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la citta futura

Potere al Popolo: Quali modelli organizzativi, quale statuto?

di Renato Caputo

Per un movimento costituente di un partito che unisca gli anticapitalisti sulla base del centralismo democratico

L’esperienza di Potere al Popolo! (PaP) ci sembra – in questa fase – decisiva e da sostenere, nonostante le sue evidenti e inevitabili contraddizioni, in quanto va in controtendenza rispetto all’irrazionale separarsi dei comunisti e, più in generale, delle forze antagoniste al capitalismo. Tanto più che non si tratta del solito aggregato elettoralistico, considerato che, pur andando peggio dei precedenti cartelli elettorali, PaP prosegue e, anzi, rilancia il suo percorso.

Perciò, altrettanto correttamente, si è posto all’ordine del giorno della prossima assemblea nazionale – che si terrà a Napoli il 26 e 27 maggio – proprio la questione di quali modelli organizzativi occorre dotarsi e di conseguenza di quale statuto. Anche perché la solita logica emergenziale, dettata dalla scadenza elettorale, ha, come al solito, portato a seguire logiche verticistiche e poco trasparenti, nello spirito dell’inter-gruppi proprio dell’aggregato elettoralistico, che non poteva che proseguire il trend dei fallimenti sempre più cocenti dei cartelli della sinistra alternativa.

Considerando che PaP, sin dal nome, aspira alla reale partecipazione popolare, dal basso, per restituire il potere decisionale ai subalterni, non può che mirare al superamento della logica verticistica e poco trasparente di assemblee fiume, in cui non è oggettivamente possibile decidere nulla di sostanziale, lasciando così tale compito alle ristrette stanze in cui si riuniscono i leader dei diversi gruppi organizzati per dettare la linea in modo elitario e sulla base di una logica incentrata sui meri rapporti di forza fra le diverse organizzazioni.

Dunque, visto che è certamente più semplice, cominciamo con il determinare cosa non debba essere PaP dal punto di vista organizzativo. In primis non può basarsi su un apparente orizzontalismo, ovvero su un assemblearismo anarcoide, funzionale a rendere necessaria la soluzione elitaria, per cui si discute tutti di tutto, tanto poi le decisioni che contano sono prese nelle separate stanze dai rappresentanti di una serie di organizzazioni che hanno generalmente perduto la capacità di essere un punto di riferimento per i proletari, come anche il termometro delle ultime elezioni non ha potuto che confermare. Quindi se non si vuole, inconsapevolmente, finire per riprodurre l’attuale deriva bonapartista che sta svuotando dall’interno le strutture rappresentative liberal-democratiche, è indispensabile che fra l’assemblea in cui ha il diritto di intervento il singolo militante e i luoghi decisionali operativi vi siano tutta una serie di strutture intermedie, che garantiscano una reale rappresentanza delle istanze della base.

Ora è evidente che quello di cui ci sarebbe davvero bisogno, da almeno un trentennio a questa parte, è un partito che rappresenti e sviluppi sul piano politico – ponendo in discussione gli attuali rapporti di proprietà, ovvero ponendo la questione del potere, attualizzando la lezione gramsciana sulla Rivoluzione in Occidente – gli interessi e i bisogni profondi del proletariato (ovvero di coloro che per riprodursi come classe hanno bisogno di vendere come merce la propria capacità di lavoro) nel suo complesso e di quei gruppi sociali con cui costituire, sulla base di una oculata politica delle alleanze, un blocco sociale capace di mettere in discussione il dominio sempre più incontrastato del capitale finanziario.

È altrettanto evidente che un partito – ossia la forma organizzativa di cui si sono dotati i ceti subalterni da quando, con la Rivoluzione francese, hanno messo per la prima volta in discussione la politica elitaria – non si costruisce per decreto. Né, visto che sbagliare è umano, ma perseverare diabolico, si può ripetere il limite di Rifondazione comunista che è passata da movimento a partito riunendo al proprio interno una serie di organizzazioni preesistenti e profondamente in crisi. Dalla somma delle debolezze si ottiene ben poco e un’organizzazione, come dimostra la tragica storia del Prc, non può funzionare se non supera la logica dell’inter-gruppi con la riscoperta del centralismo democratico, elemento decisivo per la concezione del Partito elaborata dai classici del marxismo come Lenin e Gramsci.

Dunque, ci sarebbe bisogno di rilanciare un movimento anticapitalista, antagonista e di classe che abbia come obiettivo, nel medio termine, il superamento delle varie organizzazioni – sempre più asfittiche e, perciò, inadeguate – in un nuovo Partito in grado di tornare a essere l’avanguardia in grado di dare una direzione consapevole ai conflitti sociali che spontaneamente tendono a svilupparsi.

Considerata l’attuale debolezza delle forze realmente comuniste, tale partito – per quanto non possa che ispirarsi in qualche modo al Manifesto di Marx ed Engels – dovrà essere un partito sinceramente social-democratico, ossia in cui possano convivere – confrontandosi lealmente nella necessaria lotta per l’egemonia – tanto le forze democratiche rappresentanti gli interessi della piccola borghesia, quanto le forze socialiste e comuniste che rappresentano gli interessi del proletariato.

