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“Le situazioni scandalose non possono persistere all’infinito”
Sulla valutazione della ricerca in economia
Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini intervistano Luigi Pasinetti
Il settore dell’Economia è tra quelli in cui più chiaramente si avvertono le contraddizioni e i limiti dei sistemi di valutazione della ricerca accademica in Italia. Una scienza economica ancora fragile, che per evolvere necessiterebbe di apertura, pluralismo e confronto tra i diversi approcci, è oggi condizionata nel suo sviluppo da criteri di valutazione e di selezione delle leve accademiche in larga misura arbitrari e schiacciati su un unico paradigma, benché questo sia sottoposto a crescenti obiezioni epistemologiche, teoriche ed empiriche. Il parere in materia di Luigi Pasinetti uno dei massimi esponenti mondiali del pensiero economico critico, intervistato da Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini.
Nel nostro paese le decisioni sulla qualità della ricerca, sulle abilitazioni scientifiche e sulle procedure concorsuali risultano dominate dalla zelante applicazione di contestati criteri di classificazione delle riviste, talvolta persino più restrittivi di quelli stilati dall’ANVUR. Il settore dell’Economia è uno di quelli in cui più forte si avverte la tendenza a valutare le pubblicazioni in base al ranking delle riviste piuttosto che al contenuto effettivo delle ricerche. In questo ambito, per giunta, si presenta un problema ulteriore: nelle classifiche vigenti sono fortemente discriminate quelle riviste che accettano approcci di ricerca alternativi al cosiddetto “mainstream”, la visione oggi prevalente in economia. L’ovvia conseguenza è che gli economisti, specie più giovani, sono indotti a reprimere i loro interessi verso i paradigmi scientifici alternativi pur di sopravvivere in accademia.
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4 marzo: il voto, il vuoto e dopo
di Daniele Barbieri
Il povero db davanti all’urna: posso raccontarvi i miei “dolori” e la scelta finale?
Ho faticato a scrivere questo post ma siccome un minimo di autoironia ci vuole – un antidoto alla presunzione del “so tutto io” – potete anche immaginarlo in tre parti (con titoli rubati a Johann Wolfgang Goethe): «I dolori del giovane Vother», «Le difficili affinità elettive» e «Faust, ovvero se Goethe ci ha messo 60 anni a scrivere di un patto con il diavolo… posso io prendermi un mesetto per decidere come contribuire all’italico guaio minore?».
Una premessa o anche due
A ogni “tornata” sono sempre in dubbio se votare. Ogni volta mi torna la secca frase di Malcom X: «Il potere è nell’urna? Una buona ragione per starne lontani». Capisco bene il ragionare di tante persone anarchiche (e non solo) che rifiutano il voto per principio; e il “trend” come dicono gli anglofoni dà loro ragione, visto che ormai circa metà degli “aventi diritto” non va alle urne. Però le contraddizioni – sale della vita – mi rammentano che si è a lungo lottato per il suffragio universale e che anche con le elezioni è stato possibile contrastare l’oppressione.
Alla fine ho sempre preferito votare. Rispettando chi si astiene – soprattutto se non si limita al mugugno ma agisce per una società migliore – però ho deciso (senza tropp illusioni) che comunque avere un gruppo, anche piccolo, di persone degne nei Palazzi potesse essere utile. Così sono ormai 40 anni che alla fine voto “il meno peggio” a sinistra.
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“Neoliberismo ed Europa, serve una svolta”
Lettera aperta a Liberi e Uguali
“Liberi e Uguali non sta riuscendo in quello che si era esplicitamente proposto, cioè chiamare a raccolta quel ‘popolo di sinistra’ che sempre più numeroso ha abbandonato il Pd”. Da un gruppo di intellettuali un appello affinché LeU dia un forte segnale di discontinuità con il passato, soprattutto rispetto all'accettazione delle idee del neoliberismo e all'adesione al Trattato di Maastricht e agli accordi che ne sono seguiti.
* * * *
Negli ultimi quarant’anni la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi inimmaginabili e la ricchezza del mondo è aumentata, tanto nei paesi che avevano un minor livello di sviluppo che in quelli di più antica industrializzazione. In questi ultimi, però, la maggiore ricchezza generata è andata quasi esclusivamente nelle mani di un piccolo numero di persone, invertendo la tendenza a una più equa distribuzione che si era verificata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non si è trattato di una fatalità o di un fenomeno impossibile da controllare: è stato il frutto dell’ideologia economico-politica che ha conquistato l’egemonia dagli anni ’80 del secolo scorso.
