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Gli interventi umanitari: la dottrina dell'imperialismo
di Petar Djolic*
"L'inferno è colmo di buone speranze
e desideri" (S. Bernardo di Clairvaux).
Definire il concetto di intervento umanitario è problematico e, quindi, l'implementazione della sua concettualizzazione è controversa. Da una parte, l'intervento umanitario è di regola inteso come un'azione di ultima spiaggia presa da uno stato o da un gruppo di stati per alleviare o far terminare palesi violazioni dei diritti umani per conto ed in favore di cittadini di una minoranza etnica dello stato-bersaglio, attraverso l'uso della forza militare. Dall'altra parte, l'intervento umanitario è percepito come una delle più sottili e nascoste forme di esercizio del potere nei sistemi geopolitici contemporanei. Vale a dire che le strutture ideologiche che provvedono a dare e sostenere la legittimazione per un più aperto e dichiarato esercizio del potere politico ed economico sono manifestate attraverso la retorica dell'interventismo umanitario.
Conseguentemente, il fenomeno dell'intervento umanitario è stato uno degli argomenti più controversi nel diritto internazionale, nella scienza politica e nella filosofia morale. Tuttavia, esaminando l'evoluzione del concetto, si può concludere che le motivazioni per l'intervento umanitario sono moralmente e giuridicamente intollerabili, agendo quest'ultimo come una forza dell'imperialismo liberista.
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Crisi: nella discarica del capitale
di Alessandro Visalli
Ancora alcuni interventi degli esponenti del “Gruppo Krisis”, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, dopo quelli del 2008 e 2012, sulla crisi finanziaria ed il “capitale fittizio”, rispettivamente, che avevamo letto qui.
Del “Gruppo Krisis” abbiamo parlato nel post, citato; dalla fine degli anni ottanta esso è attivo, intorno alla omonima rivista, nello sviluppo della critica marxista, in particolare concentrandosi sulla teoria del valore e del denaro. Questo tema è di tale importanza che conviene tornare su alcuni brevi testi, dei quali due sono antecedenti alla rottura teorica con Robert Kurz (nel 2004), che abbiamo letto in “Le crepe del capitalismo”, e uno è successivo. Nel testo in esame Robert Trenkle si interroga, nel 1998, sul concetto di “valore” nella teoria marxista, e Lohoff, nel 2000, sulla teoria delle crisi. Quindi nel saggio del 2012, che firmano insieme, ridescrive il ciclo della crisi del 2008.
Uno dei punti di differenza nell’analisi è che prima della rottura tra Krisis e Exit la “teoria del valore” del Gruppo è imperniata sul concetto di capitale “fittizio”, in quanto in sostanza anticipazione di valore futuro (il punto è certamente fondato, rintracciandosi anche nelle analisi di scuole molto diverse e distanti, come il keynesismo radicare di Amato e Fantacci e persino il liberismo temperato di Mervyn King), mentre dopo di essa l’analisi del Gruppo Krisis rimanente attenua questo piano di critica, per evidenziare la funzione sistemica della creazione di denaro a partire da una funzionalizzazione del tempo, e quindi in qualche senso riconosce la sua “realtà” (fin che dura la giostra). Viene messa a fuoco quindi la nozione di “merci del secondo ordine”.
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La contestazione del decreto Lorenzin
di Guido Viale
La contestazione del decreto Lorenzin, diventato legge il 28 luglio, sui 12 vaccini (poi “solo” 10) obbligatori per l’ammissione dei bambini ai nidi e alla scuola pubblica ha suscitato un movimento di massa – due manifestazioni nazionali di 40mila persone a Roma, una a Pesaro di 60 mila, un presidio di parecchi giorni davanti al parlamento, decine di cortei e fiaccolate con migliaia di partecipanti in tutta Italia – intorno a cui media e stampa hanno eretto un muro di silenzio, fino a che due calci contro l’auto di tre deputati del PD non hanno permesso loro di gridare alla violenza e al fanatismo (Michele Serra), riempiendo pagine e schermi di editoriali e deprecazioni. Non entro nel merito tecnico della contestazione – non ne ho le competenze – ma alla dimensione sociale e politica di questa vicenda non solo è lecito, ma doveroso prestare attenzione. Partiamo dagli schieramenti in campo.
