affligge la sinistra nel nostro paese. Ciò che ne resta, se resta. Una sinistra che non ha saputo acchiappare al volo una occasione probabilmente storica, certamente non da poco, rappresentata dalla sconfitta verticale del Pd. Una perdita di consensi e di credibilità, che la stessa sinistra - in questo caso anche quella interna al Pd che avrebbe poi dato vita alla scissione di Articolo1- Movimento Democratico e Progressista (Mdp) - aveva contribuito in maniera assolutamente determinante a fare maturare con l’esito del voto referendario del 4 dicembre del 2016.
- Details
- Hits: 2849
Intervista vera al vero Karl Marx (anno 1871)
di R. Landor
Landor, corrispondente del World, intervista Marx a Londra il 3 luglio 1871. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, cui Marx aveva partecipato, era stata soffocata nel sangue. www.internazionale.it
Londra, 3 luglio 1871. Mi avete chiesto di raccogliere informazioni sull’Associazione Internazionale e io ho cercato di farlo. Attualmente, si tratta di un’ardua impresa. Londra è indiscutibilmente il quartier generale dell’Associazione, ma gli inglesi sono spaventati e sentono odor d’Internazionale dappertutto, come re Giacomo sentiva odor di polvere da sparo dopo la famosa congiura. Naturalmente, il livello di consapevolezza dei membri dell’Associazione è aumentato con la sospettosità del pubblico e se gli uomini che la dirigono hanno un segreto da custodire, il loro stampo è tale da custodirlo bene. Ho fatto visita a due dei suoi esponenti più in vista; con uno di essi ho parlato liberamente e qui di seguito riferisco il succo della nostra conversazione. Mi sono personalmente accertato di una cosa, e cioè che si tratta di un’associazione di veri lavoratori, ma che questi lavoratori sono guidati da teorici politici e sociali appartenenti a un’altra classe. Uno degli uomini che ho visto, fra i massimi dirigenti del Consiglio, si è fatto intervistare seduto al suo banco da lavoro, e a tratti smetteva di parlare con me per ascoltare le lamentele espresse in tono tutt’altro che cortese da uno dei tanti padroncini del quartiere che gli davano da lavorare. Ho sentito quello stesso uomo pronunciare in pubblico discorsi eloquenti, animati in ogni loro passo dalla forza dell’odio verso le classi che si autodefiniscono governanti. Ho capito quei discorsi dopo aver assistito a uno squarcio della vita domestica dell’oratore. Egli deve essere consapevole di possedere abbastanza cervello da organizzare un governo funzionante ma di essere costretto a dedicare la sua vita alla più estenuante routine di un lavoro puramente meccanico. Pur essendo un uomo orgoglioso e sensibile, era continuamente costretto a rispondere a un grugnito con un inchino, e con un sorriso a un ordine che sulla scala dell’urbanità si collocava più o meno allo stesso livello del richiamo che il cacciatore lancia al suo cane.
- Details
- Hits: 1781
Palestina: armi proibite, giri della morte (e cronache sportive)
di Fulvio Grimaldi
“il manifesto”: ma che belle cronache!
Qualcuno potrà dirmi che me la prendo sempre con il giornale che si sfregia del vezzeggiativo “quotidiano comunista”. Che tanto è inutile, che è come prendere a cannonate un cagnetto di compagnia (quello di Soros e Hillary), che comunque quei quattro lettori, sopravvissuti al disvelamento ormai scontatissimo della sua missione di megafono delle buone ragioni imperialiste, non li schiodi neanche se gli dimostri che Chiara Cruciati è sposata con un boss curdo di Kobane e passa le ferie tra l’Isis del Sinai, o che Norma Rangeri, Laura Boldrini, Asia Argento, Emma Bonino succhiano sangue di bambini maschi dopo mezzanotte.
