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Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza
di Salvatore Perri
La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
Reddito di base o Super-sussidio?
In primo luogo il reddito di cittadinanza proposto (RDC) non è un reddito di cittadinanza, la questione non è semantica[1]. Facendo riferimento al DDL proposto al Senato dal M5S è prevista la perdita del diritto a riceverlo nel caso non si accettino 3 proposte di lavoro “congrue” o si receda 2 volte da un lavoro. La possibilità di perderlo non lo configura come reddito incondizionato, bensì come un reddito erogabile a determinate condizioni economiche, all’accettazione delle proposte di lavoro a determinati percorsi formativi/lavorativi. Più precisamente, Tridico, infatti parla di Reddito Minimo Condizionato[2] (RMC). Di fatto questa proposta finisce per essere un’estensione del sussidio di disoccupazione aumentato fino a 780 euro mensili. Obiettivo dichiarato del provvedimento, “riattivare gli inattivi”[3], ovvero far partecipare al mercato del lavoro coloro che ne sono esclusi, sostenendo il loro reddito nel periodo transitorio.
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Si può uscire dall'euro: ecco come
di Leonardo Mazzei
Un formidabile saggio di Leonardo Mazzei. Una guida pratica che spiega, a chi abbia già capito i perché, i COME si possa e si debba uscire dalla gabbia della moneta unica e riconquistare sovranità monetaria. "Non sarà una passeggiata ma l'Italia ha tutto da guadagnare". Cinque , in risposta agli euroinomani ed ai seguaci di T.I.N.A., i temi sviscerati: 1) la svalutazione, 2) l'inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione del debito, 5) il presunto isolamento dell'Italia e le sue dimensioni ritenute troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria. Buona lettura.*
Quelli che... ormai è troppo tardi
Che l'euro sia un grave problema per l'economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell'eurozona per i presunti benefici di questa collocazione - moneta "forte", aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera - oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all'uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l'Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant'anni.
Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell'Unione, ed ancor più nell'eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell'euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E' avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l'Unione Europea è l'area dove la crisi ha picchiato più duro, dall'altro l'euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta unica ha innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al contrario, avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno di quelli considerati "periferici". Tra questi l'Italia.
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Profanazioni del potere
di Massimo Filippi
Nel saggio Elogio della profanazione, Agamben sostiene che la profanazione «disattiva i dispositivi di potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato». Uno degli spazi confiscati dal potere – forse lo spazio più importante da un punto di vista politico – è proprio quello del potere stesso. Da qui l’impegno profuso da molt* pensatori e pensatrici per erodere la sacralità del potere, per non pensarlo più come un’essenza che può essere detenuta o conquistata, ma come un rapporto di forze distribuito e in continua rimodulazione, a cui tutti, volenti o nolenti, partecipiamo. Il potere, insomma, non è qualcosa di separato dalla vita né si esercita su di questa esclusivamente secondo un vettore che va dall’alto al basso. Al contrario, esso si forma e va a formare insiemi di relazioni dinamiche senza le quali la vita semplicemente non esisterebbe. Il potere e la vita sono immanenti, tanto che chi continua a separare la vita dal potere compie, più o meno consapevolmente, un’operazione di spoliazione della vita, un’operazione che la rende nuda, ancor più disponibile alla presa di un potere che, spogliato della sua complessità, non può che (s)opprimerla.
Foucault rappresenta senza dubbio uno degli snodi principali in cui la profanazione del potere ha iniziato a consumarsi. E questo appare più evidente che mai nel recente Il potere. Corso su Michel Foucault (1985-1986) /2, volume che raccoglie la trascrizione delle 11 lezioni tenute da Deleuze tra gennaio e aprile 1986, nell’ambito di un corso – la cui prima parte è uscita in Italia nel 2014 e la cui terza e ultima deve ancora essere pubblicata – dedicato a una minuziosa e delicata analisi della riflessione dell’amico appena scomparso.
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Venezuela e post-democrazia autoritaria
Maduro è parte della soluzione, o del problema?
di Angelo Zaccaria
Con il consueto piacere, torniamo ad ospitare l’amico Angelo Zaccaria che ci aggiorna con puntualità e profondità sulla situazione in Venezuela. Buona lettura! [A.G]
Prima di affrontare gli ultimi sviluppi in Venezuela, all’indomani delle elezioni presidenziali del 20 Maggio, partiamo dal titolo. Assistiamo sempre di più nel mondo a situazioni di crisi di egemonia delle classi dominanti, che vengono risolte nel seguente modo: mantenendo un involucro istituzionale formalmente democratico, ma forzandolo verso un meccanismo di verticalizzazione e concentramento del potere nelle mani di governi strettamente legati ai poteri di sempre, economici, finanziari, militari, religiosi etc.
Gli strumenti concreti per realizzare questo son vari, e vengono diversamente dosati a seconda dei differenti contesti politici e geo-politici: invalidazione di candidati o interi partiti, rafforzamento degli esecutivi, sistemi elettorali maggioritari o truccati col fine di trasformare magicamente le minoranze di voti in maggioranze di seggi, riduzione della libertà di stampa e di espressione, la vecchia e cara repressione, utilizzo della leva giudiziaria e/o del conflitto fra diversi poteri dello stato per promuovere veri e propri colpi di stato di nuova generazione.
Quello che lega tutti questi processi, in un periodo di crisi e di cambiamento degli equilibri di potere globali, é la ferma intenzione di garantire la continuità nell’esercizio del potere, anche prescindendo dal consenso maggioritario delle popolazioni.