A sostegno del decreto troviamo in prima linea Beatrice Lorenzin, ministra che non ha fatto niente per la salute degli italiani, ma si è messa in evidenza con la promozione del fertility-day e l’accusa alle popolazioni della Terra dei fuochi, massacrate dai rifiuti, di essere loro la causa dei propri malanni per abuso di alcol e fumo. La ministra ha anche raccontato fandonie, come una epidemia di morbillo a Londra completamente inventata.
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Non chiamatela crisi: è una guerra
di Thomas Fazi
Le post-democrazie odierne sono il risultato di un processo quarantennale di ridimensionamento della sovranità popolare e del movimento operaio che in Europa ha trovato la sua applicazione più radicale
La crisi – economica, politica, sociale e istituzionale – che stanno vivendo le democrazie occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia nel 2008, e neppure nei primi anni duemila, con l’introduzione dell’euro, come recita la vulgata. È una crisi che ha origini molto più lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva dominato le economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Come sappiamo, si trattava di un modello basato su una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda eccetera), un welfare molto sviluppato, politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno in linea con la crescita della produttività) e l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese.
A livello internazionale si basava su un regime di cambi fissi (il cosiddetto “regime di Bretton Woods”) – sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso – e su un ferreo controllo dei movimenti di capitale.
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La città turistica come messinscena*
di Marco d'Eramo
Il turismo uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana
I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.
Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.
In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan.
Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).
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La grande regressione
di Pierluigi Fagan
AA.VV.: La grande regressione, A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017. Riportiamo un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto
Per Arjun Appadurai, la regressione si legge nella nascente insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone una crescente adesione all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base, c’è l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione (ritenuta irreversibile) che depotenzia ogni sovranità nazionale ma i leader autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul più comodo piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento dei tempi lunghi e di una certa sterilità della politica democratica nell’affrontare i problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a soluzioni imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del neoliberismo globale. La ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare fronte per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo bisogno di una moltitudine liberale.”.
Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”.
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Libertà e proprietà
di Giancarlo Scarpari
La parabola del partito tendenzialmente maggioritario, il progetto ideato dal Pd di Veltroni e rilanciato dal Pd di Renzi, sembra effettivamente giunto alla sua logica conclusione.
Per poter decollare aveva avuto bisogno di iniettare nel partito, a uso e consumo soprattutto del nuovo elettorato da attrarre, una robusta iniezione di propaganda “anticomunista”, ricalcata sui modelli berlusconiani e tradottasi nella “rottamazione” di quel che restava della sua tradizione socialdemocratica, nella guerriglia mediatica condotta contro i dirigenti che la rappresentavano e nello scontro frontale praticato nei confronti del lavoro dipendente.
Il balzo del Pd registrato alle europee col 40% dei voti aveva convinto Renzi a proseguire con decisione per il sentiero tracciato.
Col miraggio di sempre nuove vittorie, la maggioranza del partito, messi da parte o archiviati principi e valori “del passato”, ha seguito il comandante e il cerchio magico che lo applaudiva; la minoranza ha subito per mesi le scelte del capo, sempre incerta sul da farsi, mentre sul carro del vincitore, dopo le giravolte e le retromarce del Cavaliere, erano nel frattempo saliti i “diversamente berlusconiani”.
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Gramsci e l’egemonia. Complessità e trasformazione sociale
Alexander Hobel
Qual è, tra gli altri, il fattore forse decisivo della popolarità del pensiero e dell’opera di Gramsci presso un vasto pubblico, che va ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e consente di parlare di una sorta di “ricezione di massa” della sua elaborazione? Qual è insomma “il segreto” della sua “egemonia” - relativa, certo - tra i pensatori politici della contemporaneità?
Certamente l’onda lunga della salvaguardia e valorizzazione del suo contributo teorico, dovuta in primo luogo a Palmiro Togliatti, al Pci, alle sue strutture di ricerca e ai suoi intellettuali, è tuttora alla base di questo successo, costituendo una sorta di rivincita postuma, a 25 anni dalla Bolognina, rispetto alla sciagurata liquidazione di quel grande partito.
Ma il motivo determinante mi pare stia proprio nella natura del pensiero di Gramsci che, più che come teorico della “rivoluzione in Occidente”, può essere definito un teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate. In questo senso la sua elaborazione costituisce davvero una pagina decisiva nell’evoluzione del marxismo; è tutta interna a quella concezione del mondo e della storia, e ne rappresenta - direi al pari del pensiero di Lenin - uno sviluppo fondamentale nel XX secolo.
