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sbilanciamoci

Il lavoro, quello sconosciuto

di Claudio Gnesutta

Sbilanciamo le elezioni/Al di là dei periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione il progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro in atto nel paese non sembra scuotere la nostra classe politica

Bansky murales coperto06Sembrerebbe una questione importante per la politica italiana se si considerano i periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione in cui i pochi decimi percentuali di variazione del tasso di disoccupazione o la crescita di qualche migliaio di occupati a tempo determinato sollevano entusiasmi o scoramenti per l’avvicinarsi o l’allontanarsi del mitico milione di nuovi posti di lavoro dell’era berlusconiana. Eppure, molto più contenute e generiche sono le riflessioni della nostra classe dirigente alle altre numerose indicazioni (anche statistiche) che denunciano il persistente deterioramento che, da lunga data, subisce il “lavoro” – inteso sia come condizione per la sopravvivenza economica, ma anche come strumento di inclusione civile –, processo strettamente legato all’estendersi delle disuguaglianze sociali e all’ampliarsi delle povertà.

Eppure le informazioni al riguardo sono molte, le situazioni deplorate, le implicazioni temute; ma al di là del loro formale riconoscimento, non sembrano scuotere la nostra classe politica. Anzi, il fatto che il tasso di occupazione e quello di disoccupazione stiano recuperando i livelli di dieci anni fa è cantato come il superamento della lunga recessione e qualcuno si azzarda anche a menarne vanto. Ma se un’occupazione retribuita ha senso solo se offre una prospettiva di reddito in grado di garantire nel tempo condizioni di esistenza dignitose, non sono certamente questi dati a confortarci.

Si pensi solo che in Italia gli occupati sono attualmente 23 milioni (quanti dieci anni fa) e il tasso di occupazione il 58% (la media europea è poco inferiore al 65%) che è un po’ poco per sostenere dignitosamente una popolazione di 60 milioni di persone. Anche perché nei cosiddetti “occupati” sono comprese persone che, nella settimana, hanno avuto un lavoro di poche ore; che più di 4 milioni lavorano – volontariamente o meno – meno di 25 ore settimanali; che in questi dieci anni gli occupati a tempo pieno si sono ridotti di 1,4 milioni, solo parzialmente compensati dal milione in più di quelli a tempo parziale; che nello stesso decennio il monte ore lavorato si è ridotto del 5% a parità di occupati. Sono dati che non solo riflettono l’incapacità del sistema di fornire posti di lavoro, ma sono indicativi di un processo di precarizzazione che la flessibilizzazione del lavoro regolamentata dal Job Acts non ha intaccato: la ripresa sussidiata dell’occupazione di questi tre ultimi anni ha riguardato prevalentemente le posizioni a tempo determinato, essenzialmente nei servizi.

Ma quello che dovrebbe ancor più preoccupare è che la questione del lavoro si intreccia con una pluralità di altre questioni di non piccolo conto. È noto che le opportunità di lavoro non si distribuiscono uniformemente nel Paese, in termini né geografici, né di genere, nè di età. Nel loro vario combinarsi si tratta di disuguaglianze che accentuano le discriminazioni fra fasce sociali forti e deboli: meno di 10 milioni sono le donne occupate (nel Mezzogiorno il tasso di occupazione supera il 30%); 5 milioni i giovani (15-34 anni), il cui tasso di occupazione, superiore al 40%, è una media tra il 47% degli uomini e il 35% delle donne; nelle regioni meridionali i dati sono ancora più drammatici. Tutte le statistiche confermano la sensazione diffusa che le possibilità di lavoro sono insufficienti, distribuite in maniera disuguale e – tassello finale – gravemente insufficienti in termini di reddito per i settori più deboli della società. Dal 2008 si registra una riduzione drastica dell’occupazione a reddito medio mentre aumenta quella ad alto reddito; la corrispondente sensibile espansione dell’occupazione a basso reddito si è tradotta nella crescita di una fascia di “lavoratori poveri” con contratti a intermittenza insufficienti a fornire un reddito adeguato alla sussistenza: oltre 2 milioni tra i dipendenti e 800 mila tra gli autonomi. In sostanza, non solo mancano le opportunità di lavoro, ma quelle esistenti sono sempre meno remunerative: la lunga crisi, o meglio le soluzioni adottate per superarla, hanno prodotto una profonda trasformazione dei rapporti sociali.