Ovviamente in Europa, culla della cosiddetta civiltà occidentale, queste cose vengono fatte con qualche relativo riguardo in più, ma neanche piu’ di tanto: basti guardare ai casi di Polonia, Ungheria, ma anche di Spagna ed Italia.
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Il nostro, giovane, Marx
di Salvatore Prinzi
Ha appena compiuto 200 anni, ma per qualcuno è ancora giovane. Di sicuro per Raoul Peck, il cui film su Il giovane Karl Marx al momento spicca, nel diluvio di articoli d’occasione e convegni accademici, come il miglior omaggio al filosofo e rivoluzionario tedesco. Dico “il migliore”, perché il film non solo permette di diffonderne la figura e l’opera, ma anche di farci appassionare, ritrovare un Marx più nostro, portarci a qualche riflessione di carattere generale, stimolarci ad agire. Mica poco, di questi tempi. Ma vediamo meglio.
L’idea e la realizzazione
Ammetto che la notizia di un film su Marx mi aveva fatto venire i brividi. Marx non è Guevara e manco Lenin, non spara e non arringa le folle da un autoblindo, difficile rendere da un punto di vista cinematografico i suoi concetti, l’avventura della sua vita, più legata a dispute intellettuali che a momenti epici. Due possibilità: o un polpettone a tesi, iperdidattico e noioso, o qualche trovata postmoderna per trasformarlo in qualcosa di commercialmente appetibile. D’altronde, mi dicevo, non è un caso che in cent’anni di storia del cinema non sia mai stato fatto un film su un soggetto così celebre: non funziona. Peck risolve abilmente il problema puntando sul giovane Marx, uno che in effetti in soli cinque anni cambia quattro paesi, scappa da altrettante polizie, incontra tutti i più folli rivoluzionari del tempo, passa dal benessere alla miseria, mette al mondo svariate figlie, fonda un “partito”… insomma, l’avventura non manca. E mentre si susseguono le scene la sorpresa semmai diventa: com’è che nessuno l’ha fatto prima, il film? Ecco, quando un autore fa sembrare naturale una cosa che sembrava impossibile, fa sembrare necessaria una cosa che mancava, vuol dire che l’operazione è riuscita.
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Frammenti: circa piccole polemiche sulle lettere di Marx (1870)
di Alessandro Visalli
Siamo nel 1870, quasi al punto culminante di quello che Engels, nella prefazione del 1892 a “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, chiama: “il poderoso sviluppo della produzione nel ventennio tra il 1850 ed il 1870, e con le impressionanti cifre dell’esportazione e dell’importazione, della ricchezza che si accumula nelle mani dei capitalisti e della forza-lavoro umana che si concentra in città gigantesche” (ivi, p.45). Mentre la forza-lavoro umana (termine tecnico che non indica le persone in quanto tali, con l’intera loro personalità e qualità, ma le persone reificate come contenitori di lavoro astratto, quantificabile e fatto merce scambiabile) si concentra nella macchina produttiva per eccellenza, le grandi città industriali (cfr, Lefebvre, 1968 e seg.), la classe operaia ottiene temporanei miglioramenti “anche per la grande massa” (Engels subito dopo distingue tra l’aristocrazia operaia e gli operai di base), ma “poi ogni miglioramento veniva continuamente ricondotto al vecchio livello per l’afflusso della gran massa di riserva dei disoccupati, per la incessante espulsione di operai da parte del nuovo macchinario e per la immigrazione dei lavoratori agricoli, anch’essi ora e sempre più soppiantati dalle macchine”.
Seguirà la crisi del 1876 e gli anni di “depressione soffocante”, con “una saturazione cronica di tutti i mercati per tutti gli affari”.
Ancora qualche cenno sulla situazione storica: intorno agli anni sessanta del 1800 in Inghilterra tre quarti dei 24 milioni di abitanti facevano parte di quella che Baxter chiama “la classe dei lavoratori manuali”. Di questi solo il 15% poteva essere considerata ben pagata e facente parte della “aristocrazia del lavoro” (con salari dal doppio a quattro volte quelli di base).
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Il mondo altro in movimento
di Marco Calabria
La prefazione di Marco Calabria all’edizione italiana dell’ultimo libro di Raúl Zibechi, giornalista e studioso uruguaiano: Il “mondo altro” in movimento. Movimenti sociali in America latina (traduzione di Francesca Caprini ed Enzo Vitalesta, Nova Delphi Libri, Roma 2018)
A tener fermo lo sguardo sul mondo, si rischia di perdere la velocità dei sogni. Bisogna saperlo muovere, lo sguardo, per comprendere quel che esprime chi rifiuta l’ordine delle cose esistente e per coltivare la speranza di poter cambiare. La speranza, forse oggi più che mai, è la vita che si difende, ma deve potersi alimentare di una confidenziale relazione con la realtà. Solo così riesce ad accendere il motore molecolare dei movimenti nelle società, a far sì che l’energia chimica delle idee si converta in forza sociale meccanica. Dobbiamo muoverci di continuo anche noi, naturalmente, dobbiamo affermare la libertà del movimento, per noi e per tutti, imparare o re-imparare a spostarci liberamente dal luogo fisico e simbolico che c’è stato assegnato. Se c’è un tratto che forse spicca più d’ogni altro, nel tenace lavoro di scavo che Raúl Zibechi fa da decenni nei percorsi più profondi di emancipazione dei movimenti popolari, è proprio la capacità di guardare le prospettive dinamiche, di mettere in discussione, giorno dopo giorno, quel che sembrava accertato a una prima lettura dei fatti, la capacità di re-imparare dalla realtà. Ne abbiamo avuto una testimonianza diretta, quanto illuminante, in occasione del suo secondo viaggio alla Realidad, compiuto a vent’anni di distanza dal primo: «Pensavo d’aver capito abbastanza cose sullo zapatismo e invece non avevo capito la parte essenziale».
