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Il lavoro, quello sconosciuto
di Claudio Gnesutta
Sbilanciamo le elezioni/Al di là dei periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione il progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro in atto nel paese non sembra scuotere la nostra classe politica
Sembrerebbe una questione importante per la politica italiana se si considerano i periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione in cui i pochi decimi percentuali di variazione del tasso di disoccupazione o la crescita di qualche migliaio di occupati a tempo determinato sollevano entusiasmi o scoramenti per l’avvicinarsi o l’allontanarsi del mitico milione di nuovi posti di lavoro dell’era berlusconiana. Eppure, molto più contenute e generiche sono le riflessioni della nostra classe dirigente alle altre numerose indicazioni (anche statistiche) che denunciano il persistente deterioramento che, da lunga data, subisce il “lavoro” – inteso sia come condizione per la sopravvivenza economica, ma anche come strumento di inclusione civile –, processo strettamente legato all’estendersi delle disuguaglianze sociali e all’ampliarsi delle povertà.
Eppure le informazioni al riguardo sono molte, le situazioni deplorate, le implicazioni temute; ma al di là del loro formale riconoscimento, non sembrano scuotere la nostra classe politica. Anzi, il fatto che il tasso di occupazione e quello di disoccupazione stiano recuperando i livelli di dieci anni fa è cantato come il superamento della lunga recessione e qualcuno si azzarda anche a menarne vanto. Ma se un’occupazione retribuita ha senso solo se offre una prospettiva di reddito in grado di garantire nel tempo condizioni di esistenza dignitose, non sono certamente questi dati a confortarci.
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Un percorso nella filosofia politica di Lenin tra classe, partito e Stato
di Marco Riformetti
1. La Rivoluzione
Quello tra Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre è un legame molto profondo:
Se Marx fosse morto senza aver partecipato alla fondazione della Prima Internazionale egli sarebbe sempre Marx. Se Lenin fosse morto senza aver potuto costruire il Partito Bolscevico, senza aver potuto dispiegare la propria guida nella rivoluzione del 1905 e, più tardi, in quella del 1917, senza aver potuto fondare l’Internazionale Comunista, non sarebbe stato Lenin1.
Ma il legame di Lenin con la rivoluzione oltrepassa il crocevia storico e politico dell’Ottobre. Anche quando sembra lontanissima, la rivoluzione è sempre il punto di riferimento costante rispetto al quale Lenin misura ogni scelta
Proprio l’attualità della rivoluzione, che è l’idea fondamentale di Lenin, è anche il punto che lo collega decisivamente a Marx. Poiché il materialismo storico, come espressione concettuale della lotta di liberazione del proletariato, poteva essere afferrato e formulato teoricamente solo in quel determinato momento storico in cui la sua attualità pratica fosse venuta all’ordine del giorno della storia2.
Tutta la riflessione di Lenin è infatti concentrata su un punto apparentemente semplice eppure denso di significato: il compito dei rivoluzionari è ‘fare la rivoluzione’, agire per fare avanzare il processo rivoluzionario. E questo, tanto che la rivoluzione sia ‘all’ordine del giorno’, tanto che la rivoluzione appaia lontana, come spesso era accaduto nei lunghi giorni del confino e dell’esilio.
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Unire le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere al popolo
Un appello
Unire le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere al popolo.
Un appello per il mondo della cultura, dell’arte, della formazione e dell’Università, della comunicazione
L’«Occidente liberale» è la realizzazione o la negazione della democrazia? E l’Italia è ancora un paese democratico? E lo è nella stessa misura in cui lo è stato nei decenni alle nostre spalle e cioè in quel senso avanzato e progressivo che avevano in mente i partigiani nel liberare il paese dall’occupante nazifascista e i Padri costituenti nel sottolineare nella nostra Carta fondamentale la centralità del lavoro e della partecipazione popolare ma anche della pace, dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo, ovvero del principio di eguaglianza sul piano interno e su quello internazionale?
E’ vero: non c’è forse paese nel quale si vada così spesso a votare.
Tuttavia, la crescita esponenziale dell’astensionismo - sistematicamente sollecitato dall’ideologia dominante e dalle principali forze politiche sulla scorta del modello anglosassone e giunto ormai a livelli tali da rendere illegittimo ogni risultato elettorale -, si configura come il sintomo della de-emancipazione di fatto di milioni di persone e cioè come una revoca sostanziale di un suffragio universale divenuto, nella pratica, inutile.