Nonostante questo quadro generale, si è visto che nella polemica politica è sufficiente che il tasso di disoccupazione si riduca di qualche decimale per sostenere che ormai il problema del lavoro è in via di soluzione. Ma quei decimali si riferiscono a un tasso di disoccupazione dell’11% (era circa il 7% dieci anni fa), il che significa 3 milioni di persone (1 milione in più del 2008) che cercano con insistenza un lavoro anche di poche ore senza trovarlo; poiché valgono le stesse discriminazioni di territorio, di genere, di età appena ricordate c’è poco da essere ottimisti. Ma il quadro non è ancora completo; si deve considerare anche l’esistenza di 3 milioni di cittadini che non rientrano nelle statistiche né degli occupati, né dei disoccupati: sono gli “inattivi”, ovvero coloro che, scoraggiati, non cercano lavoro perché non ritengono che ce ne sia per loro (tra essi è compresa anche la generazione Neet, i giovani non occupati e non in formazione). Una forza lavoro potenziale che sta ai margini della società e che, sommata ai disoccupati, rappresenta una massa di oltre 6 milioni di persone. Se poi ad essi si aggiungono i lavoratori poveri (ricomprendendo in essi i lavoratori e le lavoratrici a part-time involontario), si ottiene una massa di non meno di 8 milioni di persone che avrebbero bisogno di un’occupazione decente per contare su una vita soddisfacente. La questione-lavoro sta socialmente in questa cifra; la questione-lavoro sta politicamente nell’assenza di un’idea di soluzione adeguata alla dimensione e ai tempi del problema.

Che la soluzione sia tutt’altro che semplice è un’affermazione ovvia. Ma non avere un’idea del problema, di definirlo e di studiare come affrontarlo sembra politicamente criminoso poiché, per inettitudine nei confronti dei processi, economico e politico, attualmente dominanti, lascia deteriorare una situazione che è socialmente esplosiva. Due sole considerazioni.

Si consideri che la ripresa della produzione, in particolare di quella manifatturiera negli ultimi tempi non è stata accompagnata da una crescita dei dipendenti della stessa intensità; in altre parole, la crescita produttiva è strutturalmente risparmiatrice di lavoro, anche in un periodo in cui gli investimenti in macchinari e attrezzature sono rimasti al palo. È prevedibile pertanto che, a maggior ragione, il contenuto di lavoro risulterà tanto più ridotto quanto più, riprendendo vigore la produzione, le tecnologie dell’Industria 4.0 trascineranno l’aumento della produttività del lavoro. Se fosse così, e ferma rimanendo l’inazione pubblica, occorrerebbe una decina di anni di crescita della produzione al 2%. per ritornare al tasso di disoccupazione della situazione pre-crisi (2 milioni di disoccupati). Affidarsi alla sola “crescita” (della produzione di mercato) non è sufficiente per la crescita dell’occupazione.

D’altra parte non è possibile attendersi, nell’attuale contesto istituzionale (europeo), una maggiore dinamica produttiva poiché, come noto, le regole europee ci inchiodano a un tasso di crescita contenuto, per il pericolo che debordare dall’attuale tasso di disoccupazione rilanci l’inflazione dei salari e dei prezzi: i 3 milioni di disoccupati (e gli 8 milioni di varia inattività) sono oggi, e per molto tempo ancora, le vittime sacrificali per la stabilità monetaria. Eppure i dati ci dicono che la situazione che viviamo non è di inflazione, ma di deflazione dei prezzi (siamo al di sotto del minimo del 2%). Eppure la regola imposta dalla Commissione Europea come barriera all’espansione della domanda non è per nulla “naturale”, è contestabile sia in teoria che nella sua costruzione econometrica. Per non andare molto lontano, nello stesso Programma di stabilità del nostro Governo si argomenta come quell’indice utilizzato a livello europeo sottovaluti la nostra capacità produttiva e quindi le nostre capacità di spesa imponendo una restrizione che è stata ed è causa non secondaria della lunga deflazione che ha depresso e deprime l’occupazione e la società. D’altra parte, la possibilità-necessità di sostenere la domanda con spesa pubblica in disavanzo – a sollecitazione e in attesa che ripartano gli investimenti privati – è confermata dalla crescita negli ultimi cinque anni del saldo commerciale con l’estero, segno inequivoco che l’insufficiente domanda interna spinge le imprese a espandersi sui mercati esteri, per il cui risultato si rende necessario la compressione delle condizioni di lavoro interne.

 

Che Fare?

In questa situazione non c’è niente di “naturale”; è il frutto, più o meno consapevole, di una visione per la quale il lavoro è l’effetto e non l’obiettivo della politica economica, una visione che fa dipendere le opportunità di lavoro a una crescita economica che ridimensiona strutturalmente impieghi e salari. Non è infatti casuale che il tema dell’occupazione sia intrecciato a quello delle disuguaglianze, di reddito e di opportunità civili, e in definitiva a quello della povertà.

