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Rottamare il verbo euro liberista
di Carlo Formenti
Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull'Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume "Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa" con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo di Leonardo Paggi dell'introduzione che apre il volume
Agli osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al partito dei critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena (attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).
Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).
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La nostra infrastruttura logistica
Spazi metropolitani e processi transnazionali
di ∫connessioni precarie
Sul fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei paesi dell’est al migration compact mostra che il tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di nascere. Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione, sebbene i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini. Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a ovest i confini dell’Unione sono continuamente violati. L’Unione europea non è quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano quotidianamente di allargare per garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità e quello della mobilità sono due facce della stessa medaglia. Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato per tutta l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca il governo neoliberale dell’Unione. Questo gioco delle parti è ormai parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è invocata a viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle politiche di austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da precarie, operai e migranti.
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Prima che muoia la democrazia e inizi la guerra
di Piotr
Il rischio RefeRenzum e il rischio delle presidenziali USA sullo sfondo di una crisi mondiale
1. Il referendum e la democrazia in Italia
L'altra sera sono andato a un'assemblea pubblica a Roma sul prossimo referendum, indetta dal Movimento 5 Stelle. Presenziavano vari esponenti locali e nazionali del Movimento e il relatore era Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Sala stracolma e giudice Imposimato scatenato contro chi tira le redini della politica mondiale, contro Renzi, contro Napolitano, contro Trump e - parole rarissime al giorno d'oggi - contro un governo che penalizza i settori più deboli della società.
Contro una "riforma" truffaldina della Costituzione che letteralmente, parole sue, lo "disgusta".
Un referendum a risposta suggerita
Così come è disgustosamente truffaldino il quesito che ci verrà sottomesso. Roba del tipo "Sei a favore della riforma del sistema bicamerale che farà risparmiare sui costi della politica?" [1]. E come fai a dire di NO? Non vuoi forse risparmiare sui costi della politica? Peccato due cose. La prima, non formale ma sostanziale, è che eventualmente a quella conclusione ci dovevo arrivare io, in piena libertà. La seconda è che è una balla.
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Il Fallimento della Dottrina Militare Americana?
di Federico Pieraccini
Analizzare la crescente insoddisfazione dei generali statunitensi verso i vertici politici di Washington, permette di gettare una nuova luce sulla direzione in cui procede la macchina militare Americana. In particolare è interessante osservare la futura programmazione bellica nell’ambito delle forze di terra, mare, aria, spazio e cyberspazio
Terminata la guerra fredda le forze armate statunitensi si ritrovarono senza un vero e proprio avversario paritetico, decidendo quindi progressivamente di cambiare strategia ed investimenti in materia di guerra e conflitti. Passarono dal possedere una vasta forza numerica pronta a combattere avversari dello stesso livello (URSS), con una programmazione militare specifica, ad una strategia focalizzata su avversari ibridi (milizie o forze regolari) o di taglio inferiore (Iraq, Siria, Afghanistan, Jugoslavia, Libia). La forza militare degli Stati Uniti iniziava quindi a mutare programmazione e tattiche, assolvendo alle richieste dei nuovi inquilini della casa Bianca, i famigerati Neocon. Seguendo una dottrina militare incentrata sul concetto di mondo unipolare, miravano alla dominazione globale.
E’ da quando agli inizi degli anni 90’ i decisori politici (policy-makers) a Washington si prefissarono l’obiettivo utopico di egemonia planetaria, che le forze armate USA hanno dovuto espandersi per creare nuovi centri di comando (USAFRICOM, USNORTHCOM), oltre a quelli già esistenti (USEUCOM, USNORTHCOM, USPACOM, USSOUTHCOM, USSOCOM, USSTRATCOM, USTRANSCOM), dislocandoli in ogni angolo del pianeta.
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La società dei devianti nell’epoca della prestazione
di Gioacchino Toni
Piero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00
Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).
Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento.
«Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).