Tali differenti opzioni, a loro volta articolate al loro interno – ad esempio vi sono forze socialiste e anarchiche legate alla tradizione del socialismo utopistico e componenti marxiste e comuniste legate al socialismo scientifico – potranno convivere valorizzando le differenze, proprio grazie al pieno rispetto del centralismo democratico.

Quest’ultimo, però, per essere correttamente inteso deve definirsi in antitesi – secondo la lezione di Gramsci – al centralismo organico e burocratico, con il quale, da troppo tempo ha finito con il confondersi. Nel primo, infatti, vi è la massima libertà delle diverse tendenze ideologiche e politiche a riunirsi e organizzarsi per dare battaglia politica per l’egemonia sul piano delle sovrastrutture. Fermo restando che, dopo che le problematiche e le diverse soluzioni al riguardo si sono confrontate e scontrate nel modo più franco, rispettoso e democratico, si arrivi a una sintesi a cui tutti devono sentirsi vincolati nell’azione, per far sì che il partito possa davvero tornare a essere un intellettuale collettivo.

Per far vivere il centralismo democratico dovrebbero stabilirsi dei requisiti ideologici minimi da condividere per poter far parte dell’organizzazione, all’interno della quale si ha il pieno diritto di parola e di voto solo in quanto si è attivi, ovvero si milita in almeno una delle strutture organizzative di base in cui si articolerà il partito.

A tale proposito sarà necessario tornare alla tradizione gramsciana fondata sul centralismo democratico e non a quella bordighista fondata sul centralismo organico, ovvero burocratico, e, dunque, il partito andrà strutturato innanzitutto nei luoghi del conflitto sociale, di classe, e non su basi semplicemente territoriali. Quindi al centro del futuro partito non dovranno esserci circoli e/o centri-sociali volti a fare intervento nei singoli territori, finendo così per portare avanti inefficaci pratiche riformiste e ritrovando l’unità con gli altri o nella logica anarcoide della confederazione di strutture territoriali autonome, o sul piano elettoralistico o, infine, sul puro piano dottrinario e massimalista, per cui ci si identifica come rivoluzionari a parole, senza mai dimostrarsi nei fatti coerenti con quanto si afferma.

Quindi centrali debbono tornare a essere – sempre in riferimento alla migliore tradizione italiana, quella di Gramsci – le cellule attive nei luoghi di lavoro, dove necessariamente avviene in forma più diretta e aperta il conflitto di classe decisivo fra capitale e forza-lavoro. Queste ultime dovranno promuovere strutture consiliari in cui sia possibile sperimentare e rodare sin da subito la futura democrazia sovietica. Evidentemente i giovani, in quanto forza lavoro in formazione, si organizzeranno nelle forme più congeniali a condurre la lotta di classe nei luoghi in cui si viene appunto formando la forza lavoro. Mentre gli anziani si organizzeranno in primo luogo nel conflitto di classe relativo alla componente differita del salario (pensioni, tfr, liquidazioni) e, in secondo luogo, in riferimento alla lotta per il salario indiretto, ossia il sedicente “Stato sociale”.

Su quest’ultimo piano si organizzeranno anche i militanti che, per le più diverse ragioni, sono impossibilitati a portare avanti il conflitto di classe sul luogo di lavoro e, dunque, più che nelle strutture consiliari nei luoghi di lavoro promuoveranno e saranno l’avanguardia dei consigli di zona da ricostruire a partire dai quartieri popolari.

Infine le altre due forme dell’esercito industriale di riserva – oltre a quella latente cui fa capo la forza lavoro in formazione – quella fluttuante, composta dalle diverse forme di precariato, e quella stagnante formata dalla massa dei disoccupati, costretti a sopravvivere con i lavoretti istituzionalizzati dal Jobs act, dovranno battersi – oltre che per sussidi di disoccupazione indispensabili alla sopravvivenza fra un lavoretto e l’altro e per forme di formazione retribuita che gli consentano di poter trovare una forma di occupazione più stabile – per l’internalizzazione e per forme di lavoro il più possibile stabile e garantite. In tale ambito sarà necessario lavorare a fianco della forza lavoro immigrata, spesso irregolare, e, dunque, battersi in primis contro ogni forma di razzismo o di sessismo – visto che in tali ambiti spesso sono più presenti le donne, in quanto ancora generalmente soggette alla schiavitù domestica – contro qualsiasi forma di guerra fra poveri.

Infine, per la realizzazione di un intellettuale collettivo, in cui ogni militante sia almeno potenzialmente un quadro, è indispensabile sviluppare forme di formazione permanente in grado di sviluppare dei presupposti ideologici comuni a partire, almeno secondo noi marxisti, dal materialismo storico. Del resto, solo con un partito di militanti attivi e formati sarà possibile superare la logica del “cammellaggio”, che ha negli ultimi anni reso impossibile una reale selezione dei gruppi dirigenti, realizzando la revocabilità in ogni momento di ogni carica, secondo uno dei cardini della democrazia proletaria. Infine la formazione è indispensabile allo sviluppo di intellettuali organici alle classi subalterne, che dovranno necessariamente, almeno nel medio periodo, sostituirsi nelle funzioni dirigenti agli intellettuali tradizionali, provenienti dalle classi dominanti e, perciò, necessariamente meno affidabili quando il gioco si farà duro, in quanto saranno mutati gli attuali rapporti di forza del tutto sfavorevoli alle forze anticapitaliste.

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