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L'elefante nella stanza
di Il Pedante
Dal lato della spesa, un impulso all'attività economica potrà derivare da un aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture. (M. Monti, novembre 2011)
Gli aumenti dei costi dei servizi di base - sanità, infrastrutture, trasporti, energia ecc. - sono certamente tra i fattori di impoverimento collettivo più percepibili e onerosi, tanto più in quanto non compensati da un corrispondente calo del carico fiscale. Trattandosi di servizi tradizionalmente erogati dal settore pubblico attingendo alla fiscalità generale, l'aspettativa dei cittadini di una diminuzione della spesa pubblica - e quindi delle tasse - apparirebbe razionale. Gli aumenti all'utenza dovrebbero spostare parte dei costi dei servizi dalla collettività ai singoli fruitori. Ma così non accade.
Anzi, a parità o crescita della pressione fiscale aumentano canoni, tariffe e tickets. Oppure - il che è lo stesso - si restringe il perimetro dei servizi offerti. Perché? Le narrazioni mediatiche offrono chiavi di lettura standard ben sedimentate:
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sprechi e voracità del settore pubblico annullerebbero il risparmio fiscale convogliandolo in opere inutili, consulenze strapagate, assunzioni clientelari ecc. invece di scontarlo ai cittadini. Il che presupporrebbe però che gli sprechi siano in aumento e non, come si usa leggere, "ancora troppi nonostante gli encomiabili sforzi del governo, dei commissari ecc.";
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La mutazione neoliberista
di Franco Berardi Bifo
Un paio di anni fa, l’anno precedente l’EXPO milanese per intenderci, insegnavo a Brera, e il mio corso era dedicato alle questioni della precarietà. Il tema dell’EXPO, e particolarmente del lavoro gratuito che veniva “offerto” ai giovani, era naturalmente al centro delle mie lezioni e delle discussioni in classe. A un certo punto un ragazzo cinese che aveva seguito il mio corso con attenzione, anche se aveva qualche difficoltà con la lingua (ma sai come fanno, mentre tu parli digitano sul cellulare una parola che non capiscono e poi fanno cenno di sì tra sé e sé) prese la parola e mi disse che lui aveva accettato la proposta dell’EXPO. Gli chiesi di spiegare le sue ragioni alla classe, e lui disse una cosa ragionevolissima. Mi disse che lui veniva da un villaggio vico a Shanghai e che la possibilità di “fare un’esperienza come quella” (si espresse proprio così) per lui era un’occasione da non perdere. Mi immedesimai in lui, pensai se a venti anni mi fosse capitato di ricevere dall’EXPO di Shanghai la proposta di lavorare gratis per un po’. Effettivamente per me si sarebbe trattato di un’esperienza talmente sbalorditiva che solo il mio occhiuto dogmatismo operaista avrebbe potuto trattenermi dall’accettare.
Scrive Sergio Bologna in Lavoro gratuito ed economia dell’evento: “A casa, disoccupato, tua madre ti tormenta, ti senti un diverso, mentre se lavori gratis sei normale. L’accettazione del lavoro gratuito dipende perciò anche dal fatto che c’è qualcosa che ricompensa più della retribuzione: la protezione dall’angoscia, dalla solitudine”.
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Padoa-Schioppa scrive a Caffè
Due visioni della democrazia e dell’Europa
di Alberto Baffigi
Alberto Baffigi trae spunto da una polemica lettera che Tommaso Padoa-Schioppa inviò a Federico Caffè nel settembre del 1978, alla vigilia dell’accordo sul Sistema Monetario Europeo, per mettere a confronto le loro diverse concezioni della democrazia e dell’Europa. Baffigi sostiene che la concretezza di Caffè, radicata nell’”economia del benessere” e nell’attenzione ai problemi distributivi, appare ancora oggi un’opzione su cui riflettere per rafforzare le basi democratiche delle nostre società e ridare slancio al progetto europeo
Il 2 settembre 1978 Tommaso Padoa-Schioppa, allora consulente economico presso il Ministero del Tesoro, scrisse una lettera privata a Federico Caffè; una lettera molto dura, di reazione alle severe critiche con cui il professore aveva stigmatizzato, in dichiarazioni pubbliche, il piano triennale del ministro del Tesoro, Pandolfi. Il piano (Una proposta per lo sviluppo, una scelta per l’Europa), pubblicato il giorno precedente, comprendeva una serie di impegni e obiettivi sul fronte della politica salariale e su quello della finanza pubblica, elaborati a supporto della partecipazione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, lo SME. Alla sua stesura aveva dato un contributo rilevante lo stesso Padoa-Schioppa (Papadia, 2014). In quella lettera e in due articoli di Caffè pubblicati nelle settimane successive, ritroviamo drammaticamente condensata una parte importante della battaglia tra diverse idee di Europa che segnò le cruciali scelte di quegli anni. Quei testi meritano una lettura attenta, oggi che l’Europa si trova nelle secche di una profonda crisi politica che molti collegano a un preoccupante deficit democratico.