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L’università fra nuova proletarizzazione e paradigma dello zombie
di Federico Chicchi
Per chi abita l’Università da diverso tempo e, come me, secondo ruoli e prospettive differenti che sono progressivamente cambiate con il trascorrere degli anni, credo possa risultare piuttosto evidente che questa stessa istituzione, addirittura millenaria, ha subito negli anni recenti una severa e profonda trasformazione. In realtà non è il termine trasformazione quello più adatto a rendere conto di ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo all’Università. Il concetto di trasformazione infatti richiama etimologicamente il superamento di una forma per lo più esteriore, qui si tratta invece di qualcosa che, pur implicando anche una nuova rappresentazione sociale dell’Università, mobilita e porta con sé un vero e proprio cambiamento di natura, qualcosa quindi che incide fino in fondo la sostanza, lo spirito del suo funzionamento. Per certi versi non sarebbe credo azzardato affermare che l’Università, almeno quella che eravamo abituati a frequentare, è morta ma non sepolta (per giocare un poco con la nostra lingua). Non è sepolta perché pur avendo completamente perso le funzioni educative e di produzione di un sapere teorico generale che prima (non senza problematicità, intendiamoci) la caratterizzavano, non solo mantiene e prolunga, stile tardo impero romano, le griglie gerarchiche e baronali di esercizio tradizionale, ma per certi versi esalta in modo nuovo il suo ruolo sociale ed economico. In che senso? Potremmo dire che si tratta di una nuova fenomenologia dell’istituzione che io definirei fenomenologia zombie.
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Olivi e l’usus pauper
Augusto Illuminati
La rivendicazione della povertà cristiana nel XIII secolo, dopo una lunga parentesi di oblio rispetto alle origini, cade in un’epoca non solo di ricchezza ecclesiastica ma di profonda feudalizzazione della Chiesa spinta sino alla simonia, assumendo un carattere di contrapposizione ereticale ma corrispondendo pure a tendenze interne dell’apparato a ridurre il tasso di corruzione e sottrarsi a ingerenze mondane nei propri ordinamenti.
Francesco ne è un buon esempio, nel suo sforzo di rivendicare e praticare una sequela della vita di Cristo, una forma di vita più che una regola, schivando una normatività che poteva procurargli accuse di eresia quali, dopo la sua morte, colpiranno i seguaci troppo radicali.
La Regula non bullata, stesa da Francesco stesso nel 1221, è assai ruvida e poco dottrinaria, condannando ogni sorta di proprietà, individuale e comune, e bandendo lo stesso maneggio del denaro, materiale o mediato da procuratori: perfino l’accettazione delle elemosine è permessa nel solo caso della cura dei malati e del soccorso ai lebbrosi. I frati Minori (cioè quasi minorenni giuridicamente incapaci) non devono svolgere compiti amministrativi, tanto meno diventare prelati, ma fornire soltanto lavoro manuale e subalterno, con salario in natura e mai monetario. La Regula bullata (1223) approvata da papa Onorio III, è più moderata, tanto che Francesco l’accetta (per i vantaggi del riconoscimento istituzionale) ma raccomandando che sia applicata alla lettera, sine glossa come ribadisce nel Testamento; in compenso vi è molto enfatizzata la sanctissima o altissima paupertas.
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Uscire dall'Euro? Un confronto
di Giorgio Lunghini e Sergio Cesaratto
Di seguito un intervento allarmato (e allarmistico?) di Lunghini, a cui risponde Cesaratto
Le conseguenze di un’uscita dall’euro
di Giorgio Lunghini
Qualche cifra sugli effetti di un abbandono della moneta comune per capire perché è meglio evitare
Vi è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem), e soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo armamentario di politica economica (per una rassegna delle diverse posizioni si può vedere il mio commento («L’euro: un destino segnato?»), Critica Marxista, marzo-giugno 2015). Differenti sono invece le valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem – che taluni addirittura invocano. Questa a me pare questione di grande importanza, e qui riprendo le stime e la conclusione di Carluccio Bianchi (che faccio mie e che si possono trovare per esteso cercando su Google “lincei 2015 bianchi storia breve dopoguerra”).
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Difendere il canone (senza trasformarsi in Harold Bloom)
di Mimmo Cangiano
Un canone, quando giunto a stabilizzazione, è l’espressione culturale di un insieme di relazioni sociali che vogliono surrettiziamente veicolarsi come eterne; vogliono presentare come atemporali, mediante il loro riflesso culturale, i nessi storici (le lotte storiche) che le hanno prodotte. In seconda battuta, visto che la relazione fra reale e culturale è inevitabilmente dialettica, lo stesso canone ha il compito di stabilizzare la forma raggiunta da quelle medesime relazioni. Tale stabilizzazione è cioè un elemento di lotta politica dove il canone ha il compito di ribadire, si perdoni il pleonasmo, la vittoria dei vincitori, e di presentarla come storicamente insuperabile.