Chi votiamo, oltretutto, quando andiamo alle urne? Abbiamo veramente quella libertà di scelta che l’ampiezza apparente dell’offerta lascia presagire?
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Prefazione a Schiavitù del terzo millennio
di Dante Lepore
Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, ©Associazione Culturale PonSinMor, www.ponsinmor.info, Gassino Torinese, pp. 400, Offerta minima € 15, e-mail: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Prefazione
Questo saggio fu motivato da una polemica, sorta oltre due anni fa, tra militanti già impegnati in attività sindacale e politica, in occasione della stesura di un documento orientato a favorire un movimento per la rivendicazione del salario garantito, che ne distinguesse i fondamenti marxisti rispetto ai vari propugnatori del «reddito universale di cittadinanza» (da UniNomade , Fumagalli ed altri, fino al movimento 5 stelle).
Nell’elaborazione del documento c’erano allusioni alla «schiavitù» da me proposta e intesa come condizione permanente dei lavoratori produttivi in una società divisa in classi, ma che alcuni intervenuti interpretavano come espressioni puramente evocative e «retoriche» non corrispondenti alla condizione giuridica attuale definita più «dignitosa» proprio perché, a loro dire, il lavoro salariato, se inteso e denominato in termini di «schiavitù» salariata, potrebbe risultare soltanto offensivo per gli operai e non portare a risultati auspicabili, possibili e immediati nelle attuali condizioni socio-economiche e politiche. Sarebbe necessario di conseguenza rendere tali condizioni ancora migliori e sempre più avanzate nella direzione della libertà, concepita come il lato opposto del male assoluto, la schiavitù.
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Per un superamento del superamento del Fiscal Compact
di Marcello Spanò
E’ circolato, a fine anno 2017, un appello sottoscritto da diversi economisti, italiani e non solo, favorevole a un superamento del Fiscal Compact, contrario a un suo “rafforzamento istituzionale”, preoccupato per il rischio di implosione dell’Unione Europea che una riconferma del patto fiscale, ormai scaduto, comporterebbe. Tra gli economisti firmatari figurano anche nomi importanti per il loro contributo alla critica della teoria economica mainstream. Per quanto sia apprezzabile una posizione critica, ed altrettanto apprezzabile il tentativo di mettere in agenda una discussione sul Fiscal Compact che, colpevolmente, non sembra appassionare i nostri media, devo tuttavia confessare che il contenuto dell’appello mi lascia molto perplesso. Noto una sproporzione ingiustificabile tra i principi generali di allarme e denuncia che si leggono in apertura e in chiusura dell’appello, e le concrete proposte di riforma, che mi suonano invece timide, non risolutive e anche incoerenti con lo stesso desiderio di un superamento del patto fiscale che ha inutilmente soffocato le economie e peggiorato le condizioni materiali dell’esistenza di gran parte della popolazione dei paesi che l’hanno sottoscritto. La biografia scientifica di alcuni firmatari, su cui nutro anche profondo rispetto personale e professionale, mi lasciano ancora più sorpreso. Come cantava De André, “voi avevate voci potenti….”; ebbene, perchè usare quelle voci per bisbigliare, e per promuovere proposte che qualunque economista consensuale e dottrinario potrebbe sottoscrivere, e niente di più?
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L'Italia tra promesse elettorali e rischio fallimento
L'intesa “europeista” tra Berlino e Parigi non ci salverà
di Enrico Grazzini
Le strabilianti promesse miliardarie di meno tasse e più welfare fatte dai partiti italiani in vista delle elezioni sono poco più di aria fritta perché toccherà a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte decidere sui nostri conti. Sono infatti le istituzioni europee e la grande finanza a decidere del destino dei cittadini italiani, mentre le elezioni nazionali e la nostra democrazia parlamentare ormai contano poco. Il problema è che l'Italia è il ventre molle dell'eurozona, in particolare per il suo elevato debito pubblico, e nessuno ci farà degli sconti: l'Unione Europea, e il governo tedesco che comanda la UE germanizzata, ci imporranno sicuramente ancora austerità e sacrifici. La nuova grande speranza dei nostri politici, propagandata dalla fanfara dei media dominanti, è che il nuovo governo tedesco popolar socialista di Merkel-Schulz in via di costituzione accetti la proposta di alleanza “europeista” fatta da Emmanuel Macron e che l'intesa annunciata tra Berlino e Parigi per il rilancio dell'integrazione europea aiuti il nostro paese a ottenere più flessibilità sui conti pubblici, e quindi a uscire dalla crisi. Ma questa è una falsa speranza e una pia illusione. Ai due paesi europei, nostri vicini e concorrenti, può infatti convenire che l'Italia resti nel tunnel della crisi.