Dai tempi del Jobs Act si è peraltro sviluppata una riflessione su come, da sinistra, la società possa intervenire per garantire ai propri cittadini l’opportunità di un’occupazione (sia essa dipendente o indipendente) e comunque di un reddito che assicuri loro un’esistenza dignitosa. In questa direzione, Sbilanciamoci! ha contribuito – con il suo Workers Act del 2015[1] – a una discussione su una possibile politica per il lavoro articolata su tre direttrici: attivazione di lavori concreti, riduzione degli orari di lavoro, un reddito universalistico.

  • La finalità prima è di intaccare la richiesta inevasa di lavoro – non solo quella degli attuali disoccupati, ma della più ampia platea degli inoccupati – attraverso la predisposizione di opportuni “piani del lavoro” da parte dello Stato. Il rilancio del ruolo dell’ente pubblico come occupatore di ultima istanza, gli permetterebbe non solo di svolgere più pienamente (e efficientemente) le sue attività istituzionali, ma offrirebbe una reale occupazione a chi è disposto alle condizioni stabilite, pur “minime”, a partecipare alla realizzazione di obiettivi concreti e da esso organizzati responsabilmente. In effetti, fornire un’opportunità di occupazione non vuol dire essere indifferenti su cosa si deve fare con quella occupazione. In una realtà caratterizzata da “troppe merci e poco lavoro” esiste un ampio spazio per realizzare quella gamma di beni e servizi – volti a soddisfare bisogni sociali, creare infrastrutture comunitarie, garantire i beni comuni – che il mercato non prende in considerazione. La gestione di tali attività – organizzate all’interno del settore pubblico o attraverso altre organizzazioni (imprese sociali, cooperative, volontariato) – richiede peraltro un impegno che impone certamente un adeguamento delle strutture amministrative e del personale dello Stato.

Ma la creazione diretta di lavoro non è uno strumento sufficiente per risolvere la questione occupazionale quando si convive con una tendenziale riduzione del tempo necessario per produrre un’unità di merce.

  • Una politica di riduzione dell’orario medio di lavoro diviene un ingrediente essenziale per espandere le persone occupate e, opportunamente regolamentato, per contenere le situazioni di precarietà che sono proliferate con l’attuale ordinamento del mercato del lavoro. La riduzione degli orari e la redistribuzione del lavoro permette di distribuire socialmente i guadagni di produttività derivanti dal progresso tecnologico e quindi deve avere carattere redistributivo. A questo riguardo, non va trascurato che la questione della riduzione dell’orario di lavoro si è sempre scontrata con la questione del costo del lavoro nel caso avvenisse a “parità di salario”. Una politica degli orari non va intesa necessariamente come una riduzione generalizzata, ma, piuttosto, con l’introduzione di forme di flessibilità contrattuale sostenute da un’imposizione fiscale e previdenziale alleggerita sensibilmente sui contratti di lavoro a tempo più ridotto e accentuata su quelli a tempo prolungato. Il sussidio fiscale dei contratti di lavoro a tempo più ridotto dovrebbe essere tale da garantire un salario individuale superiore a quello delle attuali condizioni precarie e, nel contempo, ridurre il costo del lavoro alle imprese. Perché l’intera strategia funzioni, il sussidio deve essere previsto in via generalizzata (per far beneficiare anche la fascia più debole del lavoro autonomo) e non deve essere condizionato dal rifiuto delle opportunità offerte (non essere workfare).
  • E qui si innesta il terzo punto, ossia la necessità di disporre di un sistema del welfare strutturato intorno a un reddito minimo, universale e incondizionato, non riconducibile a specifiche situazioni individuali (disoccupazione, povertà ecc.), ma quale diritto del singolo a poter contare su un livello minimo di sicurezza economica nel tempo. Per questa ragione il salario pubblico offerto dal datore di ultima istanza, il sussidio per l’orario ridotto, il reddito di cittadinanza dovrebbero essere definiti in modo da costituire la norma sociale che definisce il livello minimo garantito di sussistenza. Il fatto di renderla indipendente dalla condizione lavorativa permette di unificare le varie figure sociali ora frammentate nelle diverse condizione di lavoro e di non-lavoro prodotte dal meccanismo di mercato e, assumendo essa la natura di salario di riserva definito socialmente, rafforzerebbe la contrattazione dei lavoratori e contrasterebbe la compressione salariale derivante dall’eccesso strutturale dell’offerta di lavoro.

Porsi l’obiettivo e definire la strategia. L’urgenza di una politica per il lavoro è evidente dato che le attuali forme di sostegno del lavoro e del reddito del nostro Paese sono del tutto insufficienti per una prospettiva in cui si accentueranno le richieste di tutela dalle fasce sociali in permanente difficoltà (disoccupati, adulti espulsi dal mercato del lavoro, lavoratori precari, pensionati a basso reddito, giovani in cerca di lavoro e così via). Le condizioni di fragilità hanno radici nei caratteri strutturali della stessa crescita economica condizionata da processi di delocalizzazione orientati dalla concorrenza su bassi salari, da un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro, dal contenimento della capacità redistributiva dello Stato.