Qualcosa di non molto diverso accade nella sezione più rilevante di questo nuovo lavoro sui movimenti dell’América Latina. Vale a dire nella meticolosa rilettura critica di un saggio breve che lo stesso Zibechi aveva scritto quindici anni prima sul ciclo di lotte emerso negli anni a cavallo del cambio di secolo.
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La fatwa di Giorgio Cremaschi
di Moreno Pasquinelli
Il 12 giugno scorso Contropiano ha pubblicato un pastrocchio di Giorgio Cremaschi dal violento titolo: Adesso basta con i cialtroni che usano Marx per benedire Salvini!
Il pastrocchio si conclude con una scomposta FATWA di vago sapore islamo-stalinista:
«Non è davvero più tempo di buonismo, davvero non si può più essere tolleranti con chi si dichiara comunista e poi lecca i piedi a Salvini. Giù le mani da Marx e andate all’inferno, finti compagni. Lì troverete Bombacci».
Chi sarebbero quelli che bolla come "cialtroni" e poi come "mascalzoni"? Nomi il Cremaschi non ne fa ma denuncia il peccato. Sentiamo:
«Mentre c’è chi aiuta i poveri non nel nome dell’accoglienza, ma della fraternità sociale che è necessaria a tutti. Mentre c’è chi lotta contro la schiavitù stando con gli schiavi, ci sono cialtroni che usano Marx per giustificare il loro e l’altrui razzismo. Usano qualche riga di qualche lettera astratta dal contesto, e spiegano che essere marxisti significherebbe combattere le migrazioni, perché offrono lavoro a basso costo che distrugge diritti e salari. Essi sono ignoranti e in malafede, Marx li avrebbe massacrati come reazionari, come chi sosteneva la “legge bronzea dei salari” o come chi difendeva gli stati confederati del sud, perché la liberazione degli schiavi avrebbe portato forza lavoro a basso costo nel Nord America.. Marx era per il rovesciamento del capitalismo, ma non certo per tornare al Medio Evo e in tutta la sua vita ha sempre combattuto le vandee, comunque esse si presentassero.
Ma la questione non è neanche l’uso sfacciato che questi fanno di Marx; il fatto che le loro fesserie siano riprese e sostenute da leghisti e fascisti che considerano il comunismo come il demonio, li squalifica a sufficienza».
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La trasformazione dello Stato dentro la transizione neoliberale
Il caso italiano
di Adriano Cozzolino
Tra la fine degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il patto sociale come configuratosi all’indomani della seconda guerra mondiale – basato su un sostanziale equilibrio nei rapporti tra le due principali forze sociali, il Lavoro e il Capitale – entra definitivamente in crisi. Il superamento della costituzione materiale del secondo dopoguerra segna il passaggio dal paradigma keynesiano – caratterizzato da politiche fiscali espansive, una forte dimensione pubblica dell’economia, la regolazione del sistema finanziario, tassazione progressiva e una tendenza espansiva dei diritti della classe lavoratrice e dei diritti sociali – all’ordine neoliberale.
Le cause della crisi del Keynesismo sono diverse e di diversa natura (Bellofiore, 2001). Crisi petrolifera e comparsa della stagflazione, crisi del meccanismo di accumulazione del capitale, crisi fiscale dello Stato (O’Connor, 1973), un’alta conflittualità sociale e la reazione politico-ideologica delle classi proprietarie sono alcuni tra i fattori che ci aiutano a comprendere i caratteri del mutamento. Il nuovo paradigma neoliberale, concepibile come risposta globale alla crisi della politica economica keynesiana, inaugura politiche che invertono il segno social-democratico delle decadi precedenti: liberalizzazione dei tassi di cambio e dei movimenti dei capitali finanziari, ridefinizione della tassazione in senso meno progressivo, deflazione salariale e, più in generale, ‘flessibilizzazione’ del lavoro, privatizzazione delle imprese pubbliche e ruolo centrale dei mercati e della cultura aziendalista (Saad-Filho, 2010). Inoltre, come mostrato da diversi autori (su tutti Thomas Piketty, 2014), è a partire da questo momento che le disuguaglianze nella distribuzione del reddito iniziano a crescere.
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Sull'ecologia del capitalismo
di Antithesis
«La crescita della produzione ha finora interamente confermato la sua natura come la realizzazione dell'economia politica: come la crescita della povertà, che ha invaso e devastato il tessuto stesso della vita. [...] Questa società è regolata da un'economia troppo sviluppata che trasforma tutto – l'acqua sorgiva e persino l'aria di città – in beni economici, vale a dire che tutto è diventato un'economia malata – che è la negazione completa dell'uomo (...).» ( Guy Debord - Il pianeta malato )
Nel secolo precedente, il processo di espansione su scala globale del modo di produzione capitalista, è stato allo stesso tempo anche un processo di trasformazione della biosfera nel suo complesso. Tale processo ha avuto come conseguenza il disturbo dell'equilibrio ecologico del pianeta, un equilibrio che si era conservato nei passati diecimila anni, in un periodo noto come l'Olocene. Secondo recenti studi scientifici [*1], i principali aspetti di una simile trasformazione ecologica sono i seguenti:
- 1 - Aumento della temperatura media del pianeta a causa dell'aumento della concentrazione atmosferica dell'anidride carbonica e di altri gas serra. Questo aumento é causato sia dalla combustione di combustibili fossili al fine di fornire energia alla produzione capitalistica e alla riproduzione, sia dalle emissioni che si originano dal modo di produzione agricolo capitalistico. [*2]
- 2 - Grande perdita di biodiversità, dovuta principalmente alla conversione dell'ecosistema forestale nelle zone di produzione agricola, o in parti del tessuto urbano. Si prevede che entro il 21° secolo, sarà minacciato di estinzione fino al 30% di tutte le specie di mammiferi, uccelli e anfibi.