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Israele e i miti sionisti
di Joseph Halevi
Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171
La situazione dei palestinesi si aggrava in una forma così accelerata che si può ormai misurare quotidianamente. Il deterioramento viene regolarmente documentato dalle agenzie specializzate delle Nazioni Unite e tuttavia sul piano politico i principali membri dell’ONU permettono la continuazione della finzione che l’occupazione israeliana sia temporanea e cesserà quando verrà firmato un accordo di pace. Israele non è però un custode temporaneo, ad interim, della Cisgiordania e di Gerusalemme orientale, nonché di Gaza. Come osserva Ilan Pappé nel capitolo su Gaza, il nono, del suo ultimo libro, non bisogna quindi farsi confondere dal ‘ritiro’ voluto nel 2005 da Ariel Sharon deciso piuttosto a metterla sotto assedio. Per l’ONU Israele rimane formalmente il paese occupante della Striscia. Dal 1967 il governo di Tel Aviv tratta i territori della Cisgiordania e del Golan – quest’ ultimo illegalmente annesso nel 1981 – come zone di popolamento coloniale rimaneggiando ed espellendo gli abitanti dalle aree scelte per gli insediamenti, distruggendone le case e limitandone gli spostamenti, costruendo strade per soli ebrei. Il punto è che l’occupazione in corso dal 1967 non è mai stata considerata come temporanea da parte dei vari governi israeliani. Essa si presenta come la continuazione della pulizia etnica condotta in maniera massiccia dal dicembre del 1947 fino al 1949 con prolungamenti fino agli inizi degli anni ’50 quando gli abitanti di Majdal, ribattezzata Ashkelon, furono messi su dei camion e scaricati oltre il confine della striscia di Gaza.
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Potere al Popolo
Maurizio Zaffarano intervista Viola Calofaro
Ciao Viola anzitutto grazie per la tua disponibilità a questa intervista. Prima domanda: chi è Viola Carofalo? In breve puoi descrivere la tua storia personale e politica? Sarai candidata?
La mia storia politica e personale non è molto diversa da quella di tutti i militanti e gli attivisti di Potere al popolo: non ho un lavoro stabile; nello specifico sono ricercatrice precaria in filosofia all'università; ho militato per anni nei collettivi universitari, nelle occupazioni di spazi da dedicare alle attività sociali in città a fianco dei disoccupati, dei lavoratori e degli immigrati, e ho sempre partecipato ai cosiddetti movimenti “antagonisti”, che avevano come scopo quello di costruire e di proporre un’alternativa a quei cambiamenti della società, che si sono avverati negli ultimi vent'anni.
Per quanto riguarda la candidatura: no, non sarò candidata. Abbiamo dovuto scegliere un capo politico perché questa legge elettorale ce lo ha imposto; la scelta è caduta su di me, e ne sono felice; ma proprio per scardinare la logica personalistica delle elezioni politiche, abbiamo ritenuto opportuno che il capo politico non fosse anche candidato.
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Ti ricordi?
A cent’anni dall’Ottobre russo: la questione dell’internazionalismo
Il Lato Cattivo
C'è chi immagina che l'esperienza storica dell'Ottobre 1917 sia ancora e sempre pregna di mirabolanti lezioni da impartire al presente, in primis riguardo alla «necessità del partito»... o della democrazia nel partito... o della non-democrazia nel partito (non ebbe forse ragione Lenin, solo contro tutti, sostenendo le Tesi di Aprile?); o, all'opposto, riguardo alle ragioni per cui la forma-partito o l'idea comunista tout court debbano necessariamente tramutarsi in un nuovo dominio... Insomma, ce n'è per tutti i gusti. Potendo disporre di una macchina del tempo, sarebbe interessante spedire tutti questi cultori della Historia Magistra Vitae proprio nella Russia del 1917, per vedere allora quanto poco il senno di poi sarebbe loro di conforto. Alcuni di costoro si scannano ancora per sapere esattamente in quale anno-mese-giorno le cose hanno cominciato a buttar male per la rivoluzione. Nel '21 (NEP)? Nel '24 (morte di Lenin)? Nel... (compilare a piacere, ndr)? Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là. Poi arriva il solito anarchico impolverato, con l'aria di quello a cui non la si dà a bere: «...e Kronstadt???». Ecco un piccolo campionario dei temi e dei dibattiti che non appaiono in questo breve testo, se non per l'unico uso che oggi se ne può fare: lo scherzo.