Da questa ideologia si sono lasciati conquistare anche i partiti della sinistra storica, tanto da essere in molti casi protagonisti, come forze di governo, delle politiche che da essa venivano dettate.
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La nuova ideologia di destra italiana
di Christian Raimo
Il paternalismo classista di Cazzullo, Battista e Polito(senza contare Crepet, Galimberti e Serra)
Nel giro di nemmeno un mese sono stati pubblicati tre libri di tre editorialisti del Corriere della sera sulla loro esperienza di padri che si dichiarano incapaci di capire la generazione dei figli ma che comunque s’industriano per dare soluzioni a quella che loro stessi definiscono l’emergenza educativa. Antonio Polito (1956) per Marsilio ha scritto Riprendiamoci i nostri figli. La solitudine dei padri e la generazione senza eredità; Pierluigi Battista (1955) per Mondadori ha scritto A proposito di Marta (Marta è sua figlia 25enne); Aldo Cazzullo (1966) sempre per Mondadori a quattro mani con i figli adolescenti Rosanna e Francesco Maletto Cazzullo ha scritto Metti via quel cellulare. Un papà. Due figli. Una rivoluzione. A questi si può accostare l’uscita nei cinema degli Sdraiati, il film di Francesco Piccolo e Francesca Archibugi che è un adattamento dal romanzo di Michele Serra, diventato il modello di questo che è quasi-genere.
I libri di Cazzullo, Polito e Battista hanno in comune molte idee. La prima che potessero scrivere comodamente con il “noi”, ossia che il loro osservatorio personale – quello di genitori maschi, benestanti, intellettuali, tra i cinquanta e i sessanta, con figli che hanno fatto o stanno facendo un liceo del centro di Roma o Milano – sia un osservatorio privilegiato per discutere del tema educativo, e che quindi le loro impressioni e persino i loro aneddoti siano rappresentativi della realtà sociale italiana. La seconda è che sia opportuno scrivere un libro in qualche modo intimo sui propri figli, chiamandoli per nome e cognome, citando loro episodi familiari o addirittura chiamandoli a scrivere a quattro mani come fa Cazzullo.
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Complessità, società adattativa e sistemi di pensiero
di Pierluigi Fagan
Questo articolo non affronta nessuna questione d’attualità stretta, ma questioni di ciclo storico che si misurano col metro della lunga durata
Consapevoli o meno, noi pensiamo entro i limiti di un determinato sistema di pensiero[1]. I sistemi di pensiero hanno diversi obblighi, quattro principali: 1) debbono tener fissi una serie di presupposti ed al limite muovere tutto il resto che li compone; 2) debbono mantenere una coerenza interna anche approssimata, di modo da non produrre troppe contraddizioni o troppo gravi o troppo a lungo; 3) sebbene ognuno di noi abbia il suo sistema di pensiero, questo è in genere una variante o un personale assemblaggio di sistemi impersonali condivisi da più individui. Credenze, religioni, ideologie, culture sono appunto sistemi impersonali condivisi; 4) i sistemi di pensiero debbono in qualche modo riferirsi al “fuori di noi”, realtà o mondo che dir si voglia. Riferirsi significa che il sistema di pensiero aiuta a categorizzare, giudicare, collegare, archiviare fatti, nella sua funzione passiva, significa pensare, progettare ed ordinare l’azione nel mondo, nella sua funzione attiva. Al decisivo cambiamento dei tempi, della realtà e del mondo umano, consegue un radicale cambiamento nei sistemi di pensiero. Il termine “radicale” qui significa che cambiano i presupposti ed a cascata l’intero sistema.
Quelli che abbiamo chiamato “presupposti” possiamo anche dirli “principi”. Qual è il principio che ha ordinato il sistema di pensiero moderno, sin dalla sua prima formazione cinque secoli fa[2]? Non sembra esserci un termine-sintesi efficace da poter opporre in risposta alla domanda. Il più accettato nel mondo dello studio è il termine “disincanto” proposto da M. Weber[3].