È un principio semplice, utile perché permette di separare con chiarezza due schieramenti politici. Marxismo, post-colonialismo, cultural studies, decostruzionismo, benché riferiscano ad elementi diversi per ciò che concerne la formazione del suddetto canone, si ritrovano d’accordo circa le ragioni e modalità della sua formazione. Sinistra e Destra sono qua divisibili cioè con relativa semplicità.
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L’economia è una scienza?
di Beneath Surface
Che l’economia non sia un scienza sperimentale in senso stretto è noto da oltre 200 anni. Non è possibile fare esperimenti “in vitro” tanto per vedere come reagirebbe l’economia se si variassero certi parametri invece di altri, e l’alternativa sarebbe tentare di farlo nella realtà, a rischio di un po’ di macelleria sociale.
È questo il motivo fondamentale che ha condotto i primi economisti a riflettere sui metodi aperti al teorico per studiare questa scienza sociale. Tanto che la prima riflessione economica tocca argomenti importanti per la filosofia della scienza, e in particolare l’epistemologia, la sua branca dedicata all’analisi della conoscibilità dei fenomeni e ai metodi per farne efficace ricerca.
John Stuart Mill delineò un approccio speculativo che continua a influenzare (malgrado i suoi quasi 200 anni e i progressi di statistica e matematica) il modo in cui il pensiero economico viene elaborato e prende forma. Mill partì dalla considerazione che vi sono molteplici correlazioni e influenze reciproche fra fattori transeunti che rendono difficile capire le relazioni che governano l’economia, rendendo arduo l’approccio tipico delle scienze empiriche: raccogliere una gran mole di dati dalle osservazioni e poi dedurne una teoria.
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La democrazia come doxa dei corpi vivi e come sistema di partiti
Risposta a Piccinelli
di Alfredo Morganti
Il testo che segue ci è stato inviato dall’autore come risposta all’articolo di Francesco Piccinelli uscito su questo sito, in merito all’ipotesi di una democrazia senza partiti e alle prospettive che potrebbe offrire l’intelligenza artificiale a riguardo. L’autore intende porre in risalto alcuni punti discutibili, che ritiene imprescindibili, che ha trovato nell’articolo di Piccinelli, accanto ad osservazioni stimolanti
1. “I partiti servono a mettere in contatto cittadini e istituzioni”. Attraverso di essi, “le domande che arrivano dall’esterno arrivano dove vengono prese le decisioni”. Così scrive Piccinelli. Osservo che i partiti, nel loro ruolo di ponte tra società civile e Stato, non possono limitarsi a raccogliere domande “che arrivano dall’esterno” per trasferirle tutte d’un pezzo, come un’eco, all’interno degli organi decisionali. I partiti sono soggetti che selezionano quelle domande, le organizzano e spesso ne propongono dialetticamente delle altre, alternative o laterali, e non possono affatto limitarsi al ruolo di passacarte. Questa visione unidirezionale è esattamente il portato ideologico attuale più forte della crisi dei partiti, e della convinzione diffusa che la voce dei cittadini sia il solo ed unico antecedente dell’azione politica, l’ascolto senza filtri dei partiti sia l’atto successivo e il ‘canale’ di trasmissione debba essere tutto a senso unico, direzionato dalla periferia al centro. No invece, perché se così fosse l’origine della crisi della democrazia rappresentativa sarebbe lampante. Generata dalla morte dei partiti ridotti a portavoce, passacarte appunto, e a comitati elettorali. La ‘rappresentanza’ muore, difatti, con la politica ridotta a marketing, con la personalizzazione mediale, con lo sciocco cortocircuito tra elettore e leadership.