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Rifugiati, migranti e mercato del lavoro nell’Unione Europea. Alcune note
di Devi Sacchetto
Queste note analizzano alcuni aspetti della relazione tra il mercato del lavoro, i migranti e i rifugiati nell’Unione Europea, tenendo conto dei recenti flussi migratori provenienti non solo dall’Asia e dall’Africa, ma anche dall’Ucraina, dove continua un conflitto a bassa intensità. La gestione dei recenti flussi di rifugiati e migranti ha esacerbato la segmentazione del mercato del lavoro dell’UE, rafforzando il processo di degradazione. La politica migratoria e del lavoro dell’UE si basa sulla segmentazione del mercato del lavoro, che genera forti differenze salariali e processi di stigmatizzazione e razzismo. Tuttavia, i migranti e i rifugiati, sostenuti anche da una parte dell’associazionismo di base e da alcuni sindacati, si muovono per contrastare questa tendenza.
Negli ultimi anni i flussi di migranti e rifugiati provenienti dall’Asia e dall’Africa attraverso il Mediterraneo hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica europea. Le immagini degli sbarchi, dei campi e delle persone che camminano attraversando i confini sono diventate familiari, così come la presenza dei rifugiati.
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Lenin e le trappole della politica assoluta
di Giso Amendola*
Ci sono molti modi per mancare il confronto con Lenin al quale il centenario del 1917 vorrebbe chiamarci. Il primo è quello di assorbire Lenin dentro una oziosa linea di continuità con tutta l’esperienza sovietica, e farne l’origine del fallimento del socialismo reale. Strada privilegiata dalla gran parte del pensiero politico liberale: Lenin qui è il nome di un processo storico lineare e necessitato che conduce dal 1917 al 1989, senza alcuna soluzione di continuità. Non è mai mancato, per la verità, alla costruzione di una tale pretesa di omogeneità del corso storico, il contributo di alcuni marxisti, per cui la tragedia segreta del socialismo reale andrebbe fatta risalire direttamente a Lenin, e quindi, dopo il 1989, non resterebbe che produrre un’improbabile cesura antileninista che salvi un ipotetico Marx in purezza da qualsiasi successivo ‘leninismo’.
Del resto, la stessa pretesa continuità, lo stesso riassorbimento del ‘momento Lenin’ all’interno di un unico processo storico necessitato, si riscontra, se solo se ne rovesci il segno, nell’apologetica staliniana, cui si deve l’invenzione di un leninismo inteso esattamente come ricostruzione di un’Origine della rivoluzione del tutto funzionale alla legittimazione dello Stato sovietico come si andrà costituendo in seguito.
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La moneta è capitale o debito di chi la emette?
di Biagio Bossone, Massimo Costa
Come la Banca d’Italia documenta nelle sue informazioni statistiche sul debito pubblico, le monete metalliche, che pure hanno corso legale, sono considerate passività dello Stato che le emette e sono conteggiate ai fini del debito. Analogamente, le banconote emesse dalla banca centrale e, per estensione, le riserve dalla stessa create – che peraltro rappresentano la gran parte della base monetaria di ogni economia contemporanea – costituiscono passività della banca centrale che le emette e sono contabilizzate come debito di quest’ultima nei confronti dei possessori.