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Luci e ombre della tecnologia informatica
Elena Camino
Una informatica ‘slow’?
In un articolo pubblicato nel 20151 Norberto Patrignani (docente di “Computer Ethics” al Politecnico di Torino) introduce il termine di ‘slow tech” (una informatica buona, pulita e giusta) nell’ambito dell’evoluzione storica della Computer Ethics. Come spiega l’Autore, mentre la Computer Ethics classica si è focalizzata sulle conseguenze dell’uso e diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nella società, l’approccio Slow Tech propone di introdurre un nuovo paradigma di progettazione delle tecnologie stesse. Propone un’informatica buona (disegnata ponendo al centro i bisogni degli esseri umani), pulita (che minimizza l’impatto ambientale dell’ICT) e giusta (che tiene in considerazione le condizioni dei lavoratori nella filiera ICT).
In effetti l’informatica ha trasformato profondamente la vita personale e l’organizzazione sociale a livello globale. Non solo le regole e abitudini della vita civile, ma sempre più anche i modi di fare la guerra. Ma – mentre sulle responsabilità degli scienziati impegnati nella produzione di ordigni bellici c’è ancora un dibattito in corso (per quanto affievolito rispetto ad alcuni decenni fa) – manca la riflessione sulle responsabilità degli scienziati che contribuiscono alla progettazione e realizzazione dei sistemi informatici che sono alla base dei più avanzati modi di fare la guerra. Basta leggere la presentazione che la Compagnia Leonardo fa nel suo sito per rendersi conto che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione è essenziale per tutti i settori militari: dai sistemi di controllo e di automazione in campo di battaglia, lungo i confini, o per il pilotaggio remoto dei droni, ai sistemi radar per il controllo del tiro e la guida di batterie di missili…
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Referendum, quale lezione per la sinistra radicale?
di Carlo Formenti
Ho resistito all’impulso di commentare a botta calda l’esito del referendum, manifestando la mia gioia per la disfatta di un progetto di “riforma” la cui valenza reazionaria ha pochi precedenti nella storia italiana del secondo dopoguerra (mi vengono in mente la legge truffa e il governo Tambroni). Mi sono trattenuto perché ritengo che l’evento meriti ragionamenti più ampi e approfonditi del cicaleccio mediatico con cui è stato celebrato. Provo ora ad abbozzare una riflessione a mente fredda.
Il primo aspetto di cui va preso atto è il clamoroso fallimento della casta dei comunicatori (giornalisti, sondaggisti, spin doctor) chiamati ad alimentare e sostenere la campagna elettorale renziana: come già avevano dimostrato Brexit ed elezioni presidenziali Usa, la loro capacità di manipolare l’opinione pubblica si è ridotta praticamente a zero, malgrado il ricorso all’arma di dissuasione di massa del terrorismo economico, puntualmente ridicolizzato dalla (mancata) reazione dei mercati. Eppure, mentre i cittadini si sono dimostrati impermeabili a lusinghe e minacce, lo stesso non si può dire per buona parte dei militanti impegnati nella campagna per il No, molti dei quali hanno fino all’ultimo momento temuto di poter perdere, a testimonianza del fatto che anche le componenti politiche più sane di questo Paese hanno smarrito – almeno in parte – la capacità di interpretare gli umori della propria base sociale, sottovalutandone il livello di consapevolezza e la capacità di mobilitazione.
Un secondo aspetto che balza agli occhi è, assieme alla partecipazione di massa al voto, la sua composizione sociale, generazionale e regionale.
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L’austerità flessibile
Il fallimento delle politiche economiche di Renzi
intervista a Danilo Barbi
Intervista a Danilo Barbi, a cura di Roberto Ciccarelli, dal 14° Rapporto sui diritti globali
In questi anni i numeri del disagio lavorativo, della disoccupazione e delle povertà sono sensibilmente aumentati, ma non compaiono mai nelle “slide” e nella propaganda del governo Renzi. Il quale preferisce continuare a dare soldi e incentivi alle imprese e ai ceti più ricchi, anziché provare a rilanciare redditi, consumi ed economia. I trenta miliardi in tre anni dati dal governo alle imprese non hanno prodotto risultati apprezzabili. La CGIL ha elaborato un piano per l’occupazione straordinaria giovanile e femminile che costerebbe la stessa cifra ma che prevede la creazione diretta di 600 mila posti di lavoro. Per Danilo Barbi, segretario nazionale della CGIL e responsabile delle politiche dello sviluppo, infatti, è il pubblico che deve assumersi direttamente l’onere e la responsabilità di rilanciare l’occupazione e riattivare l’economia, attraverso gli investimenti pubblici, assumendo i giovani nella pubblica amministrazione e in grandi progetti di utilità sociale per il Paese, messi drammaticamente all’ordine del giorno anche dal terremoto dell’agosto 2016.