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Figure della povertà
Francesco Raparelli intervista Toni Negri
Francesco Raparelli – In un volume sul materialismo (Kairòs, Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, 2000), scritto nei primi anni del tuo tormentato ritorno in Italia, hai dedicato pagine di grande importanza (e bellezza) al tema della povertà. Figura che si colloca tra la singolare, ed eterna, disposizione del comune e l’amore come potenza ontologica per eccellenza. Il povero cui ti riferisci, però, non ha nulla a che fare con l’oggetto della cristiana carità, costituito dalla pena, è, piuttosto, soggetto biopolitico. Puoi chiarire meglio questa definizione?
Toni Negri – Questa definizione va afferrata da due punti di vista. Il primo è quello in cui si assume che il povero è effettivamente nudità, utilizzando un termine corrente del linguaggio filosofico odierno. Ed è concretamente miseria, ignoranza, malattia. Questa pesantezza corporea, intellettuale e morale della povertà è il punto che, innanzitutto, ci colpisce. Noi guardiamo il povero in questa occasione, con una tensione che non è – almeno per quanto mi riguarda – pietà, ma, piuttosto, curiosità. Interesse a comprendere il povero davanti a me e, insieme, a ricostruire la memoria del povero che sono stato. Che cos’è l’esser fuori, sul limite, sul margine? Non comporta una riflessione metafisica: il margine è completamente materiale. È appunto miseria corporea, malattia, ignoranza, incapacità di stare ai livelli di un sapere comune; è esclusione, per infiniti versi.
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La sinistra spagnola di fronte al dilemma dell’UE e dell’euro
di Diosdado Toledano*
Lo Stato spagnolo, composto da una pluralità di nazioni e popoli, attraversa —a seguito della crisi del bipartitismo che si è alternato al governo negli ultimi 30 anni— un periodo di instabilità politica. Il partito socialista che continua a dirsi di sinistra, assieme al PP e alle formazioni nazionaliste di destra, hanno condiviso le politiche di “risanamento” e di austerità imposte dalla "troika" negli ultimi anni. Per cui preferiamo parlare di sinistre nello Stato spagnolo.
L'influenza del passato “franchista” nell’illusione europeista
Sotto la prolungata dittatura fascista in Spagna, le "democrazie" europee, con il loro benessere e i loro diritti sociali, sono state un riferimento per una maggioranza dei cittadini di Spagna. Dopo la morte di Franco e la transizione dalla dittatura alla democrazia, l'incorporazione dello Stato spagnolo alla Comunità economica europea avvenuta il 1 gennaio 1986, ha avuto un ampio consenso sociale. Il sogno del consolidamento della democrazia parlamentare e, soprattutto, di raggiungere il tenore di vita dei paesi europei più sviluppati era quello della maggioranza dei cittadini. Tre anni dopo la moneta spagnola, la peseta, è stata incorporato nel meccanismo del Sistema monetario europeo; nel giugno del 1991, l'accordo di Schengen è stato firmato, e con esso l'apertura delle frontiere; nel 1992 viene firmato il trattato di Maastricht, con i suoi quattro requisiti di convergenza economica, il trattato che dà origine e nome all'Unione europea.
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Guerra sempre più globale e nuovo disordine mondiale
di Gianfranco Greco
“La guerra preme dappertutto, i conflitti facilmente emergono, lo sviluppo delle nuove tecnologie complica lo scenario… Però mi fa più paura quel che non succede di quel che succede. Per esempio, c’è molta gioventù disoccupata, che ora si sta rassegnando a vivere col reddito minimo, che si sta addormentando… e non lotta” (Josè Alberto Mujica, ex presidente dell’Uruguay)
L’orologio dell’apocalisse
Sebbene solo metaforico, il cosiddetto “Doomsday Clock” (Orologio dell’apocalisse) rileva quanti minuti mancano alla mezzanotte della guerra nucleare. Ebbene, questo segnatempo simbolico - ideato dagli scienziati del Bulletin of the AtomicScientists dell’Università di Chicago nel 1947 – ci dice di quanto la lancetta si sia spostata in avanti. Se nel 2012 alla mezzanotte mancavano 5 minuti, nel 2015 i minuti si sono ridotti a 3, la stessa cifra rilevata nel 1984, ossia in piena guerra fredda.
Pur coi limiti propri di una figurazione simbolica resta tuttavia il fatto che la ricerca in questione riesce a focalizzare appieno una realtà globale sempre più innervata di fattori critici insieme al loro corredo di esplosività latente.