Tutto vero, ma tant’è. La smetterò, ma non stavolta. Stavolta, intendo il numero del 5 maggio del “manifesto”, ne ha fatto una più raggelante del solito. Come del sistematico sostegno alle buone ragioni dell’occupazione Usa-Nato dell’Afghanistan, della trasformazione di un regime change amerikano in rivoluzione democratica (ultima quella in Armenia del mercenario Cia Pashinyan), della santificazione di curdi venduti a Usa, Israele e Sauditi, della balla Regeni, della bufala Russiagate, dello sfegatato sostegno alla killer Hillary come ai nani di giardino LeU, dell’avallo a ogni False Flag che passi per la mente a Mossad, Cia, MI6 e altre conventicole della buona morte di massa, della vilificazione in dittatori di chiunque vada col suo popolo in direzione ostinata e contraria all’Uccidente, dello scudo finto buonista e vero malista con cui copre i facilitatori Ong, in mare e in terra, della spoliazione del Sud del mondo…
- Details
- Hits: 2550
Patologie del lavoro
di Rahel Jaeggi
Il saggio[1] si propone di considerare ciò che io definisco «patologie del lavoro» nel contesto di una ricostruzione storico-normativa del significato di lavoro quale cooperazione sociale. Coll’adottare questo approccio analitico, io mi propongo due scopi. Considerare da un lato gli sviluppi sociali aberranti del lavoro, al fine di chiarire, attraverso l’analisi di fenomeni negativi, il contenuto positivo del termine e del senso del lavoro nelle società moderne. Dall’altro riunire, sotto un unico tema, una serie di problemi diversi. Tali problemi comprendono l’esistenza permanente di sfruttamento e alienazione, la precarietà del lavoro, la disoccupazione strutturale a lungo termine, la minaccia posta alle condizioni di lavoro contemporanee da quella che si potrebbe chiamare la sottrazione di dignità (the «de-dignifying») al lavoro (per invertire una espressione usata da Robert Castel).
Il titolo di questo mio saggio, Patologie del lavoro, intende appunto indicare e stabilire una connessione tra questi diversi problemi, concependoli come diverse tipologie di deficit all’interno di una forma (mediata-dal-lavoro) di cooperazione sociale. Prendendo a prestito una frase di Hegel, possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società. Il termine risorse è qui usato per indicare ciò che una determinata società ha raggiunto, e che sarà capace ulteriormente di sviluppare, in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro consente cioè ad ognuno di condividere le risorse della società, non semplicemente nel senso di essere un mezzo per acquisire ricchezza o entrare nella sfera delle relazioni intersoggettive, ma anche perchè consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know-how di una società.
- Details
- Hits: 2270
Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey
di John Smith
Quando David Harvey afferma “Lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”, i suoi lettori supporranno ragionevolmente che egli si riferisca ad un tratto caratteristico dell’imperialismo, vale a dire il saccheggio del lavoro vivo, nonché delle ricchezze naturali, nelle colonie e semicolonie da parte delle potenze capitaliste in ascesa in Nord America ed Europa. In effetti, egli non lascia dubbi in merito, dato che fa precedere a queste parole il riferimento alle “vecchie categorie dell’imperialismo”. Ma qui incontriamo il primo di tanti offuscamenti. Per oltre due secoli, l’Europa ed il Nord America imperialisti hanno drenato anche ricchezze dall’America Latina e dall’Africa, così come da tutte le parti dell’Asia… eccetto il Giappone, il quale a sua volta è emerso come potenza imperialista durante il XIX secolo. “Oriente-Occidente”, dunque, costituisce un sostituto imperfetto per “Nord-Sud”, ed è per questo che ho osato adeguare i punti della bussola di Harvey, attirandomi una risposta petulante.
Come David Harvey ben sa, tutte le parti coinvolte nel dibattito su imperialismo, modernizzazione e sviluppo capitalistico riconoscono una divisione primaria tra paesi definiti, variamente, come “sviluppati e in via di sviluppo”, “imperialisti e oppressi”, “del centro e della periferia”, ecc., persino laddove non vi è accordo su come tale divisione si stia evolvendo. Inoltre, i criteri per determinare l’appartenenza a questi gruppi di paesi possono validamente includere politica, economia, storia, cultura e molto altro, ma non la collocazione geografica – “Nord-Sud” non essendo altro che una scorciatoia descrittiva per altri criteri, come indicato dal fatto, generalmente riconosciuto, che il “Nord” comprende Australia e Nuova Zelanda.