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Rapporto sui Diritti Globali: L’Italia è in stagnazione, la poca crescita diminuisce e non produce nuova occupazione. È il fallimento del governo Renzi?
Danilo Barbi: Di sicuro è il fallimento di una politica economica che ha provato a fare. Il governo sembra valutare le cose su sé stesso e non sulla condizione reale del Paese. Sembra che il Paese si deve mettere al servizio del governo e non il contrario.
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Imperialismo e mondializzazione
di Yann Cézard
«Il pericolo giallo che minaccia l’Europa può dunque definirsi nel seguente modo: rottura violenta dell’equilibrio internazionale sul quale si basa attualmente il regime sociale delle grandi nazioni industriali di Europa, rottura provocata dalla brusca concorrenza, abnorme e illimitata, di un immenso nuovo paese». L’economista Edmond Théry esprimeva così le sue paure nel libro Le Péril jaune del 1901.
Il mondo è cambiato radicalmente, ma il fantasma rimane. A parte il fatto che all’epoca la Cina era al centro degli interessi di imperialismi rivali, ora essa costituisce un vero e proprio ”laboratorio mondiale”. La "prima mondializzazione" capitalista vedeva il trionfo dell’Occidente. Quella di oggi vedrebbe il suo declino? Si può ancora parlare di imperialismo? Una confusione estrema, politicamente deleteria, regna oggi nelle coscienze.
Il peggiore dei metodi è la miopia, che impedisce nei fatti una visione netta dell’insieme. È una semplificazione che permette ad alcuni di esaltarsi sulla presunta fine dell’imperialismo (e perché non un “imperialismo rovesciato”: è vero o no che la Cina sommerge l’Occidente dei suoi prodotti industriali?), e permette ad altri di affermare la persistenza, senza variazioni, dell’imperialismo descritto da Lenin nel 1916 (l’Occidente non continua ininterrottamente ad intervenire ai quattro angoli del pianeta?).
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L’essere come produzione
Tra inchiesta, ontologia e prassi politica
Giso Amendola
Alla fine degli anni Settanta, uno dei cicli di lotta più intenso e furioso del Novecento trova davanti a sé, particolarmente in Italia, la chiusura di ogni spazio e di risposta istituzionale, se non quella della repressione più feroce. È su questo passaggio d’epoca che si apre il libro di Willer Montefusco e Mimmo Sersante dedicato al pensiero di Antonio Negri, e, in particolare, al periodo che si apre con il 1980: Dall’operaio sociale alla moltitudine. La prospettiva ontologica di Antonio Negri (1980-2015) (DeriveApprodi, 2016). Periodizzazione molto problematica, che gli autori accolgono infatti molto relativamente. Certo il 1979-80 è per Negri un passaggio fondamentale: l’arresto e l’esilio, la stretta giudiziaria su un intero movimento e, al tempo stesso, la crisi durissima di quel ciclo di lotte, poi Parigi e, con la Francia, quella «formidabile tensione a ricominciare». Ma con Negri, i giochi di periodizzazione funzionano male: i periodi, qui, non sono lunghe scansioni a segnare presunte svolte di pensiero, semmai segnano di volta in volta, modi differenti di far agire teoria e pratiche, ricerca filosofica e rompicapi offerti dalle lotte e dalla prassi politica. Dunque, non c’è qui la descrizione del percorso di un presunto «secondo» Negri: semmai, la trasformazione di un pensiero davanti a una sfida drammatica che la situazione imponeva.
Sul passaggio della fine dei Settanta si apre appunto il libro: su quel ««tempo di Amleto» che vede la profonda ristrutturazione del sistema produttivo, la liquidazione del tempo fordista, la fine della centralità della fabbrica.
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Il ritorno di Engels
di John Bellamy Foster
Poche collaborazioni politiche ed intellettuali sono paragonabili a quella fra Karl Marx e Friedrich Engels. Non scrissero insieme solo 'Il manifesto comunista' del 1848, prendendo parte alla rivoluzione di quello stesso anno, ma anche due lavori precedenti, la 'Sacra famiglia' del 1845 e l'Ideologia tedesca' del 1846. Alla fine del decennio 1870, quando i due socialisti scientifici abitarono vicino e poterono conferire quotidianamente, erano soliti camminare avanti e indietro, ognuno su un lato della stanza, nello studio di Marx, lasciando segni sul pavimento quando si giravano sui tacchi, mentre discutevano di svariate idee, piani e progetti.