Gli scienziati dell’Università di Chicago valutano la possibilità di una catastrofe riferendosi – come parametri presi in esame –al cambiamento climatico incontrollato, agli arsenali atomici e all’ammodernamento globale delle armi nucleari.
Ci si riferisce, in una, ad una potenziale guerra guerreggiata che, tuttavia, di per sè non esaurisce tutte le altre opzioni che, beninteso, vanno a costituire i prodromi dai quali scaturiscono, alla fine, gli scontri bellici tout court.
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Italia – Europa – Mondo
di Pierluigi Fagan
Jakub J. Grygiel insegna alla P.H. Nitze School della Johns Hopkins University ritenuta il vertice dell’insegnamento per le Relazioni Internazionali (in compagnia di F. Fukuyama e Z. Brzezinki), consulente OECD e World Bank, pubblica su American Interest e Foreign Affairs. Proprio sul numero di Settembre della rivista americana che dà voce a gli studiosi degli scenari internazionali e della geopolitica dal punto di vista americano, Grygiel lancia la visione (qui) di una Europa in cui ritornano di centralità gli Stati-nazione. Ma non lo fa come lo farebbe un giornalista decerebrato dal tormentone retorico del terrore per il ritorno dei nazionalismi e dei populismi, lo fa da sano realista, intuendone la necessità e poi cogliendone le opportunità.
Grygiel definisce l’UE “sconnessa, inefficace ed impopolare” e più avanti “in chiaro deficit democratico”. Crisi dei migranti, asimmetrie non più sostenibili all’interno della zona euro, paralisi geopolitica nei confronti della Russia, del Medio Oriente, del Nord Africa, senza più il fidato (per gli americani) sergente britannico, scollamento ormai palese tra progetto ed opinioni pubbliche. Forze destabilizzanti che, in assenza di risposte e soluzioni, portano sempre più leader politici nazionali ad un ritorno alle leve di sovranità interna. L’utopia europea sembra aver perso la scommessa contro la sovranità nazionale.
Un ritorno allo Stato-nazione che, secondo lo studioso, non porta di necessità ad un traumatico scioglimento dell’UE ma ad una richiesta di minori vincoli unionisti e maggior libertà nella gestione delle essenziali leve del potere stato-nazionale, sul modello della linea del Gruppo di Visegrad – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.
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Frantz Fanon e le geografie marxiste della violenza
di Matthieu Renault
Ne "I dannati della Terra", Frantz Fanon avvia una celebre polemica contro Engels e la sua teoria della violenza. Da questo scambio i commentatori hanno tratto un'opposizione irriducibile fra un soggettivismo fanoniano ed un oggettivismo marxista. Contro una simile lettura schematica, Matthieu Renault propone qui di ripercorrere gli itinerari non-occidentali delle teorie della violenza. Viene così evidenziata la metamorfosi del marxismo rispetto alla guerra rivoluzionaria, sottolineando la centralità di Freud nell'economia fanoniana della violenza.
«La posta, al di là del presente tentativo, è la formazione di un pensiero globale della violenza emancipatrice, il solo che è in grado di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione effettiva delle forme di violenza istituzionale.»
L'analisi che segue parte dalla constatazione di una dissociazione quasi completa fra due campi di problematizzazione nell'ambito di quel che abbiamo voluto chiamare gli "studi fanoniani". Da una parte, abbiamo numerose interpretazioni della teoria della violenza di Fanon; tutte tendono a porre l'accento sulla natura strutturale della violenza coloniale e sulle dimensioni esistenziali, soggettive e piscologiche-cliniche della violenza anticoloniale, sul suo potere purificatore-disintossicatore, e sui limiti di tale potere. Abbiamo, dall'altro lato, delle riflessioni sul complesso rapporto di Fanon con il marxismo; girano tutte attorno ai temi dell'alienazione, della corruzione delle borghesie nazionali, delle relazioni fra "razza" e "classe", ecc., mettendo in discussione, e talvolta condannando, l'eurocentrismo della tradizione marxista. Ma, stranamente, a parte qualche riferimento alla critica svolta da Fanon delle posizioni di Engels, su cui torneremo, la questione delle sue relazioni con il pensiero marxista della violenza è stata ampiamente ignorata, come se non esistesse. Cercheremo di dimostrare che non è così.