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Lavoretti
di Riccardo Staglianò
Con la tecnologia, contro la retorica
Vorrei chiarirlo subito, non sono contro la tecnologia. Sono innamorato della tecnologia, da sempre. Sono contro la retorica, contro lo spettacolino di son et lumière che le hanno allestito intorno i banalizzatori della «distruzione creatrice», contro i pubblicitari che hanno tirato a lucido gli slogan e i giornalisti che si sono precipitati a testimoniare nella causa di beatificazione, contro i lobbisti che ne hanno venduto una rispettabilità istituzionale e i politici che l’hanno comprata senza fare una piega. In buona sostanza è la lunga denuncia di una pericolosa impostura linguistica, quella che sta provando a farci credere che «sharing economy» si traduca davvero con «economia della condivisione», con tutto il bene che ne deriverebbe. Un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme, tanto generoso e altruista quanto il vecchio, che abbiamo conosciuto fino a oggi, era spietato ed egoista. La sharing economy invece, sotto i brillantini della narrazione prevalente, presenta solo vantaggi. Economicamente efficiente. Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta. Chi la critica dunque non può che essere una brutta persona. Peccato che, a dispetto dei termini, piú che condividere, la gig economy – cominciamo a chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti – concentri il grosso dei guadagni nelle mani di pochi, lasciando alle moltitudini di chi li svolge giusto le briciole. Share the scraps economy, l’ha ribattezzata Robert Reich.
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Salviamo l'ambiente dall'ecocapitalismo
di Giovanni Di Benedetto
Come avviene la determinazione del valore in una società nella quale vige il modo di produzione capitalistico? In che modo si genera il valore di una merce e quale tipo di conseguenze economiche, sociali, ecologiche questo processo di produzione porta con sé? In particolare, come si ritiene possibile salvare l’ecosistema dal disastro ecologico senza tenere conto del problema della determinazione della struttura del valore? Si tratta di questioni che, nel drammatico crogiuolo della crisi economica, attraversano trasversalmente le dinamiche della ristrutturazione economica e quelle della crisi ambientale. Eppure, la quasi totalità delle analisi degli economisti di parte neoliberista che si confrontano col disastro ambientale eludono il problema relativo all’impossibilità di una razionalità economica che si faccia carico delle esternalità ambientali e, anzi, continuano a ritenere possibile non solo salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica, cosa di per sé auspicabile, ma, per di più, trarre nuove occasioni per un’ulteriore accumulazione di profitto, coniugandolo magari, che ingenui, con il bene sociale.
Un approccio di questo tipo, per esempio, è rintracciabile in un recente contributo di Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, e direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, pubblicato su «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 gennaio 2018 e intitolato Salvare l’ambiente e salvare l’economia.
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Autogestione versus homo oeconomicus
di Sandro Moiso
Guido Candela – Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, Elèuthera 2017, pp. 224, € 16,00
Nei primi giorni di febbraio, Wall Street (quella che potremmo definire ancora come la Borsa di riferimento a livello mondiale) ha perso in sole due sedute 1.700 punti. Nella prima seduta la Borsa è arrivata a perdere il 6 per cento e 1.500 punti in pochi minuti, in quello che, secondo gli esperti di Market Watch, potrebbe essere il peggior calo giornaliero di sempre per la Borsa americana.
In un periodo di apparente tranquillità e crescita del mercato azionario, ma sostanzialmente turbolento in termini di investimenti e speculazioni, ciò potrebbe costituire un effetto non del tutto imprevisto e non così catastrofico.
Quello che colpisce, però, in questo caso è l’unanimità con cui tutti i commentatori economici, gli analisti finanziari ed esperti di vario genere, hanno messo al primo posto tra le cause dell’improvvisa caduta degli indici di borsa e dei valori azionari l’inflazione salariale risalita ai massimi da gennaio 2014, seguita dal timore di una nuova stretta della Fed sui tassi di interesse a marzo. Inflazione salariale ovvero aumento, spesso ancora soltanto previsto, dei salari.
Uno strano paradosso in base al quale se l’economia “va bene” il mercato azionario scende. Secondo Josh Barro: “Siccome l’economia sta migliorando e le imprese si stanno espandendo, la maggiore capacità produttiva porterà a un taglio dei prezzi per mantenere i propri clienti. E come conseguenza si dovranno pagare ai lavoratori salari più alti per gestire questa maggiore produzione.
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Letture sul dramma di Macerata
Lo scontro delle secolarizzazioni
di Alessandro Visalli
Il mio amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i fatti di Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio orrendo fatto di cronaca: alcuni criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza anche essa dedita all’uso, dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere, l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna. Successivamente un criminale italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti di colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.
Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali) delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori. Certo, come sostiene Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si danno, siano di massa o “tradizionali”.