- Details
- Hits: 4709
Marx, finalmente
Francesco Raparelli intervista Paolo Virno
Festeggiamo i duecento anni di Marx con uno speciale che raccoglie materiali inediti e stralci della nuova edizione de “Il Manifesto comunista” (per i titoli di Ponte alle Grazie, a cura del collettivo C17). Come ci ha insegnato Machiavelli, d’altronde, nella crisi permanente l’unico modo per rinnovarsi è il “ritorno ai principi”, o, per dirla con Lenin: “ripetere l’origine”. Cominciamo con un’intervista a Paolo Virno che chiarisce l’attualità del rivoluzionario tedesco e del suo pensiero
«È giunta l’ora della piena leggibilità di Marx». Paolo Virno, tra i più originali filosofi materialisti del nostro tempo, usa Walter Benjamin per affermare l’attualità del Moro di Treviri. A duecento anni esatti dalla sua nascita, si torna a parlare di Marx, del Manifesto scritto con Engels per conto della Lega dei comunisti, della sua insuperabile diagnosi del capitalismo. La sua critica dell’economia politica ha costituito, come noto, il riferimento teorico decisivo del movimento operaio e delle sue lotte, inondando il Novecento quasi tutto a partire dalla rivoluzione del 1917. Marx – e questo lo racconta bene anche il film di Raoul Peck (Il giovane Marx) – fu innanzi tutto filosofo. Materialista. Del rapporto tra Marx e la filosofia si sono occupati a più riprese i marxisti eterodossi degli anni Venti, Lukács e Korsch tra tutti. Poi Marcuse e i francofortesi, insistendo sulla scoperta dei Manoscritti del 1844. Quindi, nell’immediato dopo guerra, Sartre e Merleau-Ponty in Francia; Della Volpe in Italia. Negli anni Sessanta, si è imposta la «cesura» strutturalista di Althusser e dei suoi allievi, mentre in Italia Marx è diventato un’arma teorica e politica decisiva per l’operaismo e le lotte autonome dell’operaio «massa» prima, di quello «sociale» a seguire (nei tardi Settanta). E oggi? Cosa ne è di Marx nel mondo dominato dalle multinazionali e dalla finanza? Cosa, quando il capitalismo comanda e sfrutta la forza-lavoro tramite gli algoritmi? «Proprio nella nostra epoca», chiarisce Virno, «Marx è finalmente leggibile oltre il marxismo».
* * * *
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e il modo di produzione capitalistico non ha smesso di dominare il mondo. Semmai, dopo il Novecento e con la crisi dell’ultimo decennio, il capitalismo ha rafforzato ovunque il suo potere. Ma molte sono state la trasformazioni, imposte dalle lotte come dalle discontinuità tecnologiche. Nella scena della Gig Economy e della finanza, il pensiero di Marx è ancora attuale?
- Details
- Hits: 2611
Il mondo deve cambiare
Storia e rivoluzione in Eric J. Hobsbawm
di Gabriele Vissio
Il lavoro storiografico di Eric J. Hobsbawm rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per lo storico dell’età contemporanea e, più in generale, per chiunque sia interessato a comprendere le grandi trasformazioni della contemporaneità tra Otto e Novecento. Se è vero che le sue opere appaiono ormai datate, la sua periodizzazione dell’età contemporanea, suddivisa in un Lungo Ottocento e in un ‘breve’ Novecento,2 mantiene un indiscutibile fascino e costituisce, nonostante tutto, uno straordinario affresco della storia degli ultimi due secoli.