Spesso si leggevano l'un l'altro passaggi dei loro lavori in corso di realizzazione. Engel lesse l'intero suo manoscritto Anti-Dühring (al quale Marx collaborò nella stesura di un capitolo) a Marx prima della pubblicazione. Marx scrisse l'introduzione a 'Il socialismo: dall'utopia alla scienza' di Engels. Dopo la morte di Marx nel 1883, Engels preparò per la publicazione i volumi secondo e terzo del 'Capitale', traendoli dalle bozze che l'amico aveva lasciato. Se Engels, come egli stesso ammise, stava all'ombra di Marx, fu nondimeno, a pieno titolo, un gigante intellettuale e politico. Eppure per decenni gli accademici hanno detto che Engel avrebbe distorto e sminuito il pensiero di Marx. Come il politologo John L. Stanley ha criticamente osservato nel suo postumo 'Lineamenti di Marx' del 2002, i tentativi di distinguere Marx da Engels – al di là della differenza che, ovviamente, si trattava di due individui con talenti e interessi diversi – hanno prevalentemente assunto la forma di una dissociazione di Engels, vista come la fonte di tutto ciò che vi è di reprensibile nel Marxismo, da Marx, visto come il compendio dell'uomo di lettere civilizzato, e non un Marxista egli stesso.
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Berlino: la vittima buona dei cattivi - Ankara: la vittima cattiva dei buoni
Fulvio Grimaldi
Un’occhiata alle più recenti epifanie del progetto terrorista della coalizione Usa “Guerra al terrorismo”. Per la verità sono parecchio stufo, a ogni stormir di False Flag, fatte poi garrire al vento dal pneuma delle larghe intese mediatiche, di indicare le marchiane e rozze imperfezioni dell’operazione. Quelle che se avessimo ancora una categoria giornalistica definibile tale e non una accolita di muselidi ammaestrati, dovrebbero dilagare a caratteri cubitali da schermi ed edicole. Viene da morir dal ridere su come questi, con tutti quei collaudi alle spalle, dalla Maine a Pearl Harbor, dal Golfo del Tonchino all’11 settembre, da Charlie Hebdo al culmine del grottesco bavarese di Monaco, continuino a esibirsi in tessuti complottisti lacerati dall’incompetenza e dalla convinzione che, come i giornalisti sono tutti acquistabili, anche noi cittadini siamo tutti scemi. Viene da morir dal piangere a constatare che, in effetti, siamo tutti scemi. Quasi tutti, quasi scemi. Basterebbe lo stereotipo di ogni attentato: il personaggetto stralunato, borderline, già carcerato, zeppo di casini, abbondantemente fuori di testa, tutto fuorchè credente suicida, mai combinato niente di islamico, che o scappa, o viene ucciso prima che possa obiettare “ma non mi avevate detto….”, o sparisce in qualche carcere e non se ne parla più. Perlopiù ucciso, come il figurante di Berlino.
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Monte dei Paschi: ma quale nazionalizzazione?
di Leonardo Mazzei
I nodi di fondo della crisi bancaria stanno venendo al pettine. La vicenda del Monte dei Paschi di Siena (Mps) ha avuto il pregio di farli emergere tutti assieme: la debolezza delle banche italiane a causa di una crisi economica senza fine, la necessità dell'intervento dello Stato, l'insostenibilità delle regole europee, i catastrofici effetti dell'euro.
Su tutto ciò abbiamo scritto a più riprese nell'ultimo anno. Adesso la novità è il decreto "salvabanche" approvato stanotte dal governo Gentiloni. Un decreto pensato in primo luogo per l'ennesimo "salvataggio" di Mps, un passo di fatto annunciato dalla costituzione di un Fondo di 20 miliardi (finanziato in debito), voluto dal governo ed approvato mercoledì scorso dal parlamento.
Al momento non si conosce il testo del decreto, ma solo le anticipazioni date dal governo. Quelle che seguono sono dunque osservazioni basate soltanto sulle scarne informazioni adesso disponibili.
1. Il mercato non ha funzionato (e non poteva funzionare)
Con il decreto predisposto da Padoan, lo Stato garantirà quella ricapitalizzazione di Mps che la banca non è riuscita a concretizzare attraverso il mercato.
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Donald Trump, la sinistra e il voto operaio
di A.C.
L'elezione di D. Trump alla presidenza degli Stati Uniti, oltre a tutte le domande che solleva rispetto ai cambiamenti nella politica americana che potrebbe causare o meno, ha suscitato a sinistra un dibattito internazionale il cui interrogativo centrale può essere riassunto in questo modo: la classe operaia americana ha massivamente votato per Trump oppure no? Domanda su cui si basa la successiva: la classe operaia è reazionaria?