Al momento le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica:
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Roma, da Capitale del sistema paese a periferia dell’Unione Europea
di Rete dei Comunisti
La Rete dei Comunisti ha organizzato su questo tema un dibattito pubblico a Roma mercoledi 21 febbraio. Una analisi sulle tendenze in corso nel processo di asimmetria forzata del nostro paese e nelle aree metropolitane
La condizione di degrado che pervade gli scenari della parte periferica e maggioritaria del tessuto metropolitano della città capitale non può essere solo materia per statistiche e graduatorie dei centri studi sullo stato delle città , né può essere ridotta a situazione contingente legata al ciclo economico e difficoltà/incapacità gestionali.
Diverse e profonde sono le ragioni dello stato di prostrazione che vive sotto più profili la città, da ricercarsi nella trasformazione degli assetti economico produttivi che ne hanno definito la fisionomia per un’intera fase storica. Uno spostamento del baricentro della struttura portante, intesa come sistema di relazioni sociali, economiche e culturali, da una dimensione pressoché totalmente definita dalla prossimità politica ed istituzionale con la politica nazionale ad una identità “ globale” nello scenario in movimento della costituzione della U.E. Un processo di transizione, dunque, che attraversa l’intero tessuto metropolitano, che riattualizza l’incidenza delle trasformazioni urbane nell’analisi delle varie fasi e di intere epoche, tratteggiando la fisionomia della metropoli funzionale alla rimodulazione del processo di appropriazione privatistica/ accumulazione capitalista
Tentare la sintesi del sostrato di relazioni che ha connotato un intero periodo storico, a sua volta attraversato da radicali trasformazioni, rischia di rivelarsi riduttivo. Tuttavia, il connubio tra gli interessi affaristici della borghesia cittadina e la sfera pubblica, con la funzione di volano dell’intervento economico pubblico nel meccanismo dell’accumulazione (ciclo del mattone), ha indubbiamente svolto un ruolo preminente.
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Kalecki e la (vera) piena occupazione impossibile... senza (vera) sovranità
di Quarantotto
1. Ci siamo imbattuti in un'interessante questione storico-politica e, naturalmente, economica, sollevata in questo scambio di tweet:
2. Anzitutto per poter porre complessivamente la questione in questi termini (cioè estesi all'ipotesi formulata nella risposta), occorrerebbe che fossero attualmente riconoscibili una serie di presupposti di fatto, politico-economici, di non secondaria importanza, considerata l'attuale situazione italiana (di accentuata e irrinunciabile de-sovranizzazione, persino caldeggiata nella sua ulteriore accentuazione), e cioè:
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Moneta bancaria: debito o rendita da signoraggio?
di Biagio Bossone, Massimo Costa
Dopo essere stato a lungo un portato fondamentale della teorie economiche post-keynesiane,[1] anche la dottrina mainstream ha di recente riconosciuto che le banche commerciali non sono semplici intermediari di moneta già esistente e accumulata (sotto forma di risparmi), ma creano moneta attraverso la loro tradizionale attività di prestito (McLeay et al., 2014), e, più in generale, ogni qualvolta emettano passività in forma di depositi a vista.
Ne abbiamo accennato nel nostro recente intervento su Economia e Politica, con il quale abbiamo proposto l’“Approccio Contabile” alla moneta e di seguito al quale vogliamo qui svilupparne alcune implicazioni attinenti più specificamente alla moneta bancaria.
Depositi e riserve
Se una banca non ha necessità di accrescere il suo indebitamento per potere prestare o vendere depositi, essa deve comunque disporre di sufficienti riserve di moneta legale, contante e depositi presso la banca centrale, rispettivamente per garantire le richieste di prelevamento di contante da parte dei depositanti e per regolare le obbligazioni verso le altre banche che derivano dagli ordini di pagamento scaturenti dalla mobilizzazione dei depositi emessi.
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Sui ricchi: capitalisti senza capitalismo
di Franco Galdini
Pubblichiamo una recensione di Franco Galdini a Sulla ricchezza, il nuovo libro di Flavio Briatore
Con le conseguenze della crisi economica mondiale ancora presenti nella realtà quotidiana di milioni di italiani, non c’è da stupirsi che un libro sul come creare ricchezza e benessere per tutti susciti interesse. A maggior ragione se l’autore è un personaggio ricco, famoso e controverso come l’imprenditore piemontese Flavio Briatore. La ricetta di Briatore è semplice: l’Italia dovrebbe «rilanciare il turismo e farne il traino della propria economia» (pg. 55). In quest’ottica, “il turismo dovrebbe essere la prima grande industria italiana, la turbina dello sviluppo, la forza propulsiva di un’intera generazione di giovani, che avrebbe non soltanto una fonte diretta di guadagno, ma anche una straordinaria occasione di crescita culturale e imprenditoriale grazie al confronto diretto con persone che vivono e operano in un mercato internazionale e globale” (pg. 54-5).