Proprio a partire da questa periodizzazione possiamo rilevare l’importanza che Hobsbawm attribuisce agli eventi rivoluzionari, che segnano e organizzano l’intero movimento della storia contemporanea. È la duplice rivoluzione industriale e politica che segna l’inizio dell’Ottocento borghese; è la rivoluzione del 1848, con il proprio fallimento, a marcare l’inizio del trionfo della borghesia che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo, e che darà forma a quel sistema-mondo imperiale che condurrà alla Guerra del 1914 e alla rivoluzione del 1917, dando così avvio al nuovo secolo. E in particolare il Novecento sarà il «secolo delle rivoluzioni», non solo perché le donne e gli uomini di quel periodo assistettero al maggior numero di eventi rivoluzionari di quanto non fosse mai accaduto prima, ma anche perché la storia del Secolo breve coincide di fatto con la storia dell’Unione Sovietica, lo stato nato dalla rivoluzione.
Sarebbe riduttivo credere che la rivoluzione costituisca per Hobsbawm l’elemento chiave nella periodizzazione della storia contemporanea solo in ragione di una comodità storiografica o di una fortuita coincidenza di date.
- Details
- Hits: 1958
L’economia della guerra
di Ascanio Bernardeschi
Il presente è una rielaborazione per Marx 21 di due articoli distinti usciti rispettivamente il 21 e il 28 aprile
Fine della Storia?
Sul Fatto Quotidiano di domenica 22 Aprile, Furio Colombo, che immagino permanentemente tormentato da due aste di bandiera conficcate nel cervello, quella americana e quella israeliana, si domanda come sia possibile “fare a meno dell’America” e, preoccupatissimo per le acrobazie politiche senza rete di Trump, teme che “il Paese [con la maiuscola] che fino a un momento fa era stato capofila dell’avanguardia” di praticamente tutto lo scibile e tutti i diritti si chiuda in sé stesso e non regali più a noi poveri sudditi il bene prezioso della sua democrazia, la cui esportazione nel mercato mondiale è sostenuta da un elevata capacità competitiva non proprio esattamente sul terreno economico.
Poi conclude: “forse Trump, con tutti coloro che lo stanno imitando, sta rappresentando la profezia di Fukuyama: la Storia [ancora con la maiuscola] si è fermata”. Sì, quella fine della storia di Fukuyama che andava bene e veniva acriticamente richiamata quando serviva a diagnosticare il venir meno dell’antagonismo di classe e dei movimenti antimperialisti dopo l’ ‘89, è ora temuta non perché il modo stia fermo, piuttosto perché, a differenza di quello che pare al Nostro, si sta muovendo troppo, anche se non nella direzione da lui auspicata. E difatti sta ponendo fine all’egemonia americana e affermando un nuovo multipolarismo.
Stiamo attraversando – e, contrariamente a quello che ci raccontano i giornalisti embedded, ci siamo ancora dentro – una delle crisi più catastrofiche del capitalismo. Dopo ogni crisi niente rimane come prima, e le formazioni economico-sociali subiscono dei cambiamenti, talvolta in positivo e talvolta in negativo.
- Details
- Hits: 2201
Siria-Palestina: Curdi in soccorso a Jack lo Squartatore
di Fulvio Grimaldi
Sincronismi e sintonie
L’angolazione a cui dovrebbe interessare particolarmente guardare non è solo la natura delle azioni condotte dalle potenze uccidentali, dai loro protagonisti e dai gruppi di potere che li sostengono. Non è neanche in prima istanza il giudizio da dare sulla classe politica italiana, sulle forze economiche che ne determinano il comportamento e sui media che ne sostengono la linea. E’ la sostanziale omologazione che unisce e confonde tutti questi soggetti. Basta un minimo di maieutica per estrarre dal sincronismo con cui operano, da Renzi o Orlando a Di Maio attraverso Bersani, Fratoianni, sociali avvizziti in basso a sinistra, da Repubblica e l’Espresso a il manifesto o il Fatto Quotidiano, da Mattarella a Bergoglio, da Confindustria ai sindacati, la constatazione di una sintonia strategica. Quella della visione del mondo atlantico-israeliana: i buoni in questa metà dell’emisfero Nord, tutti i cattivi concentrati nell’altra metà e, disseminata in tutto l’emisfero Sud, una mescolanza di brutti, sporchi, cattivi da abbattere, e poveracci disperati da soccorrere a proprio merito e profitto.