Al di là di queste considerazioni esegetiche, questa ricerca vuol essere un contributo ad uno studio della geografie della violenza, sia della sua pratica che della sua teorizzazione, della sua circolazione e delle sue trasformazioni rivoluzionarie.
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La natura dell’impresa capitalistica
di Carla Filosa
La gerarchia dispotica del capitale spiegata nell’ultimo libro di Domenico Laise, professore marxista de La Sapienza di Roma
“La natura dell’impresa capitalistica” (EGEA, Milano, 2015) di Domenico Laise – docente di Economia e controllo delle organizzazioni, alla Facoltà di Ingegneria Gestionale, all’Università di Roma, La Sapienza – è un testo pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, ma che non ha ancora avuto una sua giusta diffusione in ambito accademico e non solo. Il libro consta di 559 pagine e si suddivide in tre parti che fanno capo a un‘unica caratteristica centrale dell’impresa capitalistica: la gerarchia dispotica. Questa viene indagata in quanto funzionale all’ottenimento sia a) dell’efficienza economica o del profitto, sia b) dello sfruttamento del lavoro umano, sia infine c) alle connessioni tra la Teoria Economica delle Organizzazioni e la Scienza dell’Artificiale.
La gerarchia dispotica capitalistica non rappresenta un ordine naturale, necessario quanto generico interno all’impresa, bensì risulta essere organizzazione di un rapporto sociale stabilizzatosi storicamente in potere autocratico, che si promana in ogni dettaglio relazionale e in tutti gli altri rapporti sociali e istituzionali. In altri termini, il capitale (come concetto), che domina nella capillarità delle sue innumerevoli imprese, non può che esercitare un comando coercitivo nei confronti dei suoi agenti e sottoposti per la produzione di valore e plusvalore, unico proprio fine produttivo.
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Dalle piattaforme civiche alle città ribelli
di Beppe Caccia*
Prime note su un “nuovo municipalismo” in Europa a partire dal caso di Barcellona
La definizione di un “nuovo municipalismo” muove da un fatto politico significativo: i risultati delle elezioni amministrative spagnole del maggio 2015, che hanno visto l’affermazione di sindaci e liste espressi da plataformas ciudadanas. In alcune grandi città della Penisola Iberica – tra cui Madrid, Barcellona, Valencia, Saragozza, La Coruna – quei sindaci e quelle coalizioni sono ora al governo. In altri rappresentano la principale forza di opposizione. Questo fenomeno è legato al ciclo di movimenti di massa che hanno occupato la scena sociale dal 15M 2011 in poi, ed è ovviamente correlato alla nascita e allo sviluppo di nuove forze politiche, anche su scala nazionale. Podemos in particolare è, in quasi tutti i casi, una componente di tali coalizioni. Ma vanno pure considerati alcuni fattori più specifici.
In primo luogo – ed è questa la prima tesi che intendiamo sviluppare – l’emergere delle “piattaforme civiche” è connesso alle trasformazioni strutturali che hanno investito le città contemporanee nell’epoca della finanziarizzazione del capitalismo, e all’impatto che le politiche di austerity hanno determinato sulle aree urbane nella recente gestione europea della crisi. È questala ragione per cui l’esperienza di Barcelona en Comú, che ha portato all’elezionea sindaca di Ada Colau, già portavoce del movimento per il diritto alla casa PAH, si è rivelata così interessante: non solo perché è stata in grado di suscitare effetti potenti, sia sull’immaginario sia sulla realtà politica, ma anche perché ha prodotto un rinnovato livello di attenzione sul tema delle forme alternative di governo locale in tutta Europa.
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Il trilemma di "Non è l'euro il problema, ma l'austerità". E il differenziale mediatico
di Quarantotto
1. Per chi dice che l'euro non è il problema ma che lo sono (solo) l'austerità e il fiscal compact.
Inutile precisare che chi, a questo punto, non è in grado di comprendere il senso dei grafici che vedremo più sotto non dovrebbe più intervenire a cuor leggero nel dibattito mediatico e, ancor più, politico.
Questo perché, sull'euro-che-non-è-il-problema-senza-austerità-brutta, basta vedere i dati più significativi, e confermativi delle dinamiche INEVITABILI illustrate dal rapporto Werner - e che Carli, dico Carli, ben comprendeva.