Una strategia di intervento articolata nell’offerta diretta di occupazione, nel ridimensionamento dell’orario medio di lavoro, nella costruzione di un’organica struttura di garanzie minime di reddito appare essere l’unica in grado di impedire che il contenuto recessivo delle politiche europee determini un deterioramento irreparabile del capitale umano e sociale nazionale e, quindi, delle condizioni di vita di un’ampia fascia della popolazione. Una tale strategia, per quanto essenzialmente di pertinenza della politica interna, deve trovare sostegno a un livello più ampio poiché la rivendicazione di una norma salariale – e di una connessa norma di welfare di protezione sociale – dovrebbe essere un elemento centrale del modello di riferimento europeo. Non ci si può però nascondere che è una linea di politica sociale che si pone in netta contrapposizione con quella dell’attuale politica produttiva europea – e dei governi che la condividono – ma che deve essere rivendicata con forza per non subordinare pervicacemente le condizioni di uguaglianza, sicurezza e solidarietà sociale al mero rafforzamento produttivo.


Note
[1] Workers Act

Comments

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Eros Barone
Friday, 02 February 2018 00:39
Paul Lafargue, il genero di Marx, ha scritto "Il diritto all'ozio", testo che espone e sviluppa la dottrina marxista della liberazione dal lavoro astratto e alienato. Inoltre, nella concezione marxista della società comunista è centrale la formazione dell''uomo onnilaterale'. Sennonché questa formazione non può avvenire nelle strutture economico-sociali capitalistiche, che vanno rivoluzionate se il fine è quello di realizzare una società senza classi. Come sempre, negli schemi di ragionamento utopistici e infantili il momento della mediazione è assente. In realtà, la rivendicazione del reddito di cittadinanza è dovuta (non alla puerilità dei suoi assertori ma) alla funzione che deve svolgere nella nostra società in questa specifica congiuntura critica caratterizzata dalla sovrapproduzione di lavoro astratto, dall'elevamento della composizione organica del capitale e dalla caduta tendenziale del saggio medio di profitto. In altri termini, il reddito di cittadinanza porta a compimento il processo di precarizzazione del lavoro e di contenimento dei salari, eliminando lo Stato sociale legato alla funzione lavorativa e sostituendolo con misure caritatevoli a favore dei "cittadini". Come giustamente rileva Mario Galati, si tratta di misure che gravano sulla fiscalità generale (ovvero sulle tasse pagate dai lavoratori). In tal modo, i lavoratori precari assistiti allenteranno la loro conflittualità, per la gioia delle imprese. E, sempre per la gioia delle imprese, i costi dell'assistenza graveranno sulla fiscalità generale, ossia in larga parte sui lavoratori. Non per nulla la misura "rivoluzionaria" che viene proposta non trova l'opposizione pregiudiziale dei padroni. I precedenti storici significativi di questi provvedimenti risalgono alla legge elisabettiana (la "Poor Law" del 1601) e allo Speenhamland Law" o "sistema dei sussidi", introdotto in Gran Bretagna nel 1795. Quest'ultimo stabiliva sussidi da aggiungere ai salari secondo una scala dipendente dal prezzo del pane, in modo da assicurare un reddito minimo ai poveri indipendente dai loro guadagni. Con la legge elisabettiana (la "Poor Law" del 1601), invece, i poveri erano costretti a lavorare per qualunque salario essi potessero ottenere e soltanto coloro che non potevano ottenere lavoro avevano diritto al sussidio. Con la "Speenhamland Law" un individuo veniva aiutato anche se aveva un lavoro fintantoché il suo salario ammontava a meno del reddito familiare che gli era stato assegnato dalla scala. Nessun lavoratore aveva quindi alcun interesse materiale nel soddisfare il suo datore di lavoro, il suo reddito essendo lo stesso qualunque fosse il salario che egli guadagnava. La conseguenza fu che nel giro di pochi anni la produttività del lavoro cominciò a sprofondare al livello del lavoro degli indigenti fornendo agli imprenditori un'altra ragione per non aumentare i salari al di sopra della scala. Quando si tratta di attaccare il salario sociale (= salario diretto e indiretto), le classi sfruttatrici, fatte salve le contraddizioni insanabili cui prima o poi vanno incontro, dimostrano di avere una memoria storica infallibile.
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Mario Galati
Monday, 29 January 2018 20:34
Ma fare i soliti sconti fiscali ai padroni per ridurre l'orario di lavoro (minori entrate fiscali=minore salario indiretto dai servizi pubblici) e prendere in carico sulla fiscalità generale i disoccupati (con il reddito di cittadinanza), esonerando i datori di lavoro, non è contraddittorio?
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