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Una crisi, tante teorie
di Marco Palazzotto
Pubblichiamo la relazione introduttiva di Marco Palazzotto all’incontro con Vincenzo Comito, “Banche tra normativa europea e digitalizzazione”, tenutosi a Palermo il 16 maggio 2018. Qui il video dell'incontro
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a vari dibattiti sulla crisi finanziaria scoppiata nel 2007/2008. Tenterò di sviluppare sinteticamente alcune analisi che più meritano attenzione, a mio parere, nella discussione a sinistra.
Un primo esame della crisi si può far rientrare nel filone del cosiddetto ‘marxismo ortodosso’ e fa riferimento alla legge, che Marx espone in buona parte nella sua principale opera Il capitale, chiamata teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.
In breve: il saggio di profitto (Sp) è dato dal rapporto tra plusvalore (Pv) e capitale (quest’ultimo è pari alla somma tra capitale costante [C] e variabile [V]).
Sappiamo anche che il saggio di plusvalore (Spv) prodotto dalla classe lavoratrice è uguale al rapporto tra plusvalore e capitale variabile (investimento in forza lavoro).
Marx afferma che esiste una tendenza – apparentemente dovuta al progresso tecnologico, e che si manifesta nei relativi investimenti in capitale costante – che fa aumentare la composizione organica del capitale (rapporto tra capitale costante e variabile). Tale tendenza è dovuta al continuo tentativo di aumentare la produttività per ottenere maggiore plusvalore (diviso in plusvalore assoluto e relativo). Più aumenta il capitale costante in rapporto al capitale variabile (denominatore della formula 1) più diminuisce il saggio di profitto.
Tale teoria, viste le controtendenze in atto nel capitalismo (ad esempio: consumismo nel fordismo del dopoguerra; oppure finanziarizzazione nel neoliberismo) viene criticata, in diversi casi, come poco aderente alla realtà.
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Il Ministero della Verità
di Il Pedante
Questo articolo è apparso in versione leggermente ridotta e riadattata su La Verità del 15 giugno 2018
Nella mattinata di mercoledì 6 giugno ho avuto il piacere di partecipare ai lavori del convegno Propaganda in the EU organizzato da Marco Zanni nelle sale del Parlamento Europeo a Bruxelles, dove ho presentato il personaggio e i lavori de Il Pedante (qui le slide). Nel corso dell'evento è stato denunciato con forza il fenomeno della «lotta alle fake news» con cui si mira, anche nel nostro Paese (leggasi l'inquietante DDL Gambaro, n. 2688), a limitare la libertà di espressione sulla rete internet adducendo la «falsità» e l'«odio» di alcuni suoi contenuti. A modesta integrazione di quanto è già stato detto in quella sede, mi piace sviluppare qui una riflessione pedante sul tema.
Il punto più dirimente e rivelatore del baraccone giuridico delle «fake news» è naturalmente il fatto che, nella pratica quando non anche nella teoria, si indirizza solo alle informazioni diffuse «attraverso piattaforme informatiche» (DDL Gambaro, art. 1), cioè su internet e i social network, facendo salvi i canali della stampa «accreditata» e delle istituzioni. Come ha esemplificato Marcello Foa, le notizie false, anche solo per distrazione o conformismo, sono però «democratiche» e toccano tutti, dall'anonimo commentatore di Twitter alle segreterie di Stato. Le bufale della provetta di Colin Powell, dell'esecuzione dell'ex fidanzata di Kim Jong Un o della morte del giornalista e dissidente russo Arkadij Babchenko, che colpivano rispettivamente i governi nemici dell'Iraq, della Corea del Nord e della Russia di Vladimir Putin (soddisfacendo così anche i requisiti dell'«odio») o, ancora, le accuse senza prove rivolte al governo siriano in una serie di attacchi alla popolazione civile o a quello russo nell'attentato all'ex spia Sergej Skripal, trovavano spazio anche su testate giornalistiche considerate autorevoli e prestigiose.
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Pensare la politica nel tempo del disordine
di Alessio Lo Giudice
1. Il potere nel disordine
Sembrerebbe oggi che una nozione tanto vaga, quanto totalizzante, di sicurezza sia in grado di prendere il sopravvento su altre categorie politiche, determinando una riconfigurazione dello Stato di diritto e tendendo così più al suo tradimento che alla sua protezione. La prevenzione dei delitti si ridurrebbe a una sorta di obiettivo apparente, dietro il quale si celerebbe la volontà di stabilire uno Stato di sicurezza fondato su controlli e limitazioni sempre più generalizzati e invasivi.
L’impressione è di trovarsi in una condizione che supera la tipologia del potere nello Stato moderno magistralmente delineata da Michel Foucault. Supera sicuramente il potere sovrano che, in nome della sicurezza del sovrano stesso, dispone della vita e della morte: «il diritto di far morire o di lasciar vivere». Ma supera anche il potere disciplinare, affermatosi a partire dal XVII secolo in particolare, non più fondato esclusivamente sulla gestione della morte bensì, come sostiene Foucault, sulla perpetuazione, e quindi sul controllo, della vita: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte».
