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La sinistra (che fu), il M5S e il “voto di classe”

di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena

I flussi elettorali dimostrano come il Pd sia diventato il partito dei benestanti e dei benpensanti mentre il M5S rappresenti il voto del riscatto sociale: emblematici i casi di Taranto, Barra e Parioli o il consenso ottenuto tra operai e disoccupati. Dove una volta sorgeva la sinistra, ora regnano i grillini che – con tutte le loro contraddizioni – sono riusciti a colmare un immenso vuoto politico.

La “sinistra”, il partito della Ztl (“zona traffico limitato”, il centro delle città, solitamente aree benestanti, ormai uniche roccaforti rimaste) non se ne fa una ragione; di come sia possibile che gli altri – i cafoni, gli ignoranti, i furbi e i mascalzoni, i nullafacenti, il popolino – abbiano votato la Lega al nord e i Cinque Stelle al sud. Ma come? Non viviamo nel miglior mondo possibile? E la modernità “smart” non è il miglior antidoto contro la paura?

Forse no. Era sufficiente farsi una passeggiata fuori dalla Ztl, in quell’area che un bel pezzo della sinistra ha ormai abbandonato da tempo non avendo più un’idea di progresso ed emancipazione collettiva da proporgli, per rendersi conto del malessere generale dei cittadini contro il cosiddetto “sistema”. Lo scorso 4 marzo ha confermato il trend europeo: un voto polarizzato secondo il binario establishment/anti-establishment, con la “gente” che ha sostenuto le forze cosiddette populiste, percepite come di rottura o contro l’attuale assetto di potere. Forze di alternative presunte, non reali. Ma considerate tali.

Come prevedibile al nord la Lega ha vinto battendo forte sui temi di sicurezza e immigrazione, foraggiando spesso la guerra tra poveri; ma anche riportando in auge temi laburisti, contro ad esempio la delocalizzazione delle aziende, perché la globalizzazione è un fenomeno complesso e che – se non si vive nella Ztl e non si viaggia agevolmente a Londra o a New York – mette a disagio i più. Al sud il M5S ha trionfato come emblema di un meridione vessato da crisi economica, disoccupazione, clientele e voti di scambio; un mezzogiorno vittima e colpevole allo stesso tempo e che non crede più a niente e a nessuno.

Il grido di protesta, soprattutto tra le fasce più deboli, è ben incarnato dal M5S: ha raccolto i frutti del malcontento e ha beneficiato degli effetti della crisi, rappresentando una forza anti-bipolarismo e scardinando, definitivamente, lo storico duopolio italiano, prima Dc-Pci poi centrosinistra-centrodestra. È la sinistra che ha collassato, in tutte le sue forme, sia quella cosiddetta riformista che quella radicale. Una sinistra in parte svuotata dal M5S.

Il Pd rappresenta quella “socialdemocrazia” che, negli ultimi anni, si è fatta fedele esecutrice delle politiche d’austerity e di generale compressione dei diritti. In nome di un generico “riformismo” si sono sostenuti i grandi piani di privatizzazione, deregolazione dei mercati, precarizzazione della vita dei cittadini, riduzione degli spazi alternativi alle logiche di consumo.

Dopo il crollo del Muro era chiaro che il mondo avesse preso una direzione ben precisa, e così la sinistra del governo ad ogni costo ha scelto di abbracciare l’ideologia unica. Un’ideologia sì unica, ma punitiva per i molti, perché favoriva e continua a favorire la crescita delle disuguaglianze. A studiare i flussi elettorali, si evince come il Pd sia diventato il partito dei benestanti e dei benpensanti. Una storia non nuova, e torna in mente lo scambio in classe tra ragazzini delle scuole superiori in un liceo bene di Roma immortalato quindici anni fa in “Caterina va in città” di Paolo Virzì: «I comunisti sono quelli coi soldi, i fascisti sono quelli che stanno in mezzo alla gente». Il mondo alla rovescia.

Uno studio dell’università Luiss certifica come il Pd sia l’unico partito per cui si registrano effetti significativi della classe sociale sul voto, ma nella direzione inattesa di un suo confinamento nelle classi sociali agiate e con un reddito più alto. In sostanza il Pd del 2018 sarebbe diventato il partito delle élite, dei privilegiati. Ovvero, l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere, per definizione, una forza di sinistra. Un voto di classe, ma al contrario.

E i voti persi dal Pd dove sono andati? Massimo D’Alema era convinto di poter intercettare quegli elettori in fuga dal progetto renziano ma mettendo a capo di Liberi e Uguali la seconda carica dello Stato, Pietro Grasso (assieme alla terza, Laura Boldrini). LeU è stata vista come parte di quel cosiddetto “establishment”, un’operazione di ceto politico, finendo per racimolare poco più di un milione di voti. Ovvero la stessa percentuale presa da Sel nel 2013. I voti in fuga dal Pd sono andati al tanto odiato M5S. Si parla di due milioni di consensi al Movimento provenienti dalla sinistra, mentre Swg rivela che il 35 per cento di chi nel 1987 votò Pci oggi sceglie Cinque Stelle.