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Insostenibilità finanziaria delle pensioni: fallacia logica e metafore sbagliate
Enrico Turco e Marcello Spanò
Il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha recentemente dichiarato che mantenere l’età pensionabile a 67 anni, anziché alzarla a 70, come requisito di pensionamento comporterebbe un costo di 141 miliardi che metterebbe a serio rischio i conti dell’ente pubblico. La dichiarazione è da leggere congiuntamente alle proposte in discussione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera di modifica dell’art. 38 della Carta costituzionale in materia di diritto alla pensione. Tra le varie proposte vi è quella firmata dai deputati Pd che precisa che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”.
Siamo dunque tornati a parlare di pensioni, e ne parliamo seguendo l’ormai logora logica dell’austerità, quella che subordina la garanzia dei diritti ad una presunta sostenibilità finanziaria e che, camuffata da una fasulla solidarietà intergenerazionale, si appresta a definire la base ideologica per l’ennesimo giro di vite regressivo del nostro sistema pensionistico.
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Ritornare a Westfalia?
di Sandro Moiso
Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00
Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che pose le basi del diritto internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew Spannaus recentemente edito da Mimesis.
Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato al successo (relativo) dei cosiddetti movimenti populisti al di qua e al di là dell’Atlantico. Con un attenzione particolare, come si deduce dal titolo, alle contraddizioni venutesi a sviluppare in Europa tra governati e governanti.
Per l’autore “L’idea di Westfalia è semplice: «gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due». È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale.”
Proprio dall’abbandono di tale principio governativo ed organizzativo egli fa derivare le attuali tendenze populiste o, come dichiara il titolo stesso, la rivolta degli elettori nei confronti delle élite.
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Ha vinto Lascienza
di Il Pedante
Venerdì 28 luglio è stato approvato alla Camera il «decreto vaccini» che porta il nome del ministro Lorenzin. Come previsto su questo blog, il testo convertito in legge si è ammorbidito nel passaggio parlamentare con la riduzione del numero delle vaccinazioni obbligatorie e delle pene per gli inadempienti. E, come previsto, la sua applicazione si sta già scontrando con difficoltà di diverso ordine che lasciano presagire una situazione di incertezza del diritto ormai tipica di ogni riforma contemporanea: dalla carenza di organici delle aziende sanitarie che non riusciranno a vaccinare tutti gli obbligati nei tempi previsti, agli oneri burocratici a carico delle scuole, nelle cui aule non si raggiungerà comunque l'«immunità di gregge» non essendo vaccinati i docenti e il personale, né potendoli vaccinare per mancanza di fondi.
A ciò si aggiungono le più gravi opposizioni dei governi regionali, cioè di coloro che dovrebbero mettere in pratica la legge. Per toccarla piano, l'assessore all'Istruzione della Valle d'Aosta e la sua collega ligure alla Sanità hanno rispettivamente definito il decreto «nazista» e «fascista», con la promessa di boicottarlo non applicando le sanzioni previste. In giugno il Consiglio provinciale dell'Alto Adige ha approvato all'unanimità un documento contro l'obbligo vaccinale, mentre la Regione Veneto è ricorrente in Corte costituzionale contro la riforma.
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Esistono condizioni di possibilità del comunismo?
di Gianfranco La Grassa
1. Com’è mia abitudine, partirò da alcune affermazioni althusseriane (in Sulla Psiconanalisi, Raffaello Cortina editore, 1994, pagg. 81-84) e poi, dopo essere passato per Marx, concluderò rispondendo alla domanda del titolo. Nel testo appena citato, ad un certo punto, criticando il concetto di genesi, A. parla della formazione del modo di produzione capitalistico che, nell’ambito del marxismo tradizionale, è sempre stato considerato un prodotto necessario dell’evoluzione del precedente modo di produzione feudale; il capitalismo nascerebbe proprio per gestazione interna all’evoluzione del feudalesimo. Vediamo i passi di A.