Chi tra i nostri gazzettieri fa caso a quanti venerdì di morte all’orlo del Lager Gaza sono trascorsi dal primo, con i relativi eccidi di innocenti inermi, a dispetto delle cifre agghiaccianti (andiamo verso la cinquantina di morti e ai 5000 feriti? Vedi qui e qui).
Gaza o Homs come Derry? Altri tempi
Il 30 gennaio del 1972 ero a Derry e vidi 14 giovani e vecchi falciati dai parà della Regina senza che ci fosse stata, tra 20mila famiglie manifestanti per elementari diritti civili, sociali, nazionali, un’ombra delle provocazioni poi attribuite da Londra e media a fantasmatici “terroristi dell’IRA”.
- Details
- Hits: 2483
Da Marx al “gramscismo”
di Tommaso Baris
Angelo D'Orsi, già autore di alcuni importanti studi su Antonio Gramsci, ci offre in questo nuovo volume una biografia esaustiva sull'importante pensatore politico sardo. Il suo obiettivo, dichiarato nella prefazione, era quello di “rivolgersi non soltanto ai “gramsciologi” ma a un pubblico più largo, sia pure dialogando sempre, fra le righe, con gli specialisti” (p. 10). Si tratta perciò di raccontare Gramsci non solo e non tanto agli studiosi quanto ad una platea più vasta di lettori comuni, senza però perdere una dimensione scientifica della ricostruzione storica.
La sensazione è che tale scelta nasca per D'Orsi, direttamente o indirettamente, dalla necessità di affrontare la diffusa ed incerta filologicamente “gramsciologia” oggi esistente. Le vicende gramsciane, politiche e personali, sono diventate infatti una sorta di tema ricorrente nell'attuale mercato editoriale e culturale italiano, con continue “scoperte” e “rivelazioni” basate su supposizioni e congetture spesso prive di riscontri documentari.
In questo quadro D'Orsi si inserisce con un lavoro che vuole essere al contempo rigoroso ma anche capace di offrire in maniera sintetica e godibile le più recenti acuisizioni, sia biografiche che interpretative. Il riferimento esplicito è da questo punto di vista la vecchia biografia di Giuseppe Fiori, quella del 1966, al fine però di produrre un lavoro che sappia coniugare, come quella, la dimensione personale con quella politica, costruendo però una narrazione biografica rinnovata “alla luce di nuove acquisizioni documentali, nuovi studi, nuove visioni dei problemi e ovviamente”, come scrive l'autore, con un punto di vista “non riducibile a nessuna “ortodossia” (p. 10).
- Details
- Hits: 2815
La nuova guerra civile europea
di Sandro Moiso
Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.
2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.
Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.
- Details
- Hits: 2026
La critica dell’economia politica è l’essenza del marxismo
di Alfonso Gianni
Duecento anni fa, il 5 maggio del 1818, nasceva Karl Marx. In questi due secoli la sua opera è stata studiata, amata, odiata, interpretata, travisata. Dopo Marx sono nati i marxisti e i marxismi. Non sempre coerenti con il pensatore di Treviri che diceva di sé di non essere marxista, non tanto per il piacere della battuta, quanto per sottolineare il suo approccio profondamente antidogmatico allo studio della realtà. Alla sua opera si sono ispirate molte delle rivoluzioni del ventesimo secolo. Con esiti non sempre, anzi quasi mai, soddisfacenti. A dimostrazione che pensare di applicare ciò che Marx ha detto e scritto è già un travisamento che può portare anche a conseguenze disastrose.