Il potere disciplinare pare, a prima vista, più affine al paradigma della società del controllo e quindi allo Stato di sicurezza che sembra profilarsi di questi tempi attraverso il mantenimento dell’emergenza. La disciplina dei corpi, la loro amministrazione, la misurata inscrizione, anche attraverso forme di coercizione, dei comportamenti dei singoli entro canovacci prestabiliti e quindi controllabili, tipici appunto della società disciplinare a cui si riferisce Foucault, sembrerebbero coerenti con ciò a cui assistiamo oggi.
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Impressioni da Berlino
di Sergio Cesaratto
Il 7 e 8 giugno ho avuto la fortuna di partecipare a un workshop sulla riforma dell’eurozona organizzato da economisti post-keynesiani.
Due presentazioni hanno particolarmente attirato la mia attenzione, non a caso di due studiosi tedeschi vicini all’establishment. Essi esprimono la filosofia “riformatrice” (sic) dell’attuale governo tedesco. Il resto non mi ha invece impressionato, a parte la buona volontà di alcuni economisti tedeschi post-keynesiani (e un battibecco finale di cui dirò). Gli economisti francesi, spagnoli e portoghesi mi sono sembrati molto accondiscendenti nei confronti della situazione attuale.
Il primo dei due studiosi, l’economista Jeromin Zettelmeyer, è uno dei firmatari dell’in/famous documento dei 14 economisti franco-tedeschi (Bénassy-Quéré et al 2018). Per una analisi critica del documento rimando a quanto ho già scritto in merito su Il Fatto Quotidiano (Cesaratto 2018a). La filosofia di fondo che emerge dal documento è la subordinazione di ogni sostegno in caso di crisi del debito sovrano a una ristrutturazione del medesimo, che comprende in particolare un taglio del debito stesso a sfavore del settore privato. Insomma, ciò che si intende rafforzare è la disciplina dei mercati sulle politiche fiscali nazionali. L’ispirazione di questa posizione è da rintracciarsi nell’altrettanto in/famous non-paper di Wolfgang Schauble, la risposta tedesca alle proposte di Macron (v. Cesaratto, S. (2018b) qui).
Questo era, in verità, quanto avevano già in mente anche gli estensori del Trattato di Maastricht (che in sovrappeso misero anche i noti paletti su deficit e debito). I mercati, tuttavia, abdicarono al ruolo a loro attribuito di sanzionatori della disciplina fiscale.
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Marx, il liberoscambismo ed alcune interpretazioni
di Italo Nobile
Si dice spesso che Karl Marx plaudisse allo sviluppo capitalistico (e al libero scambio che sarebbe secondo alcuni ad esso collegato) e che invece considerasse le resistenze a tale espansione (soprattutto nei paesi dell’Asia, dell’Africa e del mondo slavo) come legate alla reazione dei regimi connessi ai modi di produzione precedenti.
A tal proposito si citano le pagine de “Il Manifesto” e del “Discorso sul libero scambio” e quasi si afferma che sia stato il marxismo successivo a rimuovere la natura progressiva del capitalismo così affermata da Marx: è il caso di Giuseppe Bedeschi sul Corriere della Sera di qualche anno fa (e già sanzionato da Moreno Pasquinelli), del pensatore liberale Corrado Ocone, del giornalista economico Stefano Cingolani in un articolo su Panorama di inizio Maggio ma anche di alcune tesi degli interpreti anglosassoni di Marx (si pensi all’enfasi di Cohen sulla crescita delle forze di produzione e all’interpretazione evolutiva del pensiero marxiano da parte di Anderson), di alcuni aspetti dell’interpretazione postoperaista di Negri e Hardt (così come denuncia Domenico Losurdo), dell’accelerazionismo che finisce per mescolarsi con la visione postoperaista. Quest’articolo vuole essere un contributo al chiarimento di alcuni aspetti di questo problema interpretativo che ha tante implicazioni teoriche.
A questo proposito all’interno del discorso sui processi di produzione e riproduzione sociale che interessano la dimensione del ruolo dello Stato nell’epoca della globalizzazione (diventata oggi epoca del conflitto tra imperialismi come dimostrato ampiamente dal lavoro pluridecennale della Rete dei comunisti), una linea di tendenza interessante (che forse riguarda anche la dimensione politica della questione) è secondo l’economista Emiliano Brancaccio quella della centralizzazione dei capitali.
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Otto tesi sulla Turistificazione
di InfoAut
Dossier a cura della redazione di Bologna di InfoAut sul tema della turistificazione, ovvero dei processi di ristrutturazione dello spazio urbano guidati dall'affermarsi dell'industria del turismo di massa. Il contributo, scaricabile qui, è pensato in vista del convegno "Per una critica della città globalizzata", che sarà ospitato dal Laboratorio Crash di Bologna il 30/31 maggio a venire. Qui il programma del convegno, qui i contributi preparatori di Emilio Quadrelli e Giovanni Semi
Il concetto di touristification, reso in lingua italiana con turistificazione, è salito in maniera rapida all'onore delle cronache nostrane negli ultimi tempi, grazie all'evidente impatto che l'industria turistica sta avendo nel ridefinire le nostre città in parallelo alla diffusione sempre più forte dell'utilizzo, come ospite o come ospitante, di portali come Airbnb, piuttosto che dei voli offerti da compagnie aeree low-cost come RyanAir. Tuttavia, la turistificazione è ancora qualcosa di difficilmente afferrabile in tutte le sue sfaccettature.
Una prima definizione minima potrebbe essere quella di concetto che racchiude al suo interno la molteplicità delle conseguenze del turismo di massa sulla ristrutturazione degli spazi urbani o di alcune loro sezioni. Indubbiamente molto vago: siamo ancora sprovvisti di una definizione utile a individuare, collegandole in un quadro interpretativo unico, tutte le tematiche che potrebbero essere riferite a una parolina sempre più in voga.