Tuttavia, alla luce di una corretta applicazione dei principi di contabilità generale, la configurazione formale della moneta legale come “debito”, ancorché fondata su un indubbio “principio di legalità” (in prima battuta la moneta emessa è debito “perché così dice la legge”), lascia non poco perplessi. Il debito comporta un rapporto obbligatorio tra le parti e, sebbene il nostro codice civile non definisca espressamente l’obbligazione giuridica, l’intera giurisprudenza mondiale considera ancora valida la definizione insuperata del corpus juris giustinianeo:
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Un No-global a tutto tondo
di Antonio Castronovi
Il 20 gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè (qui gli articoli inviati a Comune). Per ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito in Ciao Bruno (Castelvecchi) di Antonio Castronovi
Quelli che sono in alto hanno dichiarato guerra ai popoli. Come resistere, come ricostruire comunità solidali passando “dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla con Bruno Amoroso? La priorità, al tempo della globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e comunità. “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale; come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona…”. Mondializzazione, comunità, bene comune: un viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso
* * * *
“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht, In morte di Lenin).
Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.
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Sulle critiche a Potere al popolo mosse dai compagni di Piattaforma comunista
di Alessandro Bartoloni
Le critiche provenienti da sinistra dimenticano che l’Italia è in una fase non rivoluzionaria e dunque alle elezioni bisogna andare con parole d’ordine radicali ma compatibili col sistema
I compagni di Piattaforma Comunista, sul n. 85 di Gennaio 2018 del loro giornale, Scintilla, trattano di Potere al popolo. A differenza nostra, i marxisti-leninisti de quo, avendo compiuto una scelta astensionistica, si scagliano contro la lista sottolineandone limiti e contraddizioni. Nonostante i toni, la tirata contro questo “minestrone elettoralista” ed il relativo “pasticcio indigeribile di populismo di ‘sinistra’, di mutualismo proudhoniano, di riformismo di destra, e dell'idea di un ‘controllo e vigilanza popolare dal basso’ dei territori della Repubblica e degli organismi e istituzioni borghesi che vi sorgono”, sembra basata più che altro sulla diversa analisi della fase nella quale ci troviamo.
Sul programma di Potere al popolo, infatti, si legge che “Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario. Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo, che noi abbiamo chiamato controllo popolare”. Abbiamo dunque un obiettivo strategico, il riconoscimento della necessità di tappe intermedie e un metodo.
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Missione compiuta
di Giancarlo Scarpari
Che il Pd abbia cambiato natura e che negli ultimi anni sia diventato il partito di Renzi non è il solo Diamanti a ripeterlo da tempo (e molti altri con lui); passo dopo passo, incoraggiata da una crescente pressione mediatica, la mutazione si è alla fine realizzata e il risultato è ormai sotto gli occhi di tutti.
Di questo esito si è molto parlato e si parla, poca attenzione è stata invece dedicata ai fatti e alle ragioni che l’hanno determinato.
Sì, certo: l’unificazione tra Ds e Margherita era stata una «fusione fredda», tanto che i due apparati di partito erano rimasti in realtà separati (e la Margherita si era sciolta solo nel 2012, dopo che Lusi si era “appropriato” della cassa del gruppo). Ma nel 2007 la musica era diversa e il racconto celebrava invece il tentativo virtuoso di far convivere la tradizione socialdemocratica dei Ds (sufficientemente omogenei attorno ai loro dirigenti) e il solidarismo di varie componenti cattoliche (abbastanza variegate tra loro e pure affiancate da alcune frange laiche).
Le elezioni politiche del 2006 (17,5% per i Ds e 10,7% per la Margherita) avevano indicato i rispettivi rapporti di forza; le primarie del nuovo Pd avevano poi consacrato Veltroni col 75% e relegato Rosy Bindi al 12,93% ed Enrico Letta all’11,2%, evidenziando la natura di partito organizzato dei Ds e quella di movimento e di cordate sparse propria della Margherita.
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L’eredità rimossa del ‘77 Operaio
di Gianni Rinaldini*
A quarantanni di distanza, le diverse iniziative e pubblicazioni che si riferiscono al '77, lo propongono prevalentemente come l'anno dei movimenti e del diffondersi della violenza armata organizzata e degli atti terroristici.
Scompare in questo modo il '77 operaio cioè la straordinaria presenza in campo della soggettività degli operai che dalla fine degli anni sessanta, ha rappresentato la vera novità, nei modi, nei contenuti e nelle forme per la trasformazione democratica della società.