Anche se il turismo di massa può coesistere con l’accoglienza di qualità (pg. 23-7), Briatore preferisce concentrarsi su quest’ultima per il fatto che, a suo avviso, l’Italia si rifiuta di sviluppare questo ramo di crescita importante per un misto di invidia sociale verso i ricchi (pg. 2, 6, 57, 169) e miopia della classe dirigente che non ha «alcuna consapevolezza di quanto il settore del turismo sia importante ai fini dell’economia e del futuro» (pg. 33).
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1917-2017: effetti della guerra, effetti del neoliberismo
di Augusto Illuminati
Il 1917 di Martov fu singolare e ne derivò una lettura minoritaria, complessivamente erronea, ma a tratti acuta e presaga della rivoluzione. Martov (Julij Osipovič Cederbaum, Costantinopoli 1873-Schönberg 1923), dopo essere passato da Odessa a Pietroburgo per sfuggire ai pogrom, si era avvicinati al marxismo e fu arrestato per la prima volta nel 1892, esiliato a Vilna, in Lituania, dove contribuisce alla costituzione del Bund (Unione generale dei lavoratori ebrei). Ritornato a Pietroburgo, fonda insieme a Lenin, l’Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia: nel 1896 vengono entrambi esiliati in Siberia. Contrae la tubercolosi, come la maggior parte dei carcerati di epoca zarista, e non ne guarirà mai. Nel 1898 confluiscono nel riorganizzato Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) e fondano, con Plechanov e Vera Zásulič la rivista «Iskra». Nel 1903 redazione e Posdr si spaccano in due tendenze: Lenin è alla testa di quella maggioritaria (bolscevica), Martov di quella minoritaria (menscevica). Nel 1905 Martov oscilla fra una rivoluzione popolare non compromessa con gli elementi borghesi e la partecipazione a una coalizione con la borghesia liberale (i cadetti). Nel 1914 si oppone alla guerra imperialista, avvicinandosi a Lenin e Trockij e partecipando alle conferenze internazionaliste di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916).
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Poche note preliminari sul programma di Potere al Popolo
di Alessandro Visalli
Come per “Liberi ed Eguali”, il cui programma ho tentato di leggere qualche giorno fa anche per “Potere al Popolo” molti amici si stanno impegnando.
Vale quindi ora la pena di dare uno sguardo al programma anche di questa giovane formazione.
Ma anche in questo caso, come per il precedente, bisogna considerare che non è mai per questo che si sceglie di votare, lo si fa (eventualmente) per il quadro generale. Tuttavia, anche se non è tutto, il programma conta, insieme ad esso contano gli uomini coinvolti nell’impresa e le loro storie. Inoltre ha importanza la meccanica delle organizzazioni che vi sono dietro, ed in particolare ciò conta in un rassemblement come questo. Una lista elettorale (come LeU, del resto) dove si trovano sia Partiti strutturati e con una storia non breve né semplice, come Rifondazione Comunista, sia organizzazioni più o meno liquide della sinistra radicale come Euro-stop (rappresentata dall’ottimo Cremaschi ed al quale aderiscono a sua volta sigle come l’Unione Sindacale di Base, Contropiano, il neonato Partito Comunista Italiano, la Rete dei Comunisti, Militant, e diversi altri), sia diverse reti di centri sociali, e tra queste il promotore ufficiale: L’OPG occupato “Je so pazzo”, una delle più innovative e interessanti realtà di movimento napoletane.