Eppure la diffusione su scala planetaria del suo pensiero, attraverso le opere scritte, molte delle quali assieme a Friedrich Engels, ha raggiunto livelli da record. La sua opera maggiore, cioè il Capitale ha avuto una diffusione straordinaria, anche se è stato meno letto di quanto sia stato distribuito o venduto, probabilmente per la lunghezza e la indubbia complessità che lo contraddistingue. Non è un caso che un libro di questi anni, anch’esso assai complesso e che ha avuto un sorprendente successo mondiale, richiami nel titolo e nel testo il tema dell’analisi del capitale contemporaneo. Mi riferisco ovviamente a Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty. Se il primato dell’opera comunista più diffusa della storia appartiene indubbiamente al famoso “libretto rosso” delle citazioni di Mao Tse-tung (che contende il primato della diffusione al Corano e alla Bibbia ) il Manifesto del partito comunista, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels esattamente 170 anni fa può vantare anch’esso record da best seller, niente affatto sminuiti dal passare del tempo.
- Details
- Hits: 2098
Teleologie senza Spirito?
Sui deficit politici della filosofia della storia di Honneth
di Marco Solinas*
Riagganciare direttamente la dimensione morale alle dinamiche delle lotte sociali, e viceversa, superando così l’economicismo imperante in larga parte della tradizione filosofico-politica di orientamento socialista, per poi spingersi verso l’adozione di una prospettiva immanentista sempre più radicale nella quale la normatività viene interamente ricostruita dalla dinamica del progresso storico: sono questi alcuni dei tratti di fondo che caratterizzano lo sviluppo del progetto teorico complessivo di Axel Honneth, dalla sua nascita a oggi. Un progetto il cui cuore pulsante è rappresentato dalla attualizzazione della concezione etica della lotta per il riconoscimento di Hegel, interpretata quale motore morale delle lotte sociali, e quindi del progresso storico.
Il baricentro della nuova teoria critica è stato così rispostato su un asse neo-hegeliano. Se infatti già Habermas aveva ripreso la teoria del riconoscimento del giovane Hegel per conferire un fondamento intersoggettivista alla sua reinterpretazione dell’imperativo categorico in chiave di agire comunicativo, l’immanentismo di Honneth punta a bypassare completamente quel costruttivismo kantiano volto a fondare la moralità su procedure formali. Riprendendo la concezione hegeliana della Sittlichkeit quale dimensione che ingloba, superandola, la Moralität, Honneth ritiene infatti di poter dedurre, o meglio ricostruire in modo immanente i criteri per valutare la correttezza e legittimità della dimensione normativa dallo sviluppo storico. La normatività viene così ri-ancorata o meglio calata direttamente e interamente nel flusso del divenire storico. Non si tratta, quindi, di limitarsi all’invero già ambizioso obiettivo di ricostruire la dimensione morale che anima dall’interno la nascita e lo sviluppo delle lotte sociali riconducibili al framework del riconoscimento, superando il quadro economicista fondato sulla categoria di interesse, come Honneth si sforzava di mostrare in Lotta per il riconoscimento, con un andamento per diversi aspetti affine a quello gramsciano[1].
- Details
- Hits: 4483
Ma il suo lavoro è vivo
Intervista su Marx a Riccardo Bellofiore
Il prossimo 5 maggio ricorrono i duecento anni dalla nascita di Karl Marx. PalermoGrad li celebra pubblicando questo testo, sotto forma di intervista, di Riccardo Bellofiore, che ringraziamo vivamente
Questa intervista che ora pubblica PalermoGrad ha una breve storia che va raccontata per comprenderne la genesi. Alla fine degli anni Novanta la RAI intendeva preparare un ciclo di trasmissioni sulle grandi figure del pensiero economico. Cristina Marcuzzo sfruttava le occasioni convegnistiche per poter intervistare vari economisti, italiani e stranieri. Le interviste duravano poco meno di un’ora, se ricordo bene. Venni così intervistato a Firenze su Marx. Non avevano ancora deciso come costruire effettivamente il programma. La scelta finale, a mio parere felice, fu di mettere da parte le interviste. La trasmissione che andò in onda si chiamò infine La fabbrica degli spilli: un titolo evidentemente smithiano. Ad essere interrogato era il solo Alessandro Roncaglia che stava allora ultimando il suo La ricchezza delle idee per Laterza: lo interrogavano due giornalisti che si alternavano. Uno dei due, ricordo, era Roberto Tesi: più noto come Galapagos, del manifesto. In ogni trasmissione si aprivano due medaglioni con un breve estratto dalle interviste. Nella trasmissione su Marx i medaglioni erano costituiti da Ernesto Screpanti e dal sottoscritto: infelicemente, il lavaggio di capelli la mattina in albergo mi fece apparire con una capigliatura da fare invidia ad Angelo Branduardi o alla primissima Nicole Kidman. Ovviamente, mi preparai. Avevo delle scalette, ma dietro le scalette stavano delle domande (in numero di 10) che avevo buttato giù, corredate di risposte. C’era un ordine imposto dalla produzione, che però col loro consenso sovvertii. La prima domanda doveva essere sulla biografia, e così fu. La seconda sul metodo, e così non fu: sono fermamente convinto che il metodo dipenda dal contenuto dell’oggetto che si indaga, quindi collocai quella domanda verso la fine.