Nel dibattito accademico il concetto si è affermato in maniera forte nell'ultimo decennio, sviluppando le prime analisi e teorie (critiche e non) in merito alla più grande ondata nella storia di turismo di massa, dovuta all'emersione su scala planetaria di una possibilità inaudita di potersi muovere dai propri territori. Proprio mentre paradossalmente (o no?) si blindavano sempre più le frontiere per alcune tipologie di persone, si è affermata sempre in maniera maggiore la possibilità di viaggiare verso lidi sconosciuti, fino all'esplosione dei flussi di turismo globali che che caratterizza il nostro mondo. Per autori come Marco d'Eramo, che nel suo "Il selfie del mondo" (Feltrinelli, 2017) ha studiato in profondità la questione, il turismo potrebbe essere pensato come la principale industria pesante del XXI secolo, a causa delle fortissime implicazioni sociali, politiche, ma anche spaziali, che porta intrinsecamente con sè.
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Focus. Caso Aquarius: che fare ora?
Ci sono momenti in cui è giusto prendersi del tempo perché non ci sono risposte semplici e l'impulsività rischia solo di incendiare e imbarbarire il dibattito. Per non finire come Repubblica e Salvini in queste ore, come AntiDiplomatico abbiamo deciso di prenderci del tempo sul caso ormai molto noto della nave Acquarius - l'imbarcazione della ONG SOS Mediterranée partita dalla Libia con oltre 600 migranti e che si è trovata al centro di una querelle che ancora non trova soluzione questo martedì con le resistenze della Ong di accettare la decisione del governo spagnolo di aprire il porto di Valencia. Al momento sembrerebbe che 500 dei 625 migranti arriveranno a Valencia nei prossimi giorni all'interno di imbarcazioni militari italiane. I restanti 125 arriveranno a bordo della stessa nave Acquarius.
E' giusto prendersi del tempo di fronte al proliferare del razzismo incentivato da un ministro degli interni che preferisce giocare sulla vita di disperati invece di alzare la voce con i veri carnefici (Nato, Usa e colonialismo occidentale in primis); è giusto prendersi del tempo di fronte al fallimento fallimentare di chi utilizza l'Europa (dei muri totali, dell'ipocrisia e dell'arroganza dei miliardi di euro alla Turchia e delle sanzioni alla Siria stuprata) come modello di valori e arriva oggi ad osannare la Spagna che dal 2011 (governo Zapatero) ha chiuso tutti i porti e costruito dei muri a Melilla e Ceuta.
E' giusto prendersi del tempo perché risposte semplici non ci sono. La complessità della questione richiede un approccio diverso. Le migrazioni di massa sono un tema di una complessità tale che richiede del tempo.
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Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università
di Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
Sottoposta negli ultimi anni a un processo di revisione normativa che non ha pari nell'ambito della pubblica amministrazione, l'università italiana appare profondamente in crisi. Ma quali sono le ragioni che l'hanno ridotta in queste condizioni? Se lo chiedono Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova nell'Introduzione al volume "Ai confini della docenza. Per la critica dell'Università", uscito per i tipi della Accademia University Press (Torino), che può essere scaricato gratuitamente qui. Ringraziamo i curatori e la casa editrice per averci gentilmente concesso di pubblicare il testo.
Non è facile parlare di Università, per una serie di motivi. Prima di tutto perché, nonostante il comune sentire, da quando è stata introdotta la prima riforma di cui parliamo, la riforma Berlinguer del 2000 (anche se certo si dovrebbe e potrebbe andare indietro, sino alle molte ambiguità della legge Ruberti del 1990) l’Università è diventata la cavia per una sequenza di innovazioni organizzative permanenti, e devastanti, che stanno distruggendo un ciclo superiore di insegnamento che spesso poteva essere di esempio per gli altri paesi. Da allora, ogni Governo ha legiferato sull’Università. Ogni Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha continuato, con scadenza quasi mensile, a emanare decreti che (contro-)rivoluzionano la vita accademica. L’Università è così sottoposta ad un permanente riassetto organizzativo, e ad uno stravolgimento della sua filosofia e della sua funzione, che è di grave danno per la struttura degli studi e dell’insegnamento: qualsiasi teoria dell’organizzazione degna di questo nome sa che, introdotta una innovazione, occorre lasciar passare del tempo, metterla pienamente in pratica, prima di introdurre nuove modifiche: non si ha, altrimenti, la possibilità di valutarne gli effetti.
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Immigrazione: percezione, contraddizione reale, depistaggio
di Fabrizio Marchi
Il fatto che la domanda di contenimento dell’immigrazione se non (in parte) un’aperta ostilità nei confronti degli immigrati provenga dalla “pancia” dei ceti popolari, non significa affatto che questo “sentimento” di ostilità sia giusto e politicamente ben riposto per il solo fatto che provenga da quegli stessi ceti.
La differenza tra la destra populista da una parte e i comunisti e i socialisti dall’altra, è che la prima, a differenza dei secondi, sposa tutto ciò che arriva da quella “pancia”, tutte le contraddizioni e tutte le spinte e le controspinte di vario genere, siano esse “progressiste” o reazionarie, e le alimenta indipendentemente dalla loro natura, gettando benzina sul fuoco – perché il suo unico obiettivo è conquistare consensi purchessia – e mescolare queste spinte con quelle che provengono dai ceti medio e medio alto borghesi di cui sostanzialmente difende gli interessi.