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Soviet: dentro e oltre il “secolo breve”
di Toni Negri
E' stato pubblicato il nuovo fascicolo della South Atlantic Quarterly, vol. 116, n.4 – October! To commemorate the Future – numero curato da Michael Hardt e Sandro Mezzadra e dedicato a riflessioni sul tempo attuale alla luce della Rivoluzione. Dopo l’introduzione dei curatori [qui] e il testo di G. Amendola [qui], pubblichiamo, grazie alla cortese autorizzazione della rivista e dell’editore, il testo di T. Negri. Concluderemo infine le pubblicazioni con il testo di M. Hardt – EN
1. Chiunque affronti il problema della democrazia in termini marxisti – alla ricerca cioè di un potere costituente a misura della classe lavoratrice – si trova di fronte al rapporto storico tra struttura oggettiva del processo economico e dinamica soggettiva della decisione. Quest’ultima non sarà qui interpretata alla maniera della scienza politica classica e cioè come elemento puntuale, drammatico, e evenemenziale di innovazione istituzionale bensì come processo, insieme, di destituzione del vecchio potere ed espressivo di un constituency da parte del soggetto rivoluzionario. Se vogliamo capire come questo processo non si risolve semplicemente in un “momento” – che esso cioè non è un’ “eccezione” ma piuttosto un’ “eccedenza” – possiamo assumere un punto di vista “genealogico”, alla Foucault, meglio un “punto di vista di classe”. Così lo chiamavano gli “operaisti” quando descrivevano, preparavano e costruivano un processo rivoluzionario nella prospettiva della realizzazione di una tendenza, gestita dalle lotte di classe operaia ed interpretata da un soggetto che ne pone in atto l’organizzazione. È d’altronde il metodo de Il Principe – ma il soggetto non è evidentemente lo stesso nell’indagine che sviluppiamo: qui il soggetto è la classe operaia russa nel periodo nel quale si forma nei soviet, si organizza nel partito e sviluppa la sua lotta tra il 1905 e il 1917 – e poi dissolve, nel “secolo breve”, le sue originali istituzioni nella gestione socialista del capitale. Quindi, la prima domanda da porsi è quale fosse la struttura della classe operaia russa, meglio, la composizione che ne ha permesso questo sviluppo.
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L’uso ideologico di Hannah Arendt in funzione adattiva
di Salvatore Bravo
L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria
«E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro cominci a ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
L’idelogia tedesca, 1846.
L’epoca ideologica per antonomasia è proprio l’epoca attuale, nella quale il dicitur mediatico – a tambur battente – ci annuncia che le ideologie sono morte. Da tale postulato si deduce che viviamo nell’epoca dell’oggettivo, la verità è stata svelata e dunque è inutile sporgersi oltre l’orizzonte attuale.
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Effetti del Quantitative easing
di I Diavoli
L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale. Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere. Ma gli effetti del Quantitative easing sono paragonabili a una coltre che ha cristallizzato la volatilità delle piazze borsistiche: oggi, il mondo finanziario vive immobilizzato allo zero termico, in quel glaciale torpore imposto dal pilota automatico delle banche centrali.
* * * *
Riprendiamo qui sui Diavoli la versione estesa di un articolo sulle conseguenze politiche del Quantitative easing europeo, pubblicato da Guido Brera sul «Corriere della Sera» del 19 dicembre 2017.
L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale.
Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere.
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L’Italia nel ciclo politico reazionario
di Alberto De Nicola
Il cosiddetto “ritorno del fascismo” in Italia fa parte di un fenomeno di dimensioni globali. La sua origine va ricercata nella crisi di egemonia del neoliberalismo e nell’impasse dei movimenti sociali. Per contrastare la torsione autoritaria è necessario mettere in discussione alcuni luoghi comuni che animano il dibattito in rete dopo i fatti di Macerata
«La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole»: così scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere discutendo di strategie militari. Negli ultimi mesi, e ancora di più dopo i fatti di Macerata, mentre ci si ritrova di fronte alla stessa amara e realistica constatazione secondo la quale non possiamo sceglierci il terreno di battaglia che vogliamo, ci si chiede in quale “forma di guerra” siamo precipitati.
A pochi giorni dall’attentato fascista e dal surreale dibattito politico-mediatico che ne è scaturito, si rincorrono in rete analisi che sembrano ricondurre la situazione attuale al puro e semplice “sdoganamento” istituzionale e mediatico dei gruppi neofascisti. In altri casi, il consenso riscosso dall’ordine del discorso razzista viene trattato come il disvelamento di una qualche natura inconfessabile degli italiani (e dei poveri) rimasta latente e riemersa ora come conseguenza estrema dell’impoverimento economico prodotto dalla crisi.
Di fronte a queste interpretazioni più o meno implicite, lo spazio disponibile per l’azione politica rimane confinato dentro perimetri stretti: al pur necessario antifascismo militante si finisce per attribuire una valenza “eroica“ nella stessa misura in cui cresce il senso di isolamento e accerchiamento nei confronti della società; a medio termine a sinistra si confida nella formazione di governi di larghe intese in grado di frenare l’avanzata della destra più estrema; sul lungo periodo, si invita alla virtù della pazienza, consapevoli che il peggio deve ancora venire e che solo dopo che sarà arrivato, potremo sperare di rialzarci.