Questa domanda riceve pronta risposta esaminando le statistiche elettorali: no, ovviamente, non è la classe operaia da sola che ha eletto Trump, non ha nemmeno votato in massa per lui. La classe operaia rimane in gran parte la classe dell'astensione. Ma se l'elezione di Trump rimane di gran lunga il risultato di un elettorato repubblicano classico, tuttavia assume una marcata tonalità operaia nei vecchi stati industriali del nord-est, fatto che, insieme alla mancanza di entusiasmo per il voto democratico, probabilmente ha fatto pendere la bilancia elettorale in favore di Trump. Ed è qui che sta forse il problema: in questo residuo insolubile rappresentato dalla presenza decisiva del voto dei lavoratori, che non viene digerito, che appare come un'impurità in questa elezione, come una macchia.
Ciò che non viene digerito, soprattutto in quel che resta della sinistra e dell'estrema sinistra, è in primo luogo che “la” classe operaia è in realtà ampiamente segmentata.
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Stati Divisi d'America
di Pierluigi Fagan
Igor Panarin è un personaggio assai curioso, qui il suo wiki abbastanza completo[1]. Si tratta di un cervellone russo stante che i russi hanno un tradizione sistemica tutta loro[2], che non origina cioè da quella della teoria dei sistemi di L. von Bertalanffy, è precedente come è precedente la radice da cui nacque lo stesso Bertalanffy che da giovane frequentava il Circolo di Vienna. Questa è un radice che risale all’illuminismo tedesco, a Kant (in parte) e prima ancora a Leibniz e che, come tutte le radici, ha a sua volte radici ancora più antiche ma che lasciamo lì dove sono altrimenti andiamo fuori tema. Poiché la cultura tedesca influì non poco anche su quella russa, ne conseguì la successiva biforcazione tra sistemica russa e sistemica dell’austriaco poi migrato in Canada ed influente sulla cultura americana.
Insomma, Panarin nel 1998 se ne esce con la previsione del crollo dell’impianto economico americano che poi avverrà nel 2008 ed in conseguenza di questo, prevede un processo di secessione interno a gli Stati Uniti d’America.
Il cuore della previsione diceva di una frattura tra l’Ovest che sarebbe entrato nel circuito asiatico – pacifico, un Sud che sarebbe entrato nel circuito ispano-centro americano, un Est che sarebbe entrato nel circuito euro-britannico ed un Nord, felicemente annesso al Canada.
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La sinistra oltre il referendum
di Alessandro Somma
Molti hanno ritenuto che, per le dimensioni della vittoria del no, l’esito del referendum sulla riforma costituzionale sia stato sorprendente. Hanno invece ricalcato un copione già visto gli avvenimenti che sono seguiti a questa vittoria e in particolare le reazioni dei partiti, di quelli risultati vincitori così come di quelli sconfitti. Ma sono soprattutto le dinamiche politiche disinnescate dall’esito referendario, ad essere avviate verso la riproduzione di uno schema oramai consolidato: quello per cui, dopo avere fatto il lavoro sporco, le formazioni progressiste si avviano verso un definitivo e meritato declino, inevitabilmente seguito dal successo delle destre.
I vinti insultano i vincitori
Incominciamo dalle reazioni dei vinti, del tutto simili a quelle che hanno accompagnato due momenti fondamentali di quanto è stata chiamata l’avanzata mondiale del populismo: prima la vittoria dei fautori di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel referendum sulla Brexit, e poi l’elezione di Donald Trump a nuovo Presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi i vinti hanno disegnato un identikit del vincitore che assomiglia a una sorta di troglodita: incapace di comprendere le virtù della globalizzazione, di cogliere i vantaggi portati dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, di accettarli come fatti irreversibili.
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Gramsci e la Russia sovietica
Il materialismo storico e la critica del populismo
Domenico Losurdo
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp 18-41. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/600
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1. «Collettivismo della miseria, della sofferenza»
Com’è noto, la rivoluzione che tiene a battesimo la Russia sovietica e che, contro ogni aspettativa, si verifica in un paese non compreso tra quelli capitalistici più avanzati, è salutata da Gramsci come la «rivoluzione contro Il capitale». Nel farsi beffe del meccanicismo evoluzionistico della Seconda Internazionale, il testo pubblicato su «Avanti!» del 24 dicembre 1917 non esita a prendere le distanze dalle «incrostazioni positivistiche e naturalistiche» presenti anche «in Marx». Sì, «i fatti hanno superato le ideologie», e dunque non è la rivoluzione d’Ottobre che deve presentarsi dinanzi ai custodi del «marxismo» al fine di ottenere la legittimazione; è la teoria di Marx che dev’essere ripensata e approfondita alla luce della svolta storica verificatasi in Russia1. Non c’è dubbio, memorabile è l’inizio di questo articolo, ma ciò non è un motivo per perdere di vista il seguito, che non è meno significativo. Quali saranno le conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese relativamente arretrato e per di più stremato dalla guerra?:
«Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia più di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe […]. La sofferenza che terrà dietro alla pace potrà essere solo sopportata in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile».