“….il modo capitalistico di produzione non è stato ‘generato’ dal modo feudale di produzione come un figlio. Non c’è filiazione in senso proprio (preciso) tra il modo feudale di produzione e quello capitalistico. Il modo capitalistico di produzione sorge dall’incontro ….. di un certo numero di elementi molto precisi, e dalla combinazione specifica di questi elementi ….. Il modo feudale di produzione genera (come un padre genera suo figlio……) soltanto questi elementi, alcuni dei quali d’altra parte (l’accumulazione del denaro sotto forma di capitale) risalgono al di qua di esso o possono essere prodotti da altri modi di produzione.
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La lezione di Keynes e i paesi arretrati
Introduzione di Sergio Cesaratto*
In occasione della recente pubblicazione, in lingua inglese (Review of Political Economy, Vol. 27, n. 2, 2015), di parti dello studio di Pierangelo Garegnani dal titolo "Il problema della domanda effettiva nello sviluppo economico italiano (1962), originariamente commissionato dalla SVIMEZ a Garegnani, la SVIMEZ, in collaborazione con il Centro di Ricerche e Documentazione ‘Piero Sraffa’, ha organizzato, il 14 ottobre 2016, l’incontro sul tema "Il ruolo della domanda nello sviluppo: il Mezzogiorno italiano, i Sud del mondo e la crisi dell’Europa."
L’intento è stato quello di realizzare una “rivisitazione” di quel contributo, e tramite esso di sviluppare un suo approfondimento ed un confronto di tesi che sottendono al confronto tra politiche dell’austerità ed economia dello sviluppo.
L’incontro di studio, tenutosi presso la Scuola di Economia e Studi Aziendali dell’Università Roma Tre, è stato aperto dall’Introduzione di Sergio Cesaratto (Università degli Studi di Siena). Hanno fatto seguito gli Interventi di Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carmelo Petraglia (Università della Basilicata), Franklin Serrano (Università Federale di Rio de Janeiro), Antonella Palumbo (Università degli Studi Roma Tre).
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La matrice psicosociale del soggetto borghese nella crisi
di Leni Wissen
Una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore
Introduzione
Questo articolo si basa su due motivazioni. La prima è quella di determinare la matrice psicosociale del soggetto borghese sulla base di una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore. Lo sfondo di questa rischiosa scommessa è la visione secondo la quale la società capitalista è realmente prodotta dalla dinamica oggettiva della forma della dissociazione-valore, ma da questo non ne consegue alcun determinismo dello sviluppo sociale, dovuto alla relazione dialettica fra valore e dissociazione. Ciò significa soprattutto che il pensare, l'agire ed il sentire delle persone non possono essere derivati direttamente dalla forma della dissociazione-valore - e tuttavia l'organizzazione capitalista viene prodotta da persone che riproducono quotidianamente nel loro pensare, agire e sentire le categorie astratte della dissociazione-valore, senza che siano coscienti di questo. Il che solleva la questione di come le categorie astratte vengono interiorizzate nel sentire, pensare ed agire delle persone, o, detto in altre parole, come il soggetto in generale diventa soggetto.
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La CIA e la controrivoluzione in Venezuela
di Atilio A. Borón*
La società capitalista ha come uno dei suoi tratti principali l’opacità. Se nei vecchi modi di produzione precapitalisti l’oppressione e lo sfruttamento dei popoli saltava all’occhio e persino acquisiva un’espressione formale e istituzionale in gerarchie e poteri, nel capitalismo prevale l’oscurità e, con quella, lo sconcerto e la confusione. Fu Marx che con la scoperta del plusvalore ha stracciato il velo che nascondeva lo sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori “liberi”, emancipati dal giogo medioevale. Ed è stato sempre lui a denunciare il feticismo delle merci in una società dove tutto diventa merce e quindi tutto si presenta fantasmagoricamente davanti agli occhi della popolazione.
Quanto detto sopra rientra nella negazione del ruolo della CIA nella vita politica dei paesi latinoamericani, ma non solo di quelli. Il suo permanente attivismo è inevitabile e non può passare inosservato ad un occhio minimamente attento. Parlando della crisi in Venezuela – per fare l’esempio che ora ci preoccupa – e le minacce che incombono su questo paese fratello, non si nomina mai l’“Agenzia”, salvo in poche e isolate eccezioni.
La confusione che la sociedad capitalista genera con la sua opacità e il suo feticismo fa nuove vittime nel campo della “sinistra”.