È significativo il caso di Taranto. Una città in cui l’Ilva, con tutte le sue conseguenze, è un pilastro fondante. Taranto rappresenta al meglio la Caporetto di una sinistra (lavorista) che non è riuscita a stare al ritmo dei tempi, stretta nella contraddizione tra diritti del lavoro e quelli alla salute, perdendo anche lì i suoi voti a vantaggio del M5S, il quale ha conquistato il 47,7 per cento.

Nel frattempo, sempre citando la ricerca della Luiss, si evidenzia come «la crescita del M5S appare nettamente associata alle province italiane che presentano un più alto tasso di disoccupazione, mentre il voto alla Lega è più alto nelle province dove più è cresciuto il tasso di stranieri».

Tra i disoccupati il Pd ottiene il 10,3 per cento, LeU lo 0,6. Tra gli operai, invece, prendono rispettivamente l’11,3 per cento e l’1,3. Il M5S invece ottiene il 37 su entrambe le fasce. Così a Napoli, quartiere Barra, luogo forte della camorra, la “gente” ha votato in massa, al motto onesta e legalità, i Cinque Stelle. I poveri, gli ultimi e i subalterni votano M5S.

Già, il capoluogo campano; lì dove governa Luigi de Magistris, un sindaco che si definisce anti-sistema e fuori dagli schemi classici della politica, il M5S ha raggiunto il 52,4 per cento. Sotto le aspettative l’altra lista della sinistra radicale, Potere al Popolo, ferma all’1,1 per cento e che anche “in casa”, ovvero Napoli, non ha sfondato. Fa riflettere il dato proveniente dal municipio che ospita il centro sociale Ex Opg, fautore della lista: uno spazio radicato sul territorio che produce dal basso servizi e pratiche di mutualismo per la cittadinanza che però porta in dote un misero 3 per cento. A dimostrare che una cosa è l’intervento sociale, un altro sono i voti nell’urna.

Luigi Di Maio e compagni hanno attaccato la “casta” con tutti i suoi costi e i privilegi, la partitocrazia e un sistema di potere clientelare corrotto e corruttibile. Un catalizzatore per i delusi, piegati dalla crisi economica e istituzionale: i voti sono così piovuti da destra e da sinistra. Un consenso, quindi, trasversale e in parte diverso da quello che arriva alla Lega, la quale ha un profilo programmatico molto più marcato a destra.

Torna così, come ormai avviene a intervalli regolari da anni, la domanda: come possiamo, o dobbiamo, catalogare il M5S? Sono fascisti, sono la nuova sinistra, sono la Democrazia cristiana. Sono qualunquisti, sono tutto e niente, sono in alto e in basso. Etichettare, spesso, è rassicurante ma non sempre aiuta a comprendere i fenomeni. Probabilmente è la domanda ad essere sbagliata. Alessandro Gilioli, vicedirettore dell’Espresso, già nel 2015 scriveva: «La domanda non è se il Movimento 5 Stelle sia o no di sinistra, ma semmai se una parte degli elettori di sinistra o potenzialmente tali – specie quelli più giovani – continua a pensare di ottenere o meno una rappresentanza elettorale più vicina ai suoi ideali». Il nodo rimane questo.

Sicuramente il M5S sta cambiando rispetto al passato; trasformandosi da una forza che si definiva “anti-sistema” in una oggi perfettamente a suo agio dentro il sistema, utilizzandone linguaggio, retorica, propaganda. Un partito interclassista che non pone al centro della sua agenda politica la lotta alla disuguaglianza. Al massimo lambendola, in misura però sicuramente maggiore del Pd, il cui segretario dimissionario in campagna elettorale quasi cercò di muovere a compassione i capitani d’impresa: «Nessuno più di questo centrosinistra è venuto incontro a Confindustria». Per una volta Matteo Renzi fu sincero, drammaticamente sincero.

Ma – quello su cui vorremmo soffermarci – è un altro dato di realtà: il voto per i Cinque Stelle proviene da tanti e tante con una identità di “sinistra”, in tutte le sue declinazioni; la scelta del M5S come unico catalizzatore dell’opposizione ad un “sistema” del quale la sinistra (e i “suoi” sindacati, e i “suoi” giornali, e i “suoi” intellettuali) è percepita come parte integrante. E la ovvia, naturale, scontata, necessità (a sinistra) di tornare a raffrontarsi con i cafoni, gli ignoranti, i furbi e i mascalzoni, i nullafacenti, il popolino, cioè quel 20 per cento di popolazione italiana che messa insieme raggiunge a malapena la ricchezza dei 10 (dieci) italiani più ricchi di questo Paese. Senza farsi tentare da un istintivo disprezzo nei confronti di chi, spesso a propria insaputa, vive condizioni di sfruttamento quotidiano, di assenza di prospettiva e di strumentazione culturale.

Come si evince dai dati di Roma e Torino, dove il M5S ha subito un leggero calo elettorale, forse l’unico modo per far scoppiare la bolla Cinque Stelle è offrire ai grillini la prova del governo. Capire se alla prova dei fatti, riusciranno veramente a mantenere quel cambiamento promesso. Sarebbe sufficiente deludere le aspettative per rimescolare le carte. Il governo dà, il governo toglie. Mentre la sinistra o tornerà alle proprie radici, ai propri valori, ai bisogni del proprio frammentato e contraddittorio popolo, offrendo loro una prospettiva di reale riscatto e dignità, oppure domani un altro M5S sarà pronto a relegarla là dove oggi è confinata: dentro le Ztl.

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