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Teorie sul debito e sull’austerità: tutto da rivedere!

di Ilaria Bifarini

La campagna mediatica per il pareggio di bilancio e la lotta al debito pubblico da parte degli economisti, liberisti prima e neoliberisti oggi, è divenuta così ossessiva e martellante da essere passivamente accettata come verità dall’opinione pubblica.

È stata costruita una narrazione unica, supportata e amplificata dai media mainstream, per la quale la crisi economica sarebbe la conseguenza inevitabile dei comportamenti irresponsabili e dispendiosi tenuti dagli Stati nazionali, ultimo baluardo di democrazia nella dittatura del mercato unico iper-globalizzato.

Attraverso una sapiente arte manipolatoria, la questione del debito è stata ricondotta a una categoria etico-morale, da cui ne deriva che le politiche economiche di austerity attualmente applicate rappresenterebbero l’unica strada percorribile, nonché la pena necessaria e inevitabile per espiare i peccati commessi. Facendo leva su meccanismi psicologici e innati dell’uomo, come il senso di colpa, teorie economiche prive di fondamento scientifico vengono riconosciute come assiomatiche e perciò inconfutabili.

Così, misure di austerità, fatte di tagli alla spesa pubblica, inasprimento fiscale ai fini di ridurre il debito pubblico – nonché ricorso massiccio alle privatizzazioni e alle (s)vendite di asset pubblici nazionali a investitori stranieri- vengono applicate in tutto il mondo, dall’Africa all’Europa, senza risparmiare nessuno.

Le motivazioni addotte per giustificare la focalizzazione sulla riduzione del debito sono che, sebbene situazioni gravi di shock come la Grande Depressione del 1929 o la crisi finanziaria internazionale degli ultimi decenni siano molto rare, è opportuno che gli Stati abbiano il giusto tempo per rimettere il debito nel caso in cui esse si presentino e, più genericamente, che il debito rappresenti una condizione negativa per la crescita. Eppure la letteratura economica non riscontra un nesso evidente tra le politiche di riduzione del debito e la diminuzione del livello di rischio di una crisi.

Nel 2010, come una manna dal cielo, due docenti della prestigiosa Università di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, proprio quando sta scoppiando la crisi ellenica, offrono la base scientifica di cui i globocrati di Bruxelles hanno bisogno per convalidare le proprie politiche: nella loro pubblicazione “Growth in a Time of Debt”, forniscono la prova “scientifica” che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del Pil diventa un ostacolo insuperabile alla crescita.

Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity, dalla Merkel ai Commisari dell’UE, fino al partito repubblicano oltreoceano. Lo stesso Krugman ricorda che lo studio ha “un ruolo cruciale nella svolta delle politiche economiche, con l’abbandono delle manovre anti- recessive sostituite prontamente con politiche di austerity.”

Quel 90% fornisce una cifra precisa, capace di esercitare quella fascinazione che solo la matematica applicata è in grado di fare. D’altronde, lo stesso parametro del 3%, imposto come soglia da non superare per i deficit degli Stati dell’Eurozona, è stato scelto su due piedi in base a un’ispirazione mistica: “avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? E’ un buon numero, un numero che fa pensare alla Trinità”. (Abeille)

Nel 2013 accade che dei professori dell’università di Amherst affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne il risultato. La scelta del giovane Herndon ricade proprio sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff e l’esito della sua analisi è sconvolgente: lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi rilevanti.

Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere l’errore, sebbene cercando di sminuirne la portata. Ma la credenza che l’aumento del debito pubblico sia dannoso alla crescita non solo non viene scalfita, ma anzi si rafforza e le politiche dell’austerity continuano a seminare sempre più vittime, in Europa come nel resto del mondo.

Secondo uno studio dell’Oxfam, “complessivamente l’austerità dovrebbe avere un impatto su oltre due terzi di tutti i paesi nel periodo 2016-2020, colpendo oltre 6 miliardi di persone o l’80% della popolazione mondiale entro il 2020″. E ancora: “Entro il 2025, l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più se le misure di austerità continueranno. Tale cifra è equivalente alla popolazione dell’Olanda e dell’Austria insieme.”

D’altronde la nocività delle politiche di austerity è nota agli stessi economisti del Fondo Monetario Internazionale, che in un paper dal titolo “Neoliberism Oversold?”(2016) provano come un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza, il cosiddetto indice di Gini. Una vera sciagura per lo sviluppo economico e sociale di un Paese.

Come può, dunque, una teoria economica priva di basi scientifiche, e i cui effetti nefasti per lo stato di salute degli Stati (e dei cittadini) sono comprovati, aver preso il sopravvento fino a divenire una verità inconfutabile?

La risposta, come spesso accade, la troveremo solo ponendoci un’altra domanda: cui prodest il perpetrarsi di tale sistema?


Da Interesse Nazionale
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