Mi riferisco alla vertenza del gruppo Fiat, che allora coinvolgeva circa 200.000 tra lavoratori e lavoratrici, che dopo 100 ore di sciopero, si concluse nel mese di luglio con un grande successo e allo sciopero generale dei metalmeccanici promosso dalla Flm con manifestazione a Roma il 2 dicembre '77, contro le politiche economiche del governo monocolore di Giulio Andreotti, il cosidetto "governo delle astensioni" che si reggeva sul voto di "non sfiducia" del Pci, cioè sull'astensione alla Camera e sull'uscita dall'aula, al Senato.
Tutto ciò non può e non deve essere oscurato o negato nella trasmissione della memoria, perché semplicemente non aiuta a capire che cosa è successo prima, durante e dopo il '77 nella storia sociale politica di questo paese.
Per questo l'iniziativa sul '77 operaio, deve anche essere l'occasione per una riflessione sull'importanza di quella stagione.
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Siria, mission accomplished, o mission impossible?
di Fulvio Grimaldi
E’ da qualche tempo che la Siria è ai margini delle cronache e analisi, salvo che per i fissati, in buona, ma più spesso in malafede, del popolo curdo santo subito. Qualsiasi costo comporti quella santificazione: pulizie etniche, distruzione di integrità nazionali, invasione e occupazione di padrini coloniali, rafforzamento ed espansione di Israele, ulteriori devastazioni, lutti, sangue. Coloro che si sentono dalla parte dell’ennesimo paese che la “comunità internazionale” (Nato, Israele, UE e Usa) sbatte al muro per cibarsi poi dei suoi frammenti, pensano che un’assidua attenzione e un irriducibile sostegno alla causa della Siria unita, laica, sovrana, multiconfessionale e multietnica, antimperialista, antisionista, progressista, non siano poi più tanto urgenti, “visto che si è vinto”. Una vittoria che, però, ad altri rischia di suonare come l’illusorio “mission accomplished” di Bush il Fesso sulla nave USS Abraham Lincoln. Come è noto, al proclama di missione compiuta seguirono, ad oggi, 17 anni di guerre e terrorismo, un genocidio strisciante di cui fanno parte, oltre ai 3 milioni di iracheni, oltre 5mila GIs americani.
Tout va bien, madame la Marquise
In effetti, a un giro d’orizzonte un po’ disinvolto il quadro potrebbe apparire discreto, sicuramente migliore di 6 anni fa, quando USraele, Turchia e principastri del Golfo disseminarono la Siria di terroristi jihadisti, rastrellati in Medioriente, Asia e tra gli immigrati in Europa (che il buonismo d’annata ritiene integrati ed assimilati), addestrati in Turchia e Giordania, riempiti di petrodollari e droghe stimolanti crocefissioni e squartamenti.
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Amazon, le sette sorelle del silicio e gli algoritmi
Il lavoro nel nuovo Millennio
di Luigi Agostini
Più che tanti tomi di Aristotele,
tre modeste invenzioni hanno cambiato la faccia del mondo:
la bussola, la stampa, la polvere da sparo.
Francesco Bacone, 1620
Premessa
La lotta dei lavoratori di Amazon di Piacenza rompe un incantesimo e apre una nuova epoca.
Amazon è una delle sette sorelle del silicio, i signori della Rete; così sono chiamate le nuove multinazionali dell’informatica.
I signori del silicio stanno sostituendo le antiche sette sorelle del petrolio nel dominio del mondo.
La determinazione dei ritmi e delle modalità di lavoro in Amazon, come in tante altre imprese, è affidata ad un algoritmo: l’algoritmo ha assunto anche il ruolo del vecchio Capo cottimo.
Ma l’algoritmo si configura - a differenza del Capo cottimo - come una presenza oggettiva, univoca, neutra. Una potenza astratta, immateriale, cioè il massimo della potenza: una potenza apparentemente assoluta, la potenza del razionale.
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon non è quindi uno sciopero tra i tanti, ma assurge al livello di un atto di ribellione, di un segno che, anche nel nuovo Eden del capitalismo informazionale – mito costruito e sostenuto da una formidabile campagna ideologica, senza badare a spese, il rapporto tra Capitale e Lavoro non ha niente di oggettivo, resta un rapporto di forza, la cui dialettica conflittuale non può essere spenta.