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Blows against the Empire
Mark Tibaldi intervista Andrea Fumagalli
“Grateful dead economy. La psichedelia finanziaria” di Andrea Fumagalli (AgenziaX, pp. 190, € 15,00) analizza in maniera innovativa le tre parole-chiave al centro del dibattito politico del nuovo millennio: il concetto di comune, lo spirito open-source e il ruolo delle monete alternative. Il titolo e la copertina sono molto accattivanti e potrebbero far sembrare il libro una trovata da subvertising, ma non è così. Eccentrico, sì, è un libro eccentrico, nel senso migliore del termine, utilizza la metafora dei Grateful Dead, non solo per rendere omaggio a uno dei gruppi musicali che più ha inciso sulla cultura alternativa, ma per discutere criticamente l’evoluzione dello spirito libertario negli Usa, nato negli anni sessanta e riapparso nelle ultime due decadi nell’ideologia libertarian, fondata sull’antistatalismo e il primato dello spirito del self-made man. Per usare un termine della musica, possiamo dire che i sei capitoli son ben mixati, non c’è spaccatura ma conseguenzialità, e lo spirito del libro va oltre i suoi dichiarati intenti: infatti l’incontro di ambiti apparentemente lontani, l’immaginazione, la sperimentazionee l’innovazione, non possono che arricchire lo spirito critico e l’efficacia delle lotte. Un tempo la psichedelia era sinonimo di creatività e sovversione, ma ora regnano l’impotenza e la depressione sociale. Forse è perché la finanza e la mercificazione economica si sono appropriate non solo del corpo ma anche dei cervelli, dei sensi e dell’eros, costringendoli a vivere una vita di elemosina e precarietà? Lo abbiamo chiesto all’autore.
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Cos’è la psichedelia finanziaria e qual è la relazione tra i Grateful Dead e la proposta della moneta alternativa commoncoin?
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“L’intero segreto della concezione critica”
Sul lavoro in Lukács e Marx
di Matteo Gargani
I. Nel gennaio 1868, armato della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre Friedrich Engels come il «Kerl» di turno, Privatdozent di filosofia ed economia politica a Berlino Eugen Dühring, abbia mancato il senso del I libro de Il Capitale. L’«intero segreto della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio alla sua «Critica dell’economia politica» – sta nel fatto che «se la merce ha il doppio carattere di valore d’uso e valore di scambio, allora anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere doppio». Centrale è quindi la distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», sfuggita non solo a Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori dell’economia politica: «la semplice analisi fondata sul lavoro sans phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a sbattere in questioni inesplicabili»1. Ricorrendo alla nota immagine della rivoluzione copernicana, possiamo dire che Marx individua quella da lui operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», pendant soggettivo della doppia natura del valore già incorporata nella merce. È proprio sul «concetto di lavoro» nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx secolo che si concentra Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács di Antonino Infranca.
Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels.
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Lotta di classe nella forma populista
di Carlo Formenti
Il fine settimana scorso si è svolto a Roma un seminario promosso dalla Rete dei Comunisti. Pubblichiamo quello che ci pare il contributo più importante, pienamente condivisibile, quello inviato da Carlo Formenti
Il documento preparatorio per il forum nazionale del 17/18 dicembre pone giustamente l’accento sulla necessità di un’approfondita riflessione sullo scenario geopolitico.
Si tratta di un tema che ha tradizionalmente ricevuto grande attenzione dai “classici” —Marx e Lenin su tutti—, mentre sembrava quasi sparito negli ultimi decenni, forse perché anche gli intellettuali marxisti, o supposti tali, dopo il crollo dei Paesi socialisti, hanno finito per accreditare la tesi di un mondo unificato dall’egemonia liberal liberista e sostanzialmente “pacificato” e integrato sotto il domino imperiale statunitense. A qualche anno dall’esplosione (non dall’inizio, perché quello risale agli anni 70 del 900) della più grave crisi capitalistica dopo la grande crisi del 29, e mentre la perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti si fa sempre più evidente, di quella illusione non resta nulla.
I primi a riconoscerlo sono proprio gli intellettuali liberisti: vedi l’intervista al “Corriere della Sera” rilasciata in data 1 dicembre da Francis Fukuyama, il quale associa il declino dell’egemonia americana a una vera e propria disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccia la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi anche un recente articolo dell’Economist intitolato “Economists cannot stop Trump, but perhaps they can understand it”, nel quale, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit, il trionfo di Trump e quello del No in Italia, dall’altro si afferma che la risposta al “trumpismo” dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico.