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Di quale esperienza l’Idea di comunismo è il nome?
Roberto Bravi, Giovanni Campailla*
Introduzione
Il termine comunismo detiene, almeno dalla caduta del Muro di Berlino, una certa opacità spettrale. Il «disastro oscuro»1 dei socialismi realizzati e il conseguente trionfo su scala globale del capitalismo neoliberista, hanno infatti relegato il comunismo – la sua tradizione ideologica, le sue pratiche e, non da ultimo, le categorie politiche e filosofiche del marxismo – nel novero dei cadaveri della Storia. Da più di un decennio, però, questa narrazione sembra esser messa in crisi. Marx è tornato sotto l’attenzione di molti studiosi, e non solo. La riflessione accademica fa nuovamente spazio ad argomenti riconducibili, in qualche modo, al concetto di ‘transizione’. Rivolte o movimenti politici alternativi hanno fatto la loro comparsa un po’ ovunque con una fenomenologia spesso simile: cioè cercando, tramite una riscrittura populista o contro-populista della più tradizionale pratica politica di sinistra, di contrastare l’egemonia economico-politica del capitalismo.
Risulta di estremo interesse allora che nel 2009 si sia tenuto a Londra, al Birkbeck Institute of Humanities, un convegno dedicato all’«Idea di comunismo». A questo ne sono seguiti altri, in Europa e nel mondo, i quali, in un modo o nell’altro, hanno rimesso all’ordine del giorno un dibattito sul nome ‘comunismo’. È senz’altro degno ricordare che ciò accada nella cornice di quella che molti analisti hanno definito la più devastante crisi economico-finanziaria attraversata dal capitalismo fin dai tempi della Grande Depressione.
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Potere al Popolo
Intervista a Viola Calofaro*
Premessa. Potere al Popolo è in Italia la vera sinistra alternativa. La sinistra è la volontà di cambio dell’attuale modello sociale. E’ per la liberazione della società e per una pratica politica e sociale che affronti e contesti le classi dominanti e l’imperialismo. In Italia c’è una sinistra sparsa in organizzazioni politiche e movimenti che Potere al Popolo deve unire.
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AFV. Ormai sono anni che si sente parlare di unità della sinistra, con molti tentativi falliti che si sono trasformati in un allontanato dei suoi elettori, cos’è che differenzia Potere al Popolo dalle esperienze precedenti?
I tentativi che si sono ripetuti in questi ultimi anni seguivano ormai lo stesso stanco ritualismo. Si trattava di cartelli elettorali in cui il nostro popolo stentava a intravedere una progettualità che avesse per obiettivo la trasformazione della realtà; li percepiva invece come semplice sommatoria di più organizzazioni con l'obiettivo dichiarato di entrare in Parlamento. Il fallimento della Sinistra Arcobaleno nel 2008 ha costituito un trauma da cui parte della sinistra del paese ha stentato a riprendersi. Di lì, per anni, cè stata una coazione a ripetere. Nomi diversi per tentativi simili. La ricerca del personaggio famoso, per inseguire la personalizzazione della politica, che ha imperato in questo paese negli ultimi ventanni. Le tensioni intorno alle candidature, gli scontri fratricidi.
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Resistere agli appelli elettorali
di Laboratorio "archeologia filosofica"
Un fantasma si aggira per l’Europa e purtroppo questa volta non è il fantasma del proletariato. La sua sagoma sinistra si staglia dietro le parole ed i lessici, fra i discorsi del nostro quotidiano, fra le congiunzioni dei nostri pensieri. E’ il fantasma di un pensiero dominante, quello neoliberale in crisi, e quindi ancor più micidiale che negli anni della globalizzazione. E tuttavia si tratta di un fantasma in carne ed ossa, incarnato da una classe dominante che impone determinate scelte e determinate pratiche governamentali.
Oggi viviamo in un totalitarismo della classe dirigente. Potremmo definire questa élite come classe dirigente economica, ma la posizione predicativa che l’economico assume in questa formula troverebbe poca pregnanza. Si tratta infatti di gestire e dirigere l’esistente non più secondo il piano gerarchico e ordinativo della sovranità statale o sovranazionale, ma del governo delle vite.
E’ una classe che vive dei propri privilegi, di ceto, di reddito, di status ecc., e che domina non solo nel nostro paese, ma in Europa e a ben vedere sul pianeta intero. La definizione di classe dirigente è la più adatta: tramontate le alternative all’orizzonte del possibile, (l’orizzonte degli eventi secondo una fisica capitalistica-neoliberale), si tratta semplicemente di gestire l’esistente.