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Teoria e pratica riconsiderate: il ruolo della "teoria critica"
di Chris Cutrone
Perché leggere oggi György Lukács? Soprattutto quando la sua opera più famosa, Storia e coscienza di classe, è così chiaramente espressione del suo specifico momento storico: la rivoluzione mondiale abortita del 1917-1919, cui aveva partecipato, tentando di seguire Vladimir Lenin e Rosa Luxemburg.
Si tratta di lezioni "filosofiche" da imparare o di principi da racimolare dall'opera di Lukács, o c'è piuttosto il pericolo - come ha detto Mike Macnair del Partito Comunista della Gran Bretagna - di un "eccesso teorico" che preclude ogni possibilità politica, rinchiudendo la lotta per il socialismo in minuscole sette autoritarie, e politicamente sterili. fondate su "accordi teorici"?
L'articolo di Mike Macnair: "Lukács: The philosophy trap” [“Lukács: La trappola filosofica”] affronta la questione della relazione fra teoria e pratica nella storia di quel che appare come "Leninismo", esaminando in particolare "Storia e coscienza di classe" (1923) e "Lenin" (1924), ma anche il saggio di Karl Korsch "Marxismo e filosofia" (1923). La questione attiene a quale tipo di generalizzazione teorica della coscienza potrebbe derivare dall'esperienza del bolscevismo (1903-1921).
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Stato, Unione Europea, Democrazia
di Marco Morra*
1. L’Unione Europea e la sovranità popolare
In un recente documento di analisi la Rete dei comunisti sottolineava che «spesso i paesi oggetto delle ripetute aggressioni imperialiste non finiscono del mirino a causa della natura del loro governo o del loro sistema sociale, ma a causa delle loro risorse, della loro posizione o della loro appartenenza alla sfera d’influenza di una potenza concorrente»[1].
Tale è il caso del Donbass, per esempio, un territorio conteso tra gli imperialismi euro-atlantico e russo, con interessi divergenti e belligeranti, e, nondimeno, con una popolazione marcatamente russofila o, almeno, russofona, che rivendica il diritto di poter disporre di sovranità contro l’ingerenza dell’“Occidente” europeo e statunitense nella crisi ucraina che ha portato al governo le attuali classi dirigenti nazionaliste, scioviniste e filo-atlantiche.
La crisi ucraina riproduce, mutatis mutandis, la più classica delle configurazioni del dominio imperialista nella fase dello sviluppo transnazionale del capitalismo: se la tendenza degli Stati imperialisti è all’aggregazione sovranazionale (non senza contraddizioni), per quanto riguarda i paesi subordinati all’imperialismo, o contesi tra opposti interessi imperialistici, «la tendenza è alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, verso un ritorno in chiave moderna e subalterna alle autonomie sub-nazionali e regionali, territoriali ed etnico-religiose»[2].
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Contro il femminismo di regime
di Carlo Formenti
Il recente dibattito interno al femminismo, testimoniato anche dall'Almanacco di Filosofia di “Micromega”, apre uno spazio per la ripresa delle correnti anticapitalistiche del femminismo, aiutandole a ricavarsi un ruolo egemonico nel movimento delle donne e a contenere l’influenza delle correnti “emancipazioniste” e dell’estremismo “genderista”, che funzionano da vie di penetrazione dell’immaginario neoliberista nel movimento
Sull’ultimo numero del 2017, nel suo Almanacco di Filosofia, “MicroMega” ospita la dura polemica che ha opposto, da un lato, lo storico Vojin Saša Vukadinovič e Alice Schwarzer (direttrice di EMMA, rivista storica del femminismo tedesco), dall’altro, la filosofa statunitense Judith Butler e la sociologa tedesca Sabine Hark[i]. Prendendo spunto da letture dissonanti del noto episodio della notte del 31 dicembre 2015, allorché una folla di immigrati musulmani invase il centro di Colonia esercitando molestie sessuali nei confronti delle cittadine tedesche che festeggiavano il capodanno, i due fronti si sono scambiati accuse di razzismo (Butler - Hark contro Vukadinovič - Schwarzer) e di un relativismo culturale giustificatorio, se non complice, nei confronti delle pulsioni maschiliste dell’islamismo (Vukadinovič – Schwarzer contro Butler – Hark). Al netto della virulenza verbale (con insulti reciproci degni di una rissa fra stalinisti e trotskisti), il confronto sollecita una riflessione in merito a ciò che mi pare caratterizzi buona parte del dibattito teorico, tanto nel campo femminista “ortodosso” quanto in quello dei gender studies, vale a dire una sorta di oscillazione fra cattivo universalismo e cattivo relativismo.