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Quale “Illuminismo”?
Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali
di Paolo Quintili
Di “illuminismo” si parla molto, ed è bene che sia così. Ma intorno al suo significato non vi è molta chiarezza. In questo articolo, Paolo Quintili spiega in che direzione bisogna andare se si vuole avere una cognizione più precisa dello stesso. Il testo è stato pubblicato in contemporanea qui
Il dibattito sollevato sulle pagine del quotidiano italiano «La Repubblica», nell’ormai lontano 2000 – dunque prima del 11/09/01 – sull’Illuminismo e la necessità di «nuovi Lumi» per il nostro tempo ha avuto una discreta risonanza non sui soli media, portando infine all’edizione del libretto a cura di E. Scalfari, Attualità dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Dalla distanza di ciò che nel frattempo è storicamente accaduto – Le rivoluzioni arabe, le nuove guerre in medio oriente, Daech ecc. – il tono del dibattito, tuttavia, non sembra uscire dal terreno di vecchi luoghi comuni su un’Età dei Lumi come «Età della Ragione» a tutto tondo, la cui immagine non tiene presente, anzitutto, il retaggio del processo storico di formazione della ratio illuministica e del suo rapporto al concetto di diritto. E del diritto dei popoli, in particolare.
Avere comunque iniziato a discutere di questi temi è stato un bene e il sintomo di un bisogno, nella sinistra italiana (e oltre), di fare chiarezza sulla propria provenienza, non solo ideale. Si è parlato di Lumi che «non sono più di moda nel nostro secolo» (E. Scalfari, 8/12/2000) ma da riattivare, magari, chissà? con un’opera di marketing contro-contro-illuministica (eco della «critica della critica critica» di marxiana memoria?). Funzionerà? Ci manca, la bella «Ragione» del secolo decimottavo! da erigere contro integralismi, risorgenze superstiziose, nuovi assoggettamenti, particolarismi.
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L’ambivalenza della «Gewalt» in Marx ed Engels
A partire dall’interpretazione di Balibar
Luca Basso
In der wirklichen Geschichte spielen bekanntlich
Eroberung, Unterjochung, Raubmord, kurz
Gewalt die große Rolle. In der sanften
politischen Ökonomie herrschte von jeder
die Idylle.
K. Marx, Das Kapital
Das Recht auf Arbeit ist im bürgerlichen Sinn ein
Widersinn, ein elender, frommer Wunsch,
aber hinter dem Rechte auf Arbeit steht die Gewalt
über das Kapital […], also die Aufhebung der
Lohnarbeit, des Kapitals und ihres
Wechselverhältnisses.
K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850
La riflessione intorno alla struttura e alla valutazione della Gewalt ha sempre costituito una questione controversa all’interno del marxismo, a causa delle (apparenti o reali) ambiguità esistenti all’interno del percorso teorico di Marx ed Engels, e a causa della rilevanza delle conseguenze politiche insite in una determinata scelta di campo al riguardo. La trattazione del concetto indicato, da parte di Marx e Engels, si contraddistingue per una sostanziale ambivalenza, presentando quindi una caratterizzazione complessa e articolata, che sembra irriducibile sia alla sua esaltazione in quanto “levatrice della storia”, sia, di converso, alla sua eliminazione sulla base di una conciliazione “irenica” fra marxismo e pacifismo.
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L'esaurimento dell'attuale fase storica del capitalismo
di Guglielmo Carchedi
Una tesi fondamentale per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la Critica dell’economia politica, prefazione). Ora, se il marxismo è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come dice Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere , «Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I, quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La verifica empirica ci permette anche di capire perché e soprattutto come il vecchio muore.
Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.
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L’“impazzimento” della politica come riflesso della crisi di egemonia del capitale
di Mauro Casadio*
Relazione introduttiva al Forum "Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere" organizzato dalla Rete dei Comunisti a Roma il 17 e 18 dicembre
Nell’introduzione al forum di oggi invece di partire dall’alto dell’analisi teorica scegliamo, diversamente che in altre occasioni, di partire dal “basso” dei fenomeni politici. La crisi sistemica, che da tempo come Rete dei Comunisti stiamo cercando di analizzare, si manifesta come competizione tra paesi imperialisti e con le altre potenze economiche, tramite conflitti militari ed enormi trasformazioni sociali ed oggi sta sfociando nella dimensione politico istituzionale nelle “cittadelle” imperialiste”.
I sintomi ormai sono conclamati; sia nei paesi dell’Unione Europea che negli USA è in atto uno inaspettato e sincronizzato scombussolamento politico che porta inevitabilmente a ragionare sui motivi strutturali che hanno portato a questo punto. Certamente l’esempio più eclatante è quello Statunitense dove un outsider come Trump sembra aver trionfato sulla stantia e familista classe dirigente democratica ma anche repubblicana, in quanto parte di questa a cominciare dai Bush si è subito schierata contro la candidatura di Trump.