2. Questi dati illustrano come funziona(va) l'Unione monetaria con il mero "valore di riferimento" del disavanzo pubblico al 3% e in assenza di una disoccupazione strutturale indotta in via fiscale, che debba attestarsi a livelli, (come tali irreversibili), tali da consentire un'intensa svalutazione interna.
Cioè indicano quali sono gli inevitabili problemi di a/simmetrie che discendono da una disciplina della moneta unica che, in assenza dei vietatissimi (dai trattati) trasferimenti federali, non si doti di criteri automatici di correzione improntati alla logica del gold standard (tanti euro-oro escono, tanti vanno recuperati e, se non lo si è fatto, occorre che il pareggio di bilancio fiscale dreni liquidità in modo da non consentire l'accumulo ulteriore di debito commerciale con l'estero via spesa privata, limitando le importazioni e sperando, in un secondo tempo, che la conseguente deflazione porti a una miglior competitività di prezzo relativo, ottenuta riducendo il costo del lavoro).
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Cambi di fronte e propaganda in Siria
Aspettando le presidenziali USA
di Federico Dezzani
Nell’attuale contesto di deterioramento economico e politico, nessun quadrante merita maggiore attenzione di quello mediorientale, candidato ad essere l’innesco di quella possibile “guerra costituente” che ridisegnerebbe gli assetti globali: in Siria, in particolare, l’attrito tra il declinante impero angloamericano e le potenze emergenti è massimo. L’avvicinamento tra Putin ed Erdogan è la principale novità strategica accorsa nell’estate: ne è seguita una campagna mediatica che presenta Aleppo come “nuova Sarajevo”, vittima di un brutale assedio che invoca l’intervento occidentale. Gli sviluppi sono appesi alle presidenziali americane: l’eventuale elezione di Hillary Clinton renderebbe certo il tentativo di imporre una zona d’interdizione di volo sulla Siria, con alte probabilità che il conflitto degeneri in una guerra di larga scala.
Accordo tra Mosca ed Ankara: vince la ragion di Stato
Negli ultimi due anni il Medio Oriente è stato spesso oggetto dei nostri articoli, per due ragioni: primo, è l’area geopolitica dove l’Italia coltiva i suoi naturali interessi, secondo, come abbiamo sovente evidenziato nelle nostra analisi, la regione si è via via guadagnata la funzione di “Balcani globali”, quell’instabile regione, cioè, idonea a giocare sullo schacchiere internazionale lo stesso ruolo della penisola balcanica nel 1914.
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Ranking e lotta di classe
di Roberto Ciccarelli*
La Californian Ideology e il sogno dell'automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato
Un paio di settimane fa ho visto la puntata Il pianeta dei robot di Presa diretta, una delle poche trasmissioni Tv che fanno inchiesta in Italia. Bella trasmissione, e se siete interessati potete rivederla qui. Peccato che abbia accreditato la solita versione apocalittica della cosiddetta “ideologia californiana”.
Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito di base universale.
In questa miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori de La nuova rivoluzione delle macchine, Google, Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse, argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple.
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Paolo Sylos Labini, un intellettuale economista
di Joseph Halevi
1. Introduzione
Durante tre decenni l’Italia è stata il fulcro di un pensiero economico molto avanzato - sia filosoficamente che politicamente - ove si intrecciavano tematiche classiche e keynesiane. Poi dalla fine degli anni 80 tale filone venne accantonato, non per volontà dei suoi principali ispiratori. Il declino coincise con la deriva politico-morale del paese (Sylos Labini, 2002, 2006) assieme all’omologazione subalterna della didattica e della ricerca ai criteri inventati nelle università statunitensi con irreparabile degrado della ricchezza del proprio bagaglio culturale.