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Teoria marxista della conoscenza e lavoro intellettuale
di Italo Nobile
C’è una teoria marxista della conoscenza? Ci sono brani di Marx che si possono integrare in una teoria della conoscenza, c’è la concezione materialistica della storia (quella espressa ad esempio nell’Ideologia tedesca) che ha anche aspetti rilevanti per una teoria della conoscenza, ci sono gli scritti engelsiani (l’Anti-Duhring e la Dialettica della Natura) ma una vera e propria questione di teoria della conoscenza la abbiamo con la polemica tra il realismo epistemico (conoscitivo) di Lenin (di ispirazione engelsiana), il marxismo di ispirazione neokantiana di Plechanov e l’empiriomonismo di Bogdanov (variante del cosiddetto empiriocriticismo di Mach e Avenarius). A questa polemica hanno fatto riferimento tutta una serie di scritti sia in Urss che in occidente, ma da essa hanno tratto ispirazione anche pensatori del marxismo più o meno eretico (si pensi ad Alfred Sohn Rethel, ad Adam Schaff e di conseguenza agli studi incentrati sul linguaggio, sulla sua natura sociale e sulle sue implicazioni cognitive di Ferruccio Rossi Landi oppure si pensi alla conoscenza come pratica teorica di Althusser). Nell’elaborare una teoria marxista della conoscenza e del lavoro intellettuale bisogna tenere presente questi dibattiti che ci hanno preceduto.
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Chantiers de l’Atlantique/Fincantieri …
di Redazione di “il cuneo rosso”
Fincantieri: arruolati nella guerra alla Francia, o uniti nella lotta internazionalista ai padroni e ai governi di Roma e Parigi? Due note sulla vicenda Fincantieri/Chantiers de l’Atlantique, a partire dai fatti
I fatti sono noti. Macron ha deciso di nazionalizzare “a tempo” i Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire: non vuole che Fincantieri, che li ha appena comprati, abbia il controllo su di essi. Pretende che il controllo sia a metà: 50-50, invece che 67-33 a favore des italiens. Altrimenti, minaccia, non se ne fa nulla.
Immediata la reazione del boss di Fincantieri, Bono: “Siamo italiani ed europei, ma non possiamo accettare di essere trattati da meno dei coreani” (stava dicendo: da meno dei musi gialli, ma si è trattenuto per via dei grossissimi affari in ballo con la Cina). Altrettanto secco il ministro Calenda: “Non accettiamo di ridiscutere sulla base del 50-50”. Intorno, il coro della ‘libera stampa’ a suonare la stessa canzone, stesse note, stesse parole, ritornelli, etc., e gonfiare le vene del nazionalismo italiano, dell’orgoglio nazionale italiano contro lo sciovinismo francese e Macron, fino a ieri il bel salvatore dell’Europa, divenuto ora un secondo orrido Marine Le Pen…
Fin qui, niente di particolare, salvo una rettifica di una certa importanza da fare. Certo: è scontro tra stato-capitale francese/stato-capitale italiano, con la posta primaria delle grandi navi di lusso e, soprattutto, delle maxi-commesse belliche – lo chiarisce bene Bono: “I principali programmi militari sono quelli navali.
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Francia e Germania gettano la maschera: sotto l'europeismo c'è il nazionalismo
di Enrico Grazzini
Gli ideali europeisti mascherano gli interessi nazionalistici dei potenti. Il presidente francese Emmanuel Macron con grande tempestività ha deciso di nazionalizzare Stx, il maggiore cantiere navale francese, pur di non farlo cadere in mano italiana; e Macron in terra libica gioca da solo, senza l'Europa e contro l'Italia, su petrolio e immigrazione. La Francia fa come sempre i suoi interessi e, proprio come la Germania, se ne frega dell'Europa quando è in ballo il suo tornaconto. La lezione è chiara: anche l'Italia deve finalmente difendere la sua sovranità e i suoi interessi nazionali proteggendo con forza e intelligenza i suoi asset strategici e introducendo una sua moneta parallela.
Macron in Libia lavora per favorire l'azienda petrolifera francese Total e cerca di soffiare all'ENI il petrolio libico grazie alla sua estesa presenza militare in nord Africa e alla (peraltro inutile) opera diplomatica per l'accordo tra i due leader libici Sarraj e Haftar. In Francia Macron rinnega gli accordi sottoscritti tra Finmeccanica e Stx e in un battibaleno nazionalizza Stx per non cedere la sua industria cantieristica navale all'italiana Finmeccanica. Invoca (tra l'altro forse giustamente) gli interessi strategici della Francia in campo industriale e militare.