Associata a questi eventi dai commentatori politici è la Brexit dove l’insubordinazione della vecchia e “diligente” classe operaia laburista al proprio storico partito ha avviato un incerto percorso esterno all’Unione Europea sovraesponendo, nel contempo, le acrobazie tattiche fatte dal partito conservatore e da Camerun. Certamente quello che sta emergendo è l’emergere della “faglia atlantica” tra il mondo anglosassone e l’Europa che manifesta, però, gli stessi acciacchi politici.
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Tutta la post-verità sulla post-verità
di Enrico Gullo
D'accordo, bufale e balle imperversano ovunque: ma quale nucleo di verità nascondono? E a questo punto, non sarà il caso di cominciare a prenderle sul serio?
Oh, ma la sapete quella del Prete Gianni? Ve la racconto velocemente. Tra il 1143 e il 1146 il vescovo Ottone di Frisinga scrisse una Chronica nella quale – tra un pistolotto sulla Babele terrena e qualche borbottio sulla condizione umana – tenta di tracciare una storia dell’umanità che include la narrazione della storia a lui contemporanea. Tra le notizie fornite dalla Chronica c’è questa curiosa storiella, di cui Ottone viene a conoscenza a Viterbo tramite intrallazzi papali: racconta che esiste un Principe e Prete cristiano, tale Prete Gianni (o Preteianni o Presbyter Johannes), che vive da qualche parte di là dal Mediterraneo – forse in Africa o in Asia – e che, pur essendo nestoriano, desidera avvicinare se stesso e il suo popolo alla Cattolica Dottrina di Santa Romana Chiesa, anche in virtù della sua inimicizia coi limitrofi domini musulmani. Neanche a dirlo, è pure ricco da far schifo e il suo regno è pieno di meraviglie. Fin qui tutto bene, sembra. A parte il dettaglio che il fatterello è una colossale balla, certo. E che viene raccontato in una delle più influenti cronache medievali.
Il risultato è che una bufala di proporzioni bibliche (è il caso di dirlo) conosce una larghissima fortuna nel corso del basso Medioevo: lettere false, tentativi di corrispondenza da parte dei sovrani occidentali, mercanti che identificano il Prete Gianni in tale o talaltro sovrano incrociato lungo la via della seta… Sarà forse Gengis Khan? Oppure un suo avversario?
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Capitalismo 2016. L’anno più nero dal 20091
di Antonio Carlo
1) Tutto peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile; c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze ingovernabili; e) mercato e commercio mondiale in crisi; 2) Segue: f) gli scandali fiscali; g) la guerra dei tassi bancari; h) l’emigrazione; i) il fallimento del G20 cinese e la debolezza dei poteri forti (e occulti); 3) Gli USA verso la stagnazione; 4) Cina e Giappone: declino senza ritorno; 5) L’Europa e la Brexit. L’inizio della fine; 6) Italia: finisce la farsa del governo Renzi; 7) Crisi economica e crisi politica. Impotenza e dissoluzione delle democrazie occidentali. USA verso un’esplosione socio-politica?
1) Tutto peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile; c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze ingovernabili; e) mercato e commercio mondiale in crisi.
A) PIL inadeguato. L’anno scorso la signora Lagarde in un’intervista affermò che la crescita del PIL mondiale era mediocre e tale sarebbe rimasta fino al 2020, dopo non era dato sapere cosa sarebbe accaduto2. Quest’anno l’elegantissima signora ha espresso posizioni analoghe3, di rincalzo la capo economista dell’OCSE, signora Mann, ha detto che siamo prigionieri di una crescita bassa e per il 2016 la previsione è ridotta al 2,9% (precedente 3,1%)4. Non ci si azzarda a parlare di stagnazione secolare come fa Larry Summers (e non solo lui), ma il concetto è sostanzialmente simile, si cresce poco e male: la tabella che segue basata sui dati del FMI, evidenzia come i sette grandi (G7), che hanno nelle loro mani il grosso della produzione mondiale con una frazione modesta della popolazione, siano sostanzialmente al ristagno.
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Più flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione?
Ecco cosa dicono i dati
di Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti *
Studi pubblicati dalle principali istituzioni internazionali smentiscono l’idea che le deregolamentazioni del lavoro aiutino a creare occupazione e a ridurre la disoccupazione. La letteratura empirica in materia rivela che la riduzione delle tutele dei lavoratori risulta statisticamente associata non alla crescita degli occupati ma all’aumento delle disuguaglianze
La libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs Act. Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che in Italia.
L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione.
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