E’ mia convinzione che Paolo Sylos Labini abbia costituito, fin dalla metà degli anni 50, il polo di maggior rilievo per la formazione e la crescita di quell’età dell’oro del pensiero economico che in Italia si venne formando nel quarto di secolo successivo alla Liberazione e alla fondazione della Repubblica. La pubblicazione della famosa monografia Oligopolio e progresso tecnico (1956, 1962, 1967) ebbe, in breve tempo, una risonanza internazionale, come testimonia la profonda disamina dello studio svolta -congiuntamente al lavoro di J.S. Bain Barriers to New Competition -da Franco Modigliani (1958) sulle pagine del Journal of Political Economy ancor prima della traduzione in inglese. Il valore universale di Oligopolio, comprovato dalle molteplici traduzioni, è stato ulteriormente sottolineato nel 1993 con la ristampa dell’opera da parte della casa editrice Augustus M. Kelley nella serie Reprints of Economic Classics.
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Se non cambia stagione
Riflessioni sul “caso” Tiziana Cantone
di Sebastiano Isaia
Boris mi ha fornito poco fa un compendio di come
la vede. È un profeta del tempo. Farà brutto ancora,
dice. Ci saranno ancora calamità, ancora morte,
disperazione. Non c’è il minimo indizio di cambiamento.
Il cancro del tempo ci divora. […] Non c’è scampo.
Non cambierà stagione (H. Miller, Tropico del cancro).
Io ho solo sedici anni, e il mondo non lo conosco
ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con
sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo sia,
in questo mondo, è proprio un cretino
(H. Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo).
Quando ho saputo della squallida e tragica vicenda di Tiziana Cantone un solo concetto si è fatto fulmineamente strada nella mia testa, quello di violenza. Sì, la violenza sistemica (economica, politica, militare, psicologica) di cui ho tanto scritto in tutti questi anni. Certo, anche il concetto di Sistema mondiale del terrore, magari in una sua declinazione più particolare e puntuale (“microfisica”, per dirla con Foucault), è tutt’altro che fuori luogo rispetto alla fattispecie qui considerata.
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Intervista a John Smith, autore di Imperialism in the twenty-first century
di Daphna Whitmore
Il volume di John Smith sull’imperialismo è un lavoro innovativo che getta una luce inedita sul super-sfruttamento del sud globale. Daphna Whitmore di Redline lo ha intervistato a proposito del suo libro
DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?
JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico, il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie, considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.
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Classe Lavoratrice, Politiche Identitarie e Neo-Vittorianismo
di Maximilian C. Forte
Da Zero Anthropology (account twitter che vi suggeriamo di seguire) traduciamo l’estratto di un saggio che traccia un parallelelismo tra l’imperialismo attuale e quello dell’era vittoriana. Nella prima parte l’autore fa una sorta di tagliente antropologia del piddino, e scopriamo che l’appiattimento e il conformismo della cosiddetta “sinistra” verso le posizioni del potere capitalista era già stato ben individuato e descritto negli anni ’90 negli Stati Uniti (nota: il Partito Democratico di cui si parla è quello americano). Nella seconda parte l’autore interpreta la Storia attuale come una riedizione o una continuazione (in declino) dell’imperialismo vittoriano ottocentesco
Contro la classe lavoratrice: Le politiche identitarie nell’era neo-vittoriana
Il neo-vittorianismo non serve solo a distrarre la politica verso le questioni della moralità e dell’identità, ma anche a offuscare le basi della crescente disuguaglianza. Se ci concentriamo sul Partito Democratico e sul suo abbandono della classe lavoratrice nel corso degli ultimi quaranta anni, Adolph Reed Jr. (professore di scienze politiche all’Università di Pennsylvania) sembra aver inteso fin dall’inizio come tutte queste questioni siano collegate tra loro — sebbene lui non usi l’espressione “neo-vittorianismo”, lo descrive con altre parole. Parlando dei democratici e dei “liberals” i generale, scrive:
“la loro capacità di dimostrare il più sublime fervore per i più vuoti e insipidi luoghi comuni, la loro tendenza a fare dei modi un feticcio trascurando la sostanza, a cercare le soluzioni tecniche ai problemi politici, la loro capacità di trascurare il crescente massacro sociale nelle stesse città in cui vivono mentre cercano i locali migliori dove bersi un buon caffè con le focaccine, la loro propensione ad estetizzare l’oppressione delle altre persone chiamandolo attivismo, il loro riflesso di storcere il naso e accigliarsi di fronte a un conflitto e, più di tutto, la loro inettitudine e inaffidabilità nel corso delle crisi” (Reed, 1996).
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