- Details
- Hits: 1876
Il Grande Studio
di Pierluigi Fagan
Abbiamo una missione, siamo chiamati a plasmare la Terra.
Novalis
Nella Prefazione del mio recente libro[1], scrivevo “Tale grande studio era orientato ad un punto di fuga, il concetto di complessità”. Per un errore nel processo di revisione delle bozze, quel “grande studio” è venuto fuori minuscolo, invece doveva essere maiuscolo. Messo così, in effetti, è abbastanza ridicolo, uno studioso non può certo dire che il suo studio è “grande”. Doveva esser maiuscolo perché si riferiva al Dà Xué (大学, Grande studio), titolo di uno dei quattro libri attribuiti a Confucio[2] . Come recita la breve bio dell’autore di questo spazio di riflessione, quindici anni fa mi sono ritirato a “confuciana vita di studio” ed il Dà Xué è considerato appunto il dao (la Via) della conoscenza dell’antico Maestro cinese, coevo di Solone e Talete, del Buddha storico e delle Upanishad, della probabile compiuta redazione dei canoni dell’Antico Testamento in quel di Babilonia, quella irripetibile stagione che il tedesco Karl Jaspers chiamò “Età assiale”[3].
Quindici anni fa infatti smisi di lavorare e mi immersi nello studio. In effetti all’inizio mi misi semplicemente a leggere con agio ma, capitando proprio su i Dialoghi di Confucio (Kong zi), presi a studiarli leggendo altro di lui, molto su di lui, sul suo periodo storico, la cultura della Cina antica, il seguito del suo pensiero detto “confucianesimo”[4] un canone tutt’altro che unitario il cui corso arriva sino alla Cina contemporanea e che ha una riconducibilità relativa al Maestro storico.
- Details
- Hits: 1866
Al di là del lavoro, la vera vita
di WIlly Gianinazzi
Pubblichiamo qui la bella introduzione di Willy Gianinazzi al libro da lui curato “Il filo rosso dell’Ecologia”, uscito per i tipi di Mimesis nel settembre 2017, con traduzione del nostro Riccardo Frola, e dedicato al pensiero di André Gorz. L’edizione italiana riprende, integrandola, quella francese, “Le fil rouge de l’écologie. Entretiens inédits en français”, uscita sempre a cura di Willy Gianinazzi per le Editions de l’Ehess, Paris 2015. Ci sono alcuni inediti di Gorz e un’importante intervista con lo studioso austriaco Erich Hörl. I temi dibattuti nel libro sono tuttora al centro del dibattito più interessante che ha di mira il superamento del capitalismo e della forma merce. Soluzioni come “reddito di cittadinanza” o di “esistenza”, oppure che si ispirino al modello “software libero” o della decrescita, meritano, crediamo, tutta la nostra attenzione. Crediamo però anche che la “critica del valore”, in particolar modo grazie alla riflessione di Robert Kurz ma non solo, abbia saputo già chiarire molti aspetti di queste proposte e messo in condizioni di non doverci incamminare, provando a percorrerle o soltanto verificandone la consistenza, verso false vie d’uscita [Redazione].