Il populismo di destra (perché ne esiste anche uno di Sinistra, pensiamo a quello latinoamericano, ad esempio, che invece ha svolto e svolge un ruolo positivo perché non è affatto interclassista e rappresenta gli interessi delle classi proletarie e popolari e non a caso è combattuto sia dal grande capitale internazionale che dalle borghesie locali e nazionali alleate con quello), che in Italia è fondamentalmente rappresentato dalla Lega, rappresenta in ultima analisi gli interessi di quella parte di borghesia nazionale che non è riuscita (perché non ne aveva la forza e la “potenza di fuoco” economica) ad entrare a far parte del gotha del grande capitalismo transnazionale e allora si è “rifugiata” in una sorta di difesa del fortilizio, del proprio giardino di casa.
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Le due facce della modernità secondo Robert Kurz
di Paolo Lago
Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00
Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a Massimo Maggini e Riccardo Frola – da anni si dedica alla cura e traduzione delle opere di questi autori tedeschi. Non possiamo perciò che essergli grati (ed essere grati all’opera di diffusione portata avanti da questi appassionati, grazie anche alla rivista online “L’anatra di Vaucanson”) per la recente traduzione, per i tipi di Mimesis – editore presso il quale sono precedentemente usciti anche altri testi di tali autori – del saggio di Robert Kurz intitolato Il collasso della modernizzazione (Der Kollaps der Modernisierung), uscito in Germania nel 1991. Kurz è infatti un autore fondamentale per comprendere le contraddizioni della modernità e della contemporaneità, uno studioso che purtroppo è stato spesso trascurato o incompreso. Prematuramente scomparso nel 2012, Kurz è uno dei fondatori della rivista e del gruppo tedeschi “Krisis” e, successivamente, fautore della scissione del gruppo “Exit”. Fra le opere più significative degli autori del Gruppo Krisis è doveroso ricordare il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e, nel 2003, in traduzione italiana per “DeriveApprodi” [su Carmilla].
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Noi, Negri e dintorni
di Giulio Toffoli
Un movimento del ’68-’69, studentesco ed operaio, antiautoritario, innovativo, sano; strumentalizzato prima da presunte avanguardie e poi rovinato dalla «scelta di scendere sul terreno dello scontro violento» istillata da “cattivi maestri” (in particolare dal pifferaio magico in passamontagna Tony Negri)? Questa seconda e lunghissima lettera del Tonto – ma la memoria, anche su questo evento controversa e non condivisa, forse lo richiede – polemizza direttamente con un mio scritto (qui) e si collega alla riflessione a tre sul ’68 appena iniziata con Rabissi e Romanò (qui). [E. A.]
“Carissimo
mi fai sapere quasi allarmato – scrive il Tonto in un’altra delle sue lettere – che la mia ipotesi che sia praticabile una terza via fra quelle che si presentano oggi di fronte a noi, e che è certo una scelta di ripiego, ma contemporaneamente fa i conti con la «realtà effettuale», ha incontrato innumerevoli critiche.
Non preoccuparti non si tratta che di una reazione naturale in una situazione davvero caotica, come poche fra quelle che abbiamo vissuto, se ci pensi bene tutte abbastanza convulse.
Pensa che mentre ti scrivevo quelle righe avevo aperto un dialogo molto interessante con i frati che mi ospitano e anche qui, a dispetto del silenzio e della ritualità che governa i momenti della vita quotidiana, è esploso un inedito conflitto fra quelli che sono preoccupati di veder intaccato uno status quo a cui sono adusi ed altri che invece credono sia necessario, almeno per quel che riguarda le cose di questo mondo, una qualche forma di rinnovamento … Qualche giorno fa due fratelli stavano per lanciarsi in una singolar tenzone usando le candele come fioretti, quasi fossero diventati tutto d’un colpo rampolli di Dumas.
Tu mi dici che, di fronte alla mia affermazione: che un nuovo governo, non costituito dalle forze che hanno governato in questi ultimi tre decenni, «è pur qualche cosa», sono stato accusato di far mia una linea sostanzialmente socialdemocratica e di aver abbandonato nei fatti ogni ipotesi di una radicale alternativa, insomma un progetto rivoluzionario, ormai rinviato sine die.
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Il governo c’è, ora serve l’opposizione
di Renato Caputo
Rischiamo di perdere la possibilità stessa di manifestare la nostra stessa indignazione se non lo facciamo al più presto
Nel dibattito piuttosto noioso sulla fiducia al governo Conte, si è distinto l’accorato intervento di Mario Monti che ha ammonito la nuova maggioranza, evocando il vero e proprio Deus ex machina dell’attuale farsa che si rappresenta nel teatrino della politica parlamentare: “siate più umili e realisti o arriverà l’umiliazione della trojka, che è una cosa disgustosa e che vi renderebbe un governo semicoloniale”. Se ne deduce che qualsiasi deviazione, per quanto demagogica e populista, dal pensiero unico dominante, neoliberista, comporterebbe un intervento dei poteri forti transnazionali che renderebbero il governo di una repubblica democratica, fondata almeno formalmente sulla sovranità popolare, una semi-colonia. Il ricordo non può che tornare alla tragica vicenda della Grecia che, dopo aver eletto un governo presentatosi con un programma di rottura con le politiche di austerità e intenzionato a cominciare a far pagare la crisi a chi la ha effettivamente causata, il capitale finanziario, è stato “costretto” dalla trojka a riprendere la politica di lacrime e sangue nei confronti delle classi subalterne dei precedenti governi di centro-destra e di centro-sinistra.