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I fondamenti teorici del neoliberalismo
di Jacques Sapir
Sapir propone un’interessante rassegna dei gravi problemi teorici che smentiscono la pretesa dell’economia neoclassica dominante di essere scienza e la squalificano in una costruzione ideologica di un mondo irreale di eleganze matematiche, nel quale gli individui possono evitare legami istituzionali semplicemente abbandonandosi all’avidità, che genera a loro insaputa un sistema neutro, privo di solidarietà e di conflitto
La teoria neoclassica, ossia la teoria dell’equilibrio generale, continua a permeare numerosi commenti o riflessioni. Questo è particolarmente chiaro per quanto concerne il «mercato» del lavoro, e la volontà dell’attuale governo di far passare, «di forza» se fosse necessario, tutta una serie di misure che riporterebbero i lavoratori a una situazione di isolamento, che è proprio quella descritta dalla teoria neoclassica. Infatti quest’ultima ignora le istituzioni oppure cerca di ridurle a semplici contratti, benché esse siano ben altra cosa.
Bisogna dunque tornare su questo paradigma dell’equilibrio, e più fondamentalmente su ciò che si chiama la Teoria dell’Equilibrio Generale o TEG. È chiaro che non si tratta di una congettura facilmente confutabile o, in tutti casi, che essa non è percepita come tale nella professione. Eppure il suo irrealismo ontologico pone un vero problema. Costruita attorno alla descrizione di un mondo immaginario, essa serve nondimeno ad alcuni di guida per comprendere la realtà. Facendo questo, essa si svela come un’ideologia (una «rappresentazione del mondo»), e una ideologia al servizio di interessi particolari, e non come una teoria scientifica.
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Le ragioni dello sciopero dei professori
di Guglielmo Forges Davanzati
Lo sciopero dei professori universitari programmato per il prossimo settembre – con la sospensione degli esami di profitto nella sessione autunnale – sta suscitando numerose polemiche perché interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori privilegiati, con stipendi elevati. E’ opportuno ricordare che la decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il Ministero per avere riconosciuti gli scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito. Ed è opportuno anche ricordare che, a partire dal 2015, alle altre categorie del comparto pubblico è stato accordato il riconoscimento a fini giuridici degli anni di blocco: ci si riferisce ai docenti delle scuole, ai medici, al personale degli enti di ricerca. E’ necessario poi precisare che un professore universitario con venti anni di anzianità guadagna circa 2000 euro netti mensili e che un suo collega di altri Paesi europei guadagna almeno cinque volte tanto. A ciò va aggiunto – e non è cosa di poco conto – che i fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali, che prosegue ininterrottamente da quasi dieci anni. Il Fondo di finanziamento ordinario – ovvero il finanziamento statale che costituisce la principale fonte di entrata delle Università – si è ridotto di circa 10 miliardi dal 2010 al 2016.
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Autonomia di classe in Venezuela
di Valerio Evangelisti
Per mettere subito le cose in chiaro, non prendo nemmeno in considerazione le tesi di chi dice che in Venezuela, con la formazione di un’Assemblea costituente, sia in gioco la sopravvivenza della democrazia (e lo dice chi, da quasi vent’anni, ha sostenuto che nel paese vigesse una dittatura). In gioco la democrazia lo è, ma non per mano dei costituenti.
Si tratta di intendersi, in via preliminare, sul significato del termine “democrazia”. Per i greci, che hanno inventato la parola, era il potere del “demos”: non il popolo generico, bensì il “popolo minuto”, gli strati più deboli economicamente della società. In questo senso, gli Stati Uniti, che permettono la competizione elettorale solo a candidati abbastanza ricchi per presentarsi alle urne, non sono mai stati e non sono una democrazia. Quanto al resto dell’Occidente, il meccanismo elettorale seleziona oligarchie dotate di vita propria, senza possibilità di verifica, fino al voto successivo, dell’effettiva obbedienza degli eletti alla volontà dei votanti. Non mi ci soffermo, sono critiche già note dai tempi di Rousseau. Divenuta consapevole dello stato effettivo delle cose, la popolazione dell’Occidente vota sempre meno. E l’Unione Europea, fondata su centri di potere privi di controllo e su un parlamento inutile, consolida la sfiducia. E’ lo sfascio del modello governativo liberale.