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Sulla dialettica
di Eros Barone
Una discussione tra filosofi marxisti sulla dialettica («Rinascita», 1962) e un saggio sullo stesso tema («La Cultura», 2003)
Nel suo insieme, sia per le acquisizioni critico-metodologiche sia per la reinterpretazione complessiva di Marx (in senso umanistico e storicistico) alla luce specialmente della Kritik del 1843, la scuola filosofica di Della Volpe si configurò fra anni ’50 e anni ’60 come un campo teorico autonomo, una sorta di articolata ‘koiné’ capace di esercitare un influsso vasto e profondo sullo schieramento culturale della sinistra italiana, non meno che nella impostazione di concreti problemi di ideologia e di azione politica che interessavano il presente e le prospettive del movimento operaio. La discussione tra filosofi marxisti su «Rinascita» (si badi, una rivista più politica che teorica) tra giugno e novembre del 1962 agì da cartina di tornasole di un travaglio che metteva in gioco non solo questioni di interpretazione teorica e di orientamento culturale, ma soprattutto temi ricchi di scottanti implicazioni politiche, quali il rapporto fra teoria e pratica e, fuor di cifra, lo stesso dibattito sullo sviluppo capitalistico del paese1 e sulla strategia del movimento operaio di fronte alla linea attuata dalle forze dominanti con il varo del centro-sinistra. Per questo aspetto, essa rappresentò un tentativo importante di ricomposizione unitaria della teoria marxista e di superamento delle alternative presenti, ormai da tempo, in essa2.
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Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare?
di Sandro Moiso
Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00
E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.
Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.
Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:
“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
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Sulla dottrina marxista dello Stato
Una nota nel centenario della Rivoluzione d’ottobre
di Massimo Pivetti*
La nota discute criticamente la dottrina marxista dello Stato quale venne sviluppata da Lenin alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre sulla base delle idee principali di Marx ed Engels sulla questione. Si argomenta che questa dottrina, a partire dalla sua tesi centrale di un’incompatibilità tra la nozione di Stato e quella di libertà, non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo
1. Due compiti della sinistra
Fino a una quarantina di anni fa, all’interno del capitalismo industrialmente avanzato, nella sinistra era ancora diffusa la consapevolezza che ciò che poteva indurre i capitalisti e i loro rappresentanti a fare delle concessioni importanti sul terreno economico era solo il timore di perdite maggiori, o addirittura il timore di perdere tutto. In generale, dunque, che i suoi compiti avrebbero dovuto essere sostanzialmente due: riuscire a tenere sempre vivo questo timore; sapere di volta in volta come sfruttarlo, ossia avere chiari i programmi e le misure necessarie a migliorare, attraverso l’intervento dello Stato, le condizioni di vita e di lavoro dei salariati e delle masse popolari – in pratica, le misure necessarie a migliorare il funzionamento stesso del capitalismo. Veniva al riguardo tenuto presente, da un lato, che a fronte di livelli di attività stabilmente elevati, quindi anche di una massa di profitti stabilmente elevata, i capitalisti e i loro rappresentanti avrebbero potuto col tempo abituarsi a considerare come normale un minor saggio di rendimento del capitale, finendo per accettare margini di profitto più contenuti e una minore quota dei redditi da capitale e impresa nel prodotto; dall’altro, che una parte della borghesia, la parte più istruita e socialmente sensibile, avrebbe anch’essa ricavato senso di tranquillità e di benessere da un contesto culturale e sociale non eccessivamente degradato e sufficientemente coeso; quindi, che avrebbe potuto essere indotta a sostenere, piuttosto che a contrastare, misure di riformismo socialdemocratico.
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Voto, non voto. Due posizioni all’interno di Carmilla
di Valerio Evangelisti e Sandro Moiso
Valerio Evangelisti: Io voto (Potere al Popolo)
Forse non sarei nemmeno andato a votare, se non fosse accaduto un fatto che, ai miei occhi, ha del prodigioso. Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza, gli Epifani e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, duecento affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca No Tav, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia e di un dominio antiumani, che solo in nuove guerre e oppressioni trovano slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può.
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