Del resto l’alternativa all’umiliazione dell’intervento della trojka ce la ha offerta proprio la politica “umile e realista” del governo Monti, che si è limitato ad applicare le direttive della nota lettera inviata dalla Bce, a firma Draghi-Trichet, imponendo a sua volta una politica di austerità volta a scaricare gli effetti nefasti della crisi sui ceti sociali più deboli, anch’essa in sostanziale continuità con i precedenti governi di centro-destra e centro-sinistra, i cui rappresentanti del resto hanno pienamente sostenuto le politiche del governo Monti.
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Poco prima che sia troppo tardi
di Pierluigi Fagan
Recensione del libro di K. Mahbubani “Has the West Lost it? A provocation.” Penguin, London, 2018
Kishore Mahbubani, nato a Singapore ma di origine indiana, laureato in filosofia, è stato funzionario del Ministero degli Esteri, poi diplomatico rappresentante il suo paese all’ONU per 10 anni e per due addirittura presidente del Consiglio di Sicurezza. Professore di politica a Singapore ma anche membro del Centro per gli affari internazionali di Harvard e del Consiglio di Amministrazione della Bocconi. Accanto a questa rilevante carriera, ha sviluppato un pari percorso di pensatore di rilievo geopolitico e culturale, ospitato nel tempo da Foreign Affairs e Foreign Policy, American Interest e Time, Newsweek e Financial Times, ripetutamente premiato come uno degli intellettuali più influenti del mondo e conosciuto nel dibattito pubblico per un libro -The Great Convergence- che si potrebbe dire il seguito del ben famoso -La Grande Divergenza- di Kenneth Pomeranz[1].
Ci siamo soffermati su i suoi aspetti biografici, primo per familiarizzare con quello che è uno dei più rilevanti pensatori asiatici (politico, geopolitico, naturalmente ben formato su gli aspetti economico-finanziari ma di origine “culturale” data la sua laurea in filosofia ma anche successivi approfondimenti in psicologia che gli danno una certa lucidità nel trattare le “mentalità”), secondo perché pur appartenendo alla élite mondiali lo fa ribadendo il suo specifico d’origine e le caratteristiche ed interessi specifici del quadrante asiatico (che vede imperniato sulla triplice Cina, India, Indonesia con ovviamente Singapore come perno), terzo perché risulterà interessante mettere cotanta sostanza da peso massimo del primo girone intellettuale del mondialismo (non nella versione One World global-liberal-anglosassone ma in quella più oggettiva della stretta interdipendenza e convivenza di tanti mondi su un unico pianeta) in rapporto alla tesi che andremo a riassumere.
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La diplomazia competitiva dell'amministrazione Trump
Le questioni dell'ONU e della NATO
di Michele Nobile
1. Il problema della diplomazia competitiva
La diplomazia di George W. Bush voleva essere «trasformativa», cioè volta a costruire e sostenere Stati democratici in collaborazione con «molti partner internazionali»1 . In altri termini, l’esportazione a mano armata della «democrazia» presupponeva la capacità e la volontà di costruire alleanze variabili e su misura dell’intervento militare. Non foss’altro che, al fine di una parziale legittimazione politica, anche l’azione militare unilaterale e al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite doveva combinarsi con il multilateralismo. Senza mai escludere l’azione unilaterale - «se necessario» - in modo simile all’amministrazione Clinton quella di Obama enfatizzò la cooperazione multilaterale e nelle istituzioni internazionali.
In cosa si differenzia l’amministrazione Trump dalle altre?
Uno dei suoi tratti è l’idea della rinascita della competizione geopolitica con la Russia e di quella economica con la Cina, oltre alla critica della teoria della «pace democratica». Tuttavia, ciò va relativizzato.
Con l’esplodere della guerra civile in Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Russia, un altro Presidente avrebbe usato un linguaggio diverso, ma comunque le potenze occidentali non avrebbero potuto accettare supinamente la ricostituzione di una propria sfera d’influenza nell’area europea ex sovietica da parte del Governo russo (il discorso è parzialmente diverso per gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale: si veda oltre). E infatti, la principale critica al candidato Trump era, appunto, quella di essere a dir poco accomodante nei confronti di Putin.
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Immigrazione, emigrazione, cooperazione
di Rodolfo Ricci*
Nell’analisi degli attuali fenomeni migratori e delle connesse questioni economico-sociali, giuridiche e politiche è opportuno richiamare alcuni aspetti di ordine storico e di approccio di indagine che consentano di ricostruire una unità di lettura dei fenomeni migratori in quanto effetti – e allo stesso tempo concause – dei mutamenti strutturali che li producono e che li alimentano.
Dal punto di vista giuridico, accanto al diritto di migrare o di libera circolazione, di accoglienza, di inserimento e di integrazione nei paesi ospiti (un diritto richiamato nei testi più antichi di tutte le civiltà: “ero straniero e mi hai accolto”), va recuperato il diritto – moderno – di poter vivere dignitosamente nei luoghi e paesi di origine, oppure di potervi tornare in condizioni e con opportunità di re-inserimento civile, sociale e lavorativo, dignitoso; senza questa possibilità il diritto ad una libera circolazione rischia di celare la forzatura all’espatrio, all’emigrazione forzata, qualità che purtroppo contraddistingue la quasi totalità degli esodi emigratori almeno negli ultimi due secoli.
L’attenzione univoca al diritto di spostamento e di stabilimento nasconde la ragione essenziale e profonda dei movimenti di masse di persone, innescati, oggi come ieri, dai movimenti paralleli di concentrazione di capitale, dallo sfruttamento incondizionato di grandi aree e territori periferici a vantaggio di quelli centrali e la necessità di disporre nei centri direzionali della produzione e della finanza di grandi quantità di risorse umane sottratte, senza alcuna contropartita, ai territori periferici di partenza.
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