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Fermate quel reddito di cittadinanza
di Giuliana Commisso e Giordano Sivini*
Cultura imprenditoriale, personalizzazione dei percorsi, enfasi sull’auto-attivazione nel lavoro sono al centro del disegno di legge sul reddito di cittadinanza del M5S e sono parte integrante di un ordine del discorso che mira a far interiorizzare la normalità della precarietà lavorativa. Per questo, secondo gli autori del libro Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? quel disegno va conosciuto, discusso e contestato
Il Reddito di cittadinanza è, nelle enunciazioni, una misura volta a dare dignità a milioni di persone, che il M5S ha posto all’ordine del giorno. Ma gli strumenti previsti dal suo disegno di legge sono contestabili: dall’obbligo per i beneficiari di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare qualsiasi lavoro se dopo un anno non hanno trovato un’occupazione.
Dignità lesa e sconquasso del mercato del lavoro. È già successo. In Gran Bretagna i poveri sono costretti al lavoro coatto gratuito, altrimenti perdono il sussidio; in Germania devono accettare, per lavori che vengono loro imposti, salari miserevoli a cui viene aggiunto il sussidio.
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Robert Kurz, “Le crepe del capitalismo”
di Alessandro Visalli
Robert Kurz è stato un filosofo ed editore della rivista di critica marxista “Exit”, scomparso nel 2012, in questo testo, tradotto in italiano la piccola casa editrice radicale Bepress raccoglie alcuni saggi dell’autore che si collocano nell’ultimo biennio di lavoro. Cioè diversi anni dopo la spaccatura con il resto del “Gruppo Krisis”, ed in particolare con Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, che abbiamo già letto in “Terremoto nel mercato mondiale”.
Abbiamo letto la critica della propensione alla liquidità ed il rapporto con il tempo nella bella ricostruzione della finanza e delle sue aporie compiuta da Amato e Fantacci in “Fine della finanza” (che sono autori di scuola keynesiana e non marxisti). La questione si può riassumere nella messa a valore e scambio del tempo, e nello sforzo costante di neutralizzare l’incertezza, contro ogni evidenza e contro ogni ragionevolezza. Persino un economista neoclassico, già Governatore della Banca d’Inghilterra negli anni della crisi, Mervyn King, ammette in “La fine dell’alchimia”, quando cade dalla carica, che così non è possibile andare avanti; che quindi i continui rinvii dovranno essere sostituiti da qualche forma di razionalizzazione che sottragga al denaro parte della sua funzione di riserva di valore.
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Istantanee in movimento. Da Genova ad Amburgo e nessun ritorno
di ∫connessioni precarie
Luglio 2001, Genova, grandi manifestazioni di massa e riots contro un G8 che pretende di rappresentare una sorta di governo mondiale della globalizzazione. La prima manifestazione è quella dei migranti, aperta da uno striscione che reclama la libertà di movimento, una libertà senza confini. Un ragazzo viene ucciso. E non può essere dimenticato. Migliaia di persone non accettano il simulacro di una democrazia globalizzata.
Luglio 2017, Amburgo, grandi manifestazioni di massa e riots contro un G20 che registra l’impossibilità di un governo politico della globalizzazione. Uno striscione ricorda le migliaia di migranti morti in mare (si parla di 30 mila negli ultimi quindici anni), mentre un altro invoca la fine della guerra contro i migranti. Molti sono gli arresti immotivati. Troppi attivisti e troppe attiviste sono ancora in carcere. E anche questo non può essere dimenticato. Al vertice sono presenti capi di governi dichiaratamente autoritari e nessuno se ne stupisce. L’illusione democratica si è dissolta, le decisioni vengono prese lontano dagli schermi senza provocare scandalo. La globalizzazione del capitale ha schiantato ogni possibile mediazione politica mondiale.
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La rivoluzione non è (soltanto) affare di Partito
di Sandro Moiso
Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00
“I passi falsi che compie un reale movimento
rivoluzionario sono sul piano storico
incommensurabilmente più fecondi e più
preziosi dell’infallibilità del miglior
comitato centrale” (Rosa Luxemburg)
Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.
Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente.
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