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La Cia e il primato economico cinese
di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli*
Persino la statunitense Central Intelligence Agency, non sospettabile sicuramente di simpatie per la Cina, ha ormai ammesso che il prodotto interno lordo cinese ha superato quello statunitense a partire dal 2015, usando (a modo suo, certo, ossia in modo parziale) il criterio della parità del potere d’acquisto: tale dato di fatto esplosivo emerge con chiarezza dalle interessanti pubblicazioni annuali della CIA, ossia il CIA World Factbook del 2015 e del 2016, con le loro informazioni che riguardano il confronto tra l’economia cinese e quella statunitense, non utilizzando il prodotto interno lordo nominale e puramente monetario ma invece uno strumento analitico più raffinato e soprattutto corrispondente alla realtà contemporanea.
Il criterio della parità del potere d’acquisto (PPA) è stato introdotto dopo il 1945 dagli economisti sotto l’egida delle organizzazioni internazionali, al fine di calcolare e confrontare il prodotto interno lordo delle diverse formazioni statali, tenendo conto della differenza esistente tra il potere d’acquisto reale nelle diverse nazioni e astraendo invece dalle eventuali fluttuazioni nel tasso di cambio.
Quindi il prodotto interno lordo di un paese, attraverso l’utilizzo del PPA, viene di regola convertito in dollari internazionali tenendo conto della diversità nei poteri d’acquisto nazionali, differenziandosi a volte – come nel caso cinese e indiano – in modo molto sensibile dal prodotto interno nominale invece espresso da determinati paesi.[1]
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La rivoluzione in Occidente e la guerra di posizione
Per un nuovo paradigma della rivoluzione oggi e qui
di Raul Mordenti
0. Ringrazio molto gli organizzatori non solo per l’invito ma specialmente per il tema che mi è stato assegnato: “La rivoluzione in Occidente”.
Forse, è ora che ne parliamo e che – soprattutto – ci pensiamo, e ci pensiamo seriamente. Io credo che la fase storica che viviamo, la fase della crisi del capitale globalizzato e, dunque, della fine di ogni possibile tratto egemonico del capitalismo (una fine ben rappresentata dalla persona stessa di Trump) ci spinga, ci costringa ad una simile riflessione sulla rivoluzione, cioè su come l’umanità associata possa fuoruscire dal capitalismo prima che il capitalismo metta in atto la catastrofe globale che porta nel suo seno.
Insomma, non è più il tempo del sensato consiglio che – a quanto si dice – risale a Togliatti: “Alla rivoluzione bisogna pensarci sempre e non bisogna nominarla mai”.
No, ora è il tempo di pensarla e di nominarla, di nominarla per poterla pensare, e viceversa di ripensare concretamente la rivoluzione, fuori dalla nostalgia e dai dogmatismi, per potere tornare a nominarla, fra le masse, facendone la nostra forza (d’altronde – forse non ce ne rendiamo conto abbastanza – è la proposta concreta della rivoluzione la vera e la sola forza dei comunisti).
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Non è lavoro, è sfruttamento
Cristina Morini
Marta Fana, dottore di ricerca presso l’Institut d’Études Politique de SciencesPo a Parigi e giornalista, ha scritto un libro che, giunto alla terza edizione in poche settimane, è diventato occasione per tornare a discutere della condizione del lavoro in Italia. Si intitola Non è lavoro, è sfruttamento con involontario ossimoro, poiché, evidentemente, il lavoro è sempre sfruttamento. Benché infatti abbia fondato la possibilità per gli individui di uscire da relazioni di servitù e la possibilità di “esistere per sé stessi”, tuttavia, a partire dall’avvento del sistema di produzione capitalistico, esso è attività comandata (“lavoro comandato,” nell’espressione di Adam Smith), cioè, anche e soprattutto, fonte di ricchezza per altri. Certo, Marx non era arrivato a immaginare un mondo nel quale l’accumulazione sarebbe stata capace di crescere pur evitando di pagare del tutto (o quasi) la “merce” per eccellenza, “la madre di tutte le merci” come l’ha definita Sergio Bologna, cioè esattamente il lavoro. Processo che si sta traducendo in un’esplosione esponenziale della dinamica dello sfruttamento che si scarica sugli esseri viventi e sulle risorse naturali, con creazione di profitti smisurati che non generano alcuno sviluppo per il pianeta e i suoi abitanti ma solo il dilagare della diseguaglianza e della sofferenza.
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