* * * *
La prima opera di André Gorz, Il traditore (1958),1 è un romanzo autobiografico, incensato da Jean-Paul Sartre. L’ultima opera pubblicata da vivo, quella che ha fatto conoscere Gorz al grande pubblico, Lettera a D. (2006),2 è un commovente e autocritico racconto della sua vita amorosa; è l’opera che ha preceduto di poco il suicidio del suo autore, avvenuto nella notte del 22 settembre del 2007, all’età di ottantaquattro anni, insieme alla compagna.
- Details
- Hits: 2381
Le uniche consultazioni che contano: la Banca Mondiale detta la linea
di coniarerivolta
È proprio vero quello che si dice: in questo mondo non si possono mai dormire sonni tranquilli. Sono trascorsi due mesi dalle elezioni, ancora nessun Governo è all’orizzonte, i principali partiti italiani traccheggiano in trattative (presunte o tali) inutili e, cosa che non ci sorprende, sembrano non avere troppo tempo per partorire nuove ed originali misure antipopolari, riforme lacrime e sangue e simili. Potrebbe, tuttavia, trattarsi semplicemente di un periodo di relativa calma prima della tempesta.
All’orizzonte, infatti, nubi oscure si addensano, rappresentate dai “suggerimenti” che le istituzioni internazionali si prodigano a dispensare. Raccomandazioni di questo genere sono state di recente proposte dal Fondo Monetario Internazionale: un condensato di tagli alla spesa pubblica e riduzioni delle pensioni, compressioni dei salari e misure fiscali a favore dei ricchi. È adesso il turno della Banca Mondiale. In questo post cercheremo di spiegare quali misure abbiano in mente gli economisti che lavorano in questa organizzazione internazionale e quale distorta visione del mondo sia sottintesa a tali misure.
La Banca Mondiale è un’istituzione che ha come principale scopo (in teoria) quello di fornire assistenza ai paesi in via di sviluppo, aiutarli a modernizzare e rendere più competitive le loro economie. Non disdegna, tuttavia, di suggerire riforme strutturali ed interventi di politica economica anche alle economie capitaliste mature.
- Details
- Hits: 3567
Il partito comunista: di massa o di quadri?
di Alexander Hobel*
Intervento al dibattito sui tre fronti della lotta di classe di Roma, del 21 aprile 2018
In primo luogo vorrei ringraziare i compagni e le compagne della Rete dei comunisti per questa occasione di dibattito. È sempre utile confrontarsi su questioni di carattere strategico, liberi da urgenze, scadenze immediate, impegni contingenti.
Il mio intervento seguirà un po’ schematicamente la griglia delle questioni poste dai compagni della Rdc al centro di questa discussione.
1. Partiamo dunque dall’attualità o meno dell’idea di partito comunista di massa. Preliminarmente penso che occorra precisare che cosa intendiamo con questa formula, distinguendo tra la forma storicamente determinata di partito comunista di massa che abbiamo conosciuto nel nostro paese (il P.c.i.) e una impostazione più generale: quella di un partito radicato tra le masse, nei territori e nei luoghi di lavoro, in grado di partire dai loro bisogni e interessi materiali, di andare cioè al di là della semplice propaganda per fare leva su questioni concrete, partendo da queste ultime per portare le masse stesse dal terreno economico-rivendicativo su un terreno più generale, quello della politica. È la lezione del Che fare? di Lenin, della frazione e poi del partito bolscevico, che poi informò le linee di sviluppo suggerite ai partiti comunisti già nei primi congressi della Terza Internazionale, e poi nella fase dei fronti popolari: l’esortazione costante a non ridursi a piccole sette in grado di fare solo della propaganda, l’ambizione di fare politica (e la politica, per Lenin, iniziava dove agivano “milioni di uomini”) e a diventare, attraverso un lungo lavoro egemonico tra le masse lavoratrici, maggioritari al loro interno; maggioritari, ossia bolscevichi. In questo senso, mi pare che tale impostazione sia ancora valida e che dobbiamo essere consapevoli della nostra attuale condizione minoritaria senza rassegnarci ad essa, ma lavorando per superarla.
